Attualita

 

A più di un anno di distanza dal disastro delle frane e dalle piene che hanno trasfigurato il nostro territorio tanto da renderlo irriconoscibile voglio dedicare un breve compianto a chi, a torto o a ragione, ha avuto finora poca considerazione.

Voglio parlare degli animali. Non quelli domestici che al massimo hanno patito il trauma dell’abbandono perché la casa dei loro padroni era isolata o inagibile e neanche degli animali degli allevamenti che avevano un importante significato economico e che sono morti di stenti senza che si riuscisse a metterli in sicurezza.

Voglio parlare dei selvatici, dei muti abitanti dei nostri boschi, delle rive e delle anse.

E non tanto della strage di pesci spazzati via da una piena tumultuosa, densa e torbida mai vista a memoria d’uomo che non ha lasciato scampo a nessuno lungo il corso del fiume, non solo dei tassi e degli istrici tappati dalle frane nelle loro tane impervie. Voglio ricordare la colonia delle nutrie e dei loro commensali alati che viveva stabilmente e pacificamente sopra la chiusa di Arsella.

Una colonia di reietti. Sulle nutrie cade la pesante condanna di essere la causa di rovinose esondazioni dei corsi d’acqua della pianura. Con le loro tane, che scavano fin nel profondo degli argini, si dice che creino le condizioni perché la pressione dell’acqua erompa all’esterno e allaghi le fertili terre contigue.

Poi sono brutte. Ricordano troppo da vicino le topazze con quella lunga coda quasi priva di pelo. Danno anche l’idea di essere creature che amano poco l’igiene e che si accontentino di brucare tutto quello che gli capita a tiro. In ecologia quando si vuole citare un esempio di specie aliena nociva viene fuori per prima sempre lei: importata dall’America Latina nella prima metà del Novecento allo scopo di ricavarne economiche pellicce che allora andavano per la maggiore, scappata o liberata dagli allevamenti una volta passata la moda, si è adattata benissimo nei nostri ambienti per l’assenza di predatori specifici.

Così pensavo male di loro anch’io finché non ho cominciato a frequentare la colonia della chiusa di Arsella.

Passavo da lì quando accompagnavo mia mamma a fare un giro in macchina.

Ci fermavamo soprattutto, oltre che per le nutrie, per l’attrazione principale che era l’oca solitaria, bianca e perlopiù stizzita con gli oggetti in movimento. Ce l’aveva specialmente con gli pneumatici che cercava di mordere slanciando il suo lungo e grosso collo. Se facevi quella di scendere dall’auto veniva a miti consigli e si avvicinava col suo passo lento, goffo, caracollante per scroccare qualcosa da mangiare. Era la superstite di un gruppetto di tre, l’unica riuscita a salvarsi dai predatori a due o a quattro gambe.

Le facevano compagnia un’anatra muta ( sizò in dialetto) e una branchetto di germani che stazionava un po’ più guardingo lungo la corrente.

Alcuni personaggi, casolani di origine o di adozione, portavano quasi quotidianamente verdure, pane secco e altri generi alimentari a tutte queste creature. Era partito tutto dall’insediamento di una nutria femmina, guercia da un occhio, soprannominata Cecchina. Dopo tre anni, sfruttando la loro naturale alta prolificità, le condizioni naturali di un clima che non ha più inverni rigidi e la generosa dieta offerta dai loro amici umani, la colonia aveva raggiunto i 28 esemplari quindi alla terza o quarta generazione.

Proprio nella primavera scorsa erano appena nati una dozzina di cuccioli.

Che mi stupiva era la domesticazione raggiunta da queste nutrie. Soprattutto quelle più giovani avevano una confidenza con chiunque portasse loro qualcosa da mangiare. Dapprima ti studiavano guardinghe per capire la tua intenzione; poi, se intuivano l’idea che portavi il rancio, si avvicinavano un poco alla volta. Se poi capivano che le dosi erano abbondanti vedevi tutto il gruppo traversare la corrente partendo dalla riva opposta dove, sotto i massi, avevano costruito il loro sistema di tane.

La confidenza era massima con i loro assidui amici umani. Quando questi arrivavano e si sedevano sulle sedie le vedevi avvicinarsi e alzarsi sulle zampe posteriori per prendere con garbo il cibo dalle loro mani. E poi quanta cura nella pulizia personale e nel ravviarsi il folto mantello nell’acqua trasparente del Senio.

Insomma a frequentare la colonia un po’ alla volta mi sono dovuto ricredere a proposito dei luoghi comuni sulle nutrie. Almeno per quelle di Arsella dove il rapporto quotidiano con l’uomo aveva portato tutti i componenti della numerosa colonia ad assumere comportamenti domestici tanto che, specie nei giorni festivi, erano parecchie le famiglie che anche da fuori venivano per assistere allo spettacolo.

Un laboratorio di etologia all’aperto.

Ora tutta quella numerosa ed eterogenea famiglia è stata spazzata via dalla piena nella notte fra il 16 e il 17 maggio dello scorso anno. Nel paesaggio sconvolto dall’alluvione e dal disboscamento operato dai servizi di bacino, resta solo l’oca. Si è spostata un poco più a valle, temeraria nel presidiare il suo territorio. Triste e solitaria attende paziente che qualcuno arrivi a farle compagnia.

Roberto Rinaldi Ceroni

Non tutti sanno che nel nostro paese è presente una casa famiglia. Io stessa sono venuta a conoscenza della sua esistenza solo poco tempo fa, e parlandone con amici e parenti mi sono resa conto del fatto che molti ignorassero la presenza di questa realtà a Casola Valsenio. La casa famiglia, per definizione, è una struttura destinata all'accoglienza di minorenni, disabili, anziani, adulti in difficoltà e/o a persone con problematiche psicosociali, e si configura come una comunità di tipo familiare con sede in un’abitazione civile. Mi sono quindi ripromessa di approfondire la conoscenza di questa struttura, e di farla conoscere il più possibile anche a tutti i miei concittadini. Ho incontrato Marcella Marzioni, colei che ha dato vita alla Comunità familiare “I colori”, per capire quando è nata e quale tipo di attività si svolge al suo interno.
Ci siamo incontrate in un pomeriggio di inizio aprile, e non appena sono entrata in casa sua sono stata accolta dai sorrisi di cinque meravigliosi ragazzi: uno stava lavando i piatti, mentre un altro stava sparecchiando la tavola. Gli altri, dopo avermi salutata ed essersi presentati, sono usciti in cortile a giocare con il cane e a terminare il lavoro di raccolta dell’erba appena tagliata nel prato, armati di forcale.
Io e Marcella abbiamo parlato a lungo, e grazie ai suoi racconti sono riuscita ad entrare un po’ all’interno del loro mondo.
La Comunità familiare, situata alla Calgheria, è nata poco prima del Covid: è in quel periodo che Marcella, originaria del Friuli Venezia Giulia, si è trasferita a Casola e ha cominciato i lavori di ristrutturazione della sua nuova casa, per renderla strutturalmente adeguata ad accogliere i ragazzi. Marcella è un’educatrice professionale laureata, che ha alle spalle un passato di coordinatrice in una struttura per minori non accompagnati. È stato proprio questo suo passato lavorativo a spingerla a «cercare di fare di più e a fare meglio»: in una struttura così grande, che accoglieva oltre 80 ragazzi, sentiva molto la carenza di un rapporto individuale con loro, così come nella progettazione di un percorso di vita ad hoc per ciascuno di essi. Ha quindi scelto di mettere a frutto l’esperienza maturata negli anni a contatto con questi ragazzi, e di realizzare una struttura tutta sua, ma più piccola, nella quale il progetto di vita perseguito fosse assolutamente individualizzato e personalizzato sulle esigenze del singolo minore.
La sua comunità familiare può ospitare fino a un massimo di 5 bambini/ragazzi, di età compresa tra i 3 e i 18 anni. Attualmente vivono con lei 5 ragazzi adolescenti, due di origini italiane e tre stranieri.
Marcella sogna in futuro di potersi allargare, arrivando ad accogliere fino a 7/8 ragazzi, ma non di più: «mi piacerebbe poter aiutare più ragazzi, ma senza rinunciare a quell’atmosfera di “famiglia” e di “casa” che si è creata» e che sicuramente è resa possibile dal dover gestire piccoli numeri. Le piacerebbe anche valorizzare ulteriormente gli ampi spazi esterni, piantando alberi da frutto e creando uno spazio per galline e capre. «A contatto con il verde questi ragazzi possono tirare un sospiro di sollievo, vivere un senso di libertà e pace mai sperimentato prima. Mi piacerebbe inoltre ristrutturare il capannone di fianco alla casa, e creare degli appartamenti nei quali i ragazzi possano sperimentare una vita autonoma una volta diventati maggiorenni… una sorta di “dopo di noi”».
I ragazzi che vengono affidati a lei sono generalmente minori stranieri non accompagnati, che hanno lasciato il proprio paese e la propria famiglia in cerca di condizioni di vita migliori, nella speranza un giorno di poter portare in Italia anche la propria famiglia o comunque di garantire loro una stabilità economica, oppure ragazzi italiani allontanati dalle proprie famiglie, considerate non idonee ad occuparsi dei propri figli. «Tutti loro hanno ancora rapporti con la famiglia di origine: nel caso dei ragazzi stranieri, è un rapporto costante, si sentono praticamente ogni giorno. Nel caso dei ragazzi italiani è un po’ più complicato: essendo stati allontanati dal nucleo familiare a causa di una situazione problematica, generalmente gli incontri avvengono sotto la supervisione di un assistente sociale».
Questi ragazzi le vengono affidati da un Comune o da una ASP, dopodiché lei se ne prende cura a 360°: gestisce gli aspetti scolastici, sanitari, relazionali e affettivi, così come eventuali rapporti con il servizio psicologico e di neuropsichiatria. Li aiuta con i compiti, li accompagna nei vari spostamenti e insegna loro l’italiano: alcuni arrivano senza sapere la lingua, e necessitano quindi di una prima alfabetizzazione. All’inizio ci si può aiutare con l’inglese o con il francese… «oppure con Google traduttore!»
Anche la collaborazione con la scuola in questa fase è di fondamentale importanza: «innanzitutto bisogna trovare un istituto che accolga il ragazzo ad anno scolastico iniziato… dopodiché, l’anno successivo, il ragazzo potrà cambiare scuola e scegliere quella che più gli piace, in base ai suoi interessi». Marcella afferma di aver sempre trovato grande disponibilità e collaborazione da parte degli istituti scolastici e dei docenti, i quali hanno anche predisposto, laddove necessario, un Piano Didattico Personalizzato che consentisse ai ragazzi di concentrarsi in un primo momento principalmente sulle attività pratiche, mettendo da parte le materie di studio, in modo da consentirgli di imparare la lingua.
Marcella, insomma, si occupa di questi ragazzi e di ogni ambito della loro vita 7 giorni su 7, 24 ore su 24. La cosa importante, dice, è «seguirli sia in maniera singola, che nel microgruppo, che nel macrogruppo»: dare quindi spazio alle esigenze del singolo, ma anche alle relazioni che si instaurano tra i vari ragazzi. Quando un nuovo membro entra a far parte della comunità familiare, si va inevitabilmente incontro ad una ridefinizione dei ruoli e delle relazioni, e non sempre è facile andare d’accordo. «Generalmente un nuovo ingresso è preceduto da un breve preavviso, specialmente se i ragazzi arrivano da situazioni di emergenza. Ma gli altri sono preparati al suo arrivo, prima di quel momento lavoro con loro sulle relazioni. C’è da dire che comunque sono sempre tutti molto solidali con la sofferenza che quel ragazzo si porta dietro: loro stessi l’hanno provata, quindi sono accoglienti e rispettosi, gli lasciano spazio».

 

Domenica 7 aprile 2024, alle ore 17.30, presso la Chiesa di San Francesco di Casola Valsenio si è tenuto un bel concerto in memoria di Padre Callisto Giacomini, frate cappuccino che prestò la sua opera religiosa e musicale a Casola tra il 1972 e il 1975.

Eseguito dalla corale “Santa Maria in Viara” di Castel San Pietro (precedentemente diretta da Padre Callisto), insieme al coro “Casual Gospel” di Castel San Pietro, sotto la direzione di Silvia Gisani, il concerto ha voluto ricordare la figura di questo sacerdote che a Casola Valsenio ha contribuito in maniera determinante alla formazione di molti musicisti.
Ad accompagnare la corale due professori di musica casolani: Renato Soglia alla Tromba e Roberto Ricciardelli al Clarinetto, che hanno iniziato la loro attività musicale proprio con questo frate.
Padre Callisto (battezzato Luigi), era nato a Perticara di Novafeltria (PU) il 10 aprile 1920. Entrato da bambino nel seminario serafico, il 6 agosto 1936 emette la sua professione temporanea.
Dopo gli studi filosofici e teologici, il 15 aprile 1941 si consacra per sempre a Dio con la professione solenne e il 10 aprile 1943, a 23 anni, viene ordinato sacerdote nella Cattedrale di Bologna.
Dopo l’ordinazione, ha iniziato la sua attività di insegnante a Faenza (1943) e di presbitero nel servizio in alcune parrocchie (come Marradi), mentre insieme ai confratelli è stato tra gli sfollati per la guerra a Sommorio.
Uomo dalla cultura smisurata, si dedica con passione in particolare alla musica. Nel 1946 inizia a studiare musica al Conservatorio di Bologna, dove, in pochi anni, consegue i diplomi di Musica corale e Direzione di coro, Composizione e Strumentazione per Banda. Abilitatosi a Firenze in Canto Corale, nel 1968 si diploma al Conservatorio G. Verdi di Milano anche in Composizione Polifonica Vocale.
Molte le cariche svolte da questo frate: Delegato provinciale per l’insegnamento del canto sacro (1953), Maestro di coro e sacre cerimonie a Roma (1954), insegnante di Musica nelle scuole statali (1967). In quest’ultimo ruolo insegna Musica presso la Scuola Media di Casola Valsenio tra 1l 1973 e il 1975.
Nel 1976 vince un concorso al Conservatorio di Bologna, dove inizia a insegnare Strumentazione per banda.
Nel 1991 è membro della Commissione per la Musica sacra dell’Arcidiocesidi Bologna.
Oltre alla musica, ha messo a disposizione le sue capacità anche in altri settori: infatti è stato anche formatore (direttore, precettore, direttore spirituale) ed insegnante di diverse materie nei seminari e in vari studentati: a Lugo (1948-49; 1955-63; 1964; 1966-68), Castel S. Pietro (1949), Ravenna (1950-52) e poi direttore dello Studentato di Teologia a Bologna (1965). Ha ricoperto anche incarichi di responsabilità come guardiano a Faenza (1963), vicario della fraternità di Imola (1968-72) e come Definitore provinciale (1963-66).
Nel 1983 viene trasferito a Bologna, per seguire meglio le sue attività in Conservatorio, e qui muore il 6 novembre 2005, ma rimane viva la grande eredità umana e musicale che ha lasciato nella comunità casolana e in tutte le persone che l’hanno conosciuto.

Pier Giacomo Zauli


Ricordo personale di padre Callisto Giacomini

Incontrai per la prima volta Padre Callisto Giacomini nel 1972. Il fratello di mia nonna materna, Giuseppina, era Padre Roberto Rivola, un frate cappuccino, sacerdote a Forlì, nella Chiesa di Santa Maria del Fiore, che, spesso, veniva a trovare la nostra famiglia a Casola Valsenio.
Io avevo iniziato a studiare musica nel 1971 presso la scuola di musica locale e avevo scelto come strumento la tromba. Mio zio frate, che era al corrente di questa mia scelta, un giorno arrivò da noi con una “notizia bomba”: nel convento di Casola era stato assegnato un suo confratello, Padre Callisto Giacomini, suo grande amico e ottimo musicista. Avevano frequentato insieme il seminario e mio zio si vantava di cantare come basso nel coro del seminario diretto proprio da Padre Callisto.
Dopo pochi giorni il nuovo frate arrivò a Casola e mio zio mi accompagnò subito da lui per presentarmelo.
Ricorderò quel momento per tutta la vita: sentivo suonare un pianoforte e percorrendo i meandri del convento di Casola raggiungemmo la porta da dove proveniva quel suono. Vidi quell’uomo dallo sguardo simpatico, furbo, intelligente, che, dopo aver chiesto il mio nome, mi invitò ad andare ogni tanto da lui, per suonare insieme, invito che non mi feci ripetere due volte.
A 12 anni suonavo mediamente 2 o 3 ore tutti i giorni e trascorrevo diversi pomeriggi a studiare le parti con Padre Callisto. In me cresceva costantemente la voglia di far musica.
Ricordo le prime esibizioni pubbliche presso la Chiesa dei frati, alla S. Messa della domenica mattina (ore 7.00…): “Ave Maria” di Schubert, “Ave Maria” di Gounod, “PanisAngelicus” di Frank. Per un ragazzo di 12/13 anni la cosa era straordinaria.
Poco tempo dopo Padre Callisto decise di creare un gruppo vocale-strumentale: furono contattati altri ragazzi che studiavano strumenti musicali e diverse bambine che amavano cantare.
I ragazzi che componevano la parte strumentale, oltre al sottoscritto, erano: Roberto Ricciardelli al clarinetto, suo fratello Romano alla Tromba, Giuseppe Pozzi e Valerio Sagrini al Clarinetto, Roberto Sangiorgi al Flauto.
Un organico particolare, ma Padre Callisto arrangiava i brani e li preparava secondo le capacità di ogni singolo esecutore. L’effetto era garantito!
Nacque così un gruppo che noi chiamavamo “I Callistini” e con questa formazione ci esibivamo in concerti non solo a Casola ma in tutta Italia.
Questo gruppo vocale strumentale era fortemente supportato da tante persone di Casola Valsenio e anche di Sommorio.
Padre Callisto ha lasciato a Casola (e in tutti i luoghi in cui ha operato) un ricordo indelebile! Riusciva a trasmettere felicità, amicizia, simpatia, spirito di collaborazione e, nello stesso tempo, cultura e sapere.
Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo, di collaborare con lui, di operare insieme a lui, è ben consapevole di aver ereditato beni preziosi, che porterà con se per tutta la vita.

Renato Soglia

Il Giardino delle Erbe “Augusto Rinaldi Ceroni”, nel cuore della suggestiva località di Casola Valsenio, a detta di molti visitatori è un “luogo incantato” che accoglie gli amanti della natura e gli appassionati di piante ed erbe officinali, in un viaggio senza tempo attraverso le diverse stagioni.
Forse molti non sanno che Il Giardini delle Erbe è di proprietà della Regione Emilia Romagna, la quale ha affidato la gestione del Giardino delle Erbe all’Ente Parchi e Biodiversità Romagna; a sua volta, mediante gara di appalto ha incaricato, fino a dicembre del 2024, per la conduzione del Giardino delle Erbe, la Montana Valle del Senio mentre per l’organizzazione degli eventi, le attività didattiche, visite guidate, laboratori, picnic, aperitivi tematici e corsi tecnici specializzati, la coop. Atlantide.
Fa parte del Sistema Museale della Regione Emilia Romagna e del circuito degli Orti Botanici Italiani. Collabora con la SIROE Società Italiana Ricerca Olii Essenziali ed è socio FIPPO Federazione Italiana Produttori Piante Officinali. Collabora ed è un punto di appoggio sugli studi delle officinali per molte Università Italiane; negli ultimi anni ci sono state collaborazioni per ricerche e master, con le Università di Bologna (Agraria, Veterinaria, Farmacia, Erboristeria), Modena e Reggio Emilia (Farmacia), Roma la Cattolica e la Sapienza (Farmacia, Biologia), Firenze (Medicina e chirurgia, Biologia), ecc.
Riteniamo e vogliamo che il Giardino delle Erbe sia un bene di tutti, un luogo sempre aperto al pubblico, visitabile nel rispetto di quanto si trova, in qualsiasi momento dell’anno. I locali interni invece sono aperti solo durante gli orari ufficiali di apertura e di lavoro.
Un’altra curiosità: quest’anno ricorrono i 49 anni dalla data della inaugurazione nella sua sede attuale e 86 anni dal 1° Giardino sperimentale e campo catalogo voluto dal Prof. Augusto Rinaldi Ceroni nel 1938.
Le attività didattiche e le visite guidate quest’anno sono iniziate alla fine di marzo con i laboratori ed i corsi tecnici legati al concorso “Il Piatto Verde” organizzato dall’Istituto Alberghiero Pellegrino Artusi di Riolo Terme in collaborazione con IF Imola Faenza. Riporto sotto il programma degli eventi in programma quest’anno da maggio ad ottobre.
Maggio sarà il mese dedicato alla rassegna di eventi di “Erbe in Fiore”: questo infatti è il periodo in cui il Giardino si trasforma in una sinfonia di colori e profumi, dando vita ad un programma ricco di appuntamenti tematici.

Incontro con il dottor Mirri, appena rientrato dal Togo
 
 
 
Il giorno 27 marzo alle ore 20:30 nella biblioteca comunale, finalmente, abbiamo incontrato il dottor Mirri. Era da tempo che alcune persone di Casola Valsenio desideravano organizzare un incontro con il dottore di Imola perché sapevamo delle sue missioni in uno dei paesi più poveri dell’Africa, il Togo. “ Quando senti parlare di Togo non ti domandi neppure cos’è perché la prima cosa che ti viene in mente è un  biscotto con una forma caratteristica: lungo lungo stretto stretto ricoperto di cioccolato nero nero, ecco il Togo è proprio così!” scrive nel suo libro. Si affaccia sul golfo di Guinea, è vasto come il Lazio, la lingua ufficiale è il francese, i circa 7 milioni di abitanti vivono per lo più in villaggi rurali. Ci sono dei legami tra il dottor Mirri e Casola Valsenio. Uno in particolare, il “camminare”, ci ha dato l’occasione di incontrarci più volte, camminare insieme  verso una meta, camminare per incontrare, camminare per conoscere, camminare e pregare. Per varie ragioni l’incontro è avvenuto solo quest’anno e proprio dopo pochi giorni dal rientro dall’ultima missione del dottore in Togo, il paese dell’Africa occidentale, dove è già stato varie volte, dal lontano 2004. Ci racconterà come, quando, perché è nata in lui questa voglia di andare, di camminare più lontano, anche nelle strade dell’ Africa, anche verso le persone dell’Africa. La sua esperienza è individuale, non può essere generalizzata perché riflette e racconta una piccola parte di spazio e tempo  di questo grande complesso continente. Però può servirci ad illuminare la nostra conoscenza. Il titolo dato alla serata è ”L’Africa è grande, ma da qualche parte bisogna cominciare”.
Siamo tutti orecchi per ascoltare il dottor Mirri , forse faremo anche domande per avere risposte più sincere e meno ideologiche, da chi lavora sul campo.
 Il dottore racconta come nel lontano 2004 gli capita di poter andare in Africa perché un amico deve portare due ecografi e nella missione c’è un posto libero. Perché no?  E stato amore a prima vista, soprattutto perché là c’è bisogno di rispondere a bisogni essenziali: una cura urgente per gli occhi, un parto difficile, un pozzo da scavare, un tetto da rifare, qualche banco da aggiustare e qualche quaderno da portare ai bambini. Così, nel corso tempo, questo viaggio è diventato un appuntamento fisso, due volte all’anno parte, con un gruppo di medici e infermieri e qualche altro volontario. 
Capiamo subito che questo è un incontro con una persona che si è innamorata dell’Africa, che ha una sensibilità religiosa, ma soprattutto umanistica e democratica, crede nell’amicizia tra le persone e tra i popoli, dal libro dei Proverbi una massima è  stata fatta sua: “ Non negare un beneficio a chi ne ha bisogno se è in tuo potere farlo”.
Dopo il primo viaggio pensa ( e scrive nel suo libro): 
“Però mi riprometto che l’avventura continui. Deve continuare. Il mal d’Africa è qualcosa che ti entra dentro, ti prende e ti costringe a non dimenticare chi ha mille volte meno di te, ti spinge a raccontarlo, a voler coinvolgere chi incontri e che non può rendersi conto di ciò che non ha mai visto. TU DIVENTI I LORO OCCHI, TU VUOI ESSERE I LORO PENSIERI, TU SEI LA MANO CHE ASPETTA APERTA PER ESSERE COLMATA PER CHI E’ LAGGIU’ CHE ASPETTA …E NON DIMENTICA.”
Intanto si è  anche fondata l’ organizzazione laica AVIAT, con finalità di aiuto alle persone senza distinzioni confessionali, aperta a tutti e formata da volontari con diversi indirizzi religiosi, culturali e politici che raccoglie fondi ed organizza  interventi per il Togo, a cui si può devolvere il 5 x 1000. E’ stata fondata anche per dare visibilità e maggiore concretezza a un’attività di aiuto al Togo, riunendo volontari italiani amici di questo paese.
Un’ esperienza come la sua è un’ esperienza di volontariato  e qui a Casola il volontariato ha radici profonde, quindi durante la serata si avverte  una vivace attenzione verso le situazioni di emarginazione e povertà raccontate dal nostro ospite. Il dottore ci fa vedere molte immagini di quella lontana realtà, lontana non solo per lo spazio fisico che c’è tra noi, ma anche per le condizioni di vita così legate alla pura sopravvivenza,  
 La sensibilità e l’attenzione dei presenti sarà grande , gli avevamo detto, ed è così. 
C’è sempre qualcosa di particolare che colpisce ciascun ascoltatore in una serata come questa,  immagini diverse rimangono nella mente:  
Sandra ricorda la serenità e la semplicità con cui il dottore  ha raccontato la sua esperienza. La gioia delle persone che rivelavano la sicurezza e la felicità per aver trovato qualcuno che dà una risposta ai loro bisogni.
Pierino ricorda le immagini dei bambini  operati di cataratta. E poi la fondazione di una  associazione che organizza razionalmente e su più vasta scala gli interventi …
Luisella ricorda i bambini che cercano nella spazzatura, la scuola vecchia e la scuola nuova
Dana le macchine da cucire con cui producono camicie allegrissime, che ahimè vengono vendute in numero limitato…
Teresa le corte zappe che faticosamente servono a lavorare la terra, assolutamente insostituibili per loro che lasciano appoggiate al muro dei capanni le nostre zappe occidentali più lunghe, più efficienti, più comode….

Non tutti sanno che nel nostro paese è presente una casa famiglia. Io stessa sono venuta a conoscenza della sua esistenza solo poco tempo fa, e parlandone con amici e parenti mi sono resa conto del fatto che molti ignorassero la presenza di questa realtà a Casola Valsenio. La casa famiglia, per definizione, è una struttura destinata all'accoglienza di minorenni, disabili, anziani, adulti in difficoltà e/o a persone con problematiche psicosociali, e si configura come una comunità di tipo familiare con sede in un’abitazione civile. Mi sono quindi ripromessa di approfondire la conoscenza di questa struttura, e di farla conoscere il più possibile anche a tutti i miei concittadini. Ho incontrato Marcella Marzioni, colei che ha dato vita alla Comunità familiare “I colori”, per capire quando è nata e quale tipo di attività si svolge al suo interno.

Ci siamo incontrate in un pomeriggio di inizio aprile, e non appena sono entrata in casa sua sono stata accolta dai sorrisi di cinque meravigliosi ragazzi: uno stava lavando i piatti, mentre un altro stava sparecchiando la tavola. Gli altri, dopo avermi salutata ed essersi presentati, sono usciti in cortile a giocare con il cane e a terminare il lavoro di raccolta dell’erba appena tagliata nel prato, armati di forcale.
Io e Marcella abbiamo parlato a lungo, e grazie ai suoi racconti sono riuscita ad entrare un po’ all’interno del loro mondo.
La Comunità familiare, situata alla Calgheria, è nata poco prima del Covid: è in quel periodo che Marcella, originaria del Friuli Venezia Giulia, si è trasferita a Casola e ha cominciato i lavori di ristrutturazione della sua nuova casa, per renderla strutturalmente adeguata ad accogliere i ragazzi. Marcella è un’educatrice professionale laureata, che ha alle spalle un passato di coordinatrice in una struttura per minori non accompagnati. È stato proprio questo suo passato lavorativo a spingerla a «cercare di fare di più e a fare meglio»: in una struttura così grande, che accoglieva oltre 80 ragazzi, sentiva molto la carenza di un rapporto individuale con loro, così come nella progettazione di un percorso di vita ad hoc per ciascuno di essi. Ha quindi scelto di mettere a frutto l’esperienza maturata negli anni a contatto con questi ragazzi, e di realizzare una struttura tutta sua, ma più piccola, nella quale il progetto di vita perseguito fosse assolutamente individualizzato e personalizzato sulle esigenze del singolo minore.

Il Nuovo Cinema Senio, in questi due anni, ha svolto un ruolo fondamentale nel tessuto culturale di Casola Valsenio. Le sue proiezioni cinematografiche, che si tengono tra inizio novembre e fine marzo, hanno regalato emozioni e riflessioni a un pubblico molto variegato. Sono stati proiettati 22 film, per un totale di 44 proiezioni, ma il cinema è molto più di una semplice sala buia.
È stato il cuore pulsante di numerose iniziative, coinvolgendo associazioni locali, scuole e persino eventi istituzionali. Oltre 25 eventi hanno animato la vita del paese, creando un legame tra cultura e comunità.
Oggi, abbiamo il piacere di intervistare il Presidente dell’Associazione, Gianantonio Gentilini, meglio conosciuto come Gianni.

Puoi parlarci un po’,in generale, della società Nuovo Cinema Senio?
L’Associazione “Nuovo Cinema Senio” venne costituita nel mese di ottobre del 2020 da alcune persone, in parte reduci dall’esperienza della vecchia associazione che era giunta all’epilogo della sua storia.
Le vicende del COVID che hanno condizionato la vita di tutti noi, hanno sortito l’effetto di ibernare per altri due anni l’avvio delle attività. A fine 2022, finalmente, con un gruppo anche più cospicuo si è riusciti a partire.
Va detto che l’Amministrazione comunale, in particolare nei membri della giunta: sindaco e assessori, è stata basilare nel fornire il supporto affinchè il progetto potesse realizzarsi e non possiamo fare altro che ringraziarli, anche pubblicamente, tramite di voi.
La compagine, sia nel consiglio direttivo che nella base sociale, è eterogenea e va a pescare un po’ in tutto il tessuto sociale e culturale della nostra comunità, il chè non può che essere positivo.
Una menzione vorrei dedicarla a Marino Fiorentini che risulta essere nella lista dei soci fondatori. Con lui ci siamo ritrovati a collaborare all’inizio della fase operativa poi, come tutti sanno, ci ha lasciati prematuramente lasciando un vuoto non indifferente sia a livello umano che professionale.

Abbiamo notato un approccio diverso nel proporre l’offerta cinematografica rispetto al passato. Cosa puoi dirci in merito?
Questa, probabilmente, è la grossa novità che questo consiglio direttivo ha proposto al pubblico. Quando ci sono titoli “importanti” oppure ricorrenze di valenza sociale, come la Festa della donna o la Giornata della memoria, non ci si limita a comperare una pellicola e attaccare il manifesto in bacheca facendo un po’ di promozione ma si crea un evento completo coinvolgendo figure che siano inerenti al film stesso o distribuendo gadget, aperitivi… o promuovendo altre iniziative che nascono di volta in volta. Pensiamo che questo approccio sia ben accetto dalla gente e ci pare cheil riscontro sia positivo.
Sicuramente cerchiamo di non perdere nessuna occasione per fare promozione e, devo dire che, a mio avviso, compatibilmente con gli strumenti che abbiamo a disposizione, la cosa è gestita molto bene dai soci che hanno in carico questa delega.


Ci dici, per l’appunto, quali iniziative,oltre le proiezioni cinematografiche, hanno coinvolto la sala cinematografica? E quali sono state le collaborazioni o eventi speciali?

Sicuramente di eventi speciali ce ne sono stati. Voglio ricordare quelli che hanno coinvolto personaggi come la volontaria di ONG, Giulia Lonoce, che si è intrattenuta con il pubblico prima della proiezione di “Io Capitano”. Aggiungo il video intervista dell’attrice Cecilia Bertozzi che ha introdotto la proiezione di “Comandante” e l’intervento di Maurizio Giordani per la proiezione di “Chi segna vince”.
Abbiamo inoltre una collaborazione consolidata con L’Anpi che per la Giornata della memoria si impegna a fare in modo che ci sia una proiezione di un film simbolo da far vedere a tutti i ragazzi delle scuole.
La sala è a disposizione per altri eventi che chiedano il patrocinio al comune. Nel periodo recente ho in mente la pubblica assemblea di febbraio sul tema alluvione, la proiezione del documentario di Bellini “Mare di Fango” non ultimo il processo alla vecchia per la festa di primavera.
Qualsiasi evento si organizzi, anche se non ci coinvolge direttamente, comporta che ci siano soci che si rendono disponibili per tutte le attività collaterali che non sono poche ed è anche grazie alla volontà e la dedizione di queste persone che l’associazione riesce ad andare avanti. Un grande ringraziamento a tutte queste persone penso sia dovuto e che parta dal cuore.


A tal proposito abbiamo rilevato qualche malumore dopo la vicenda del processo alla vecchia nel quale un po’ di gente è rimasta esclusa dall’ingresso alla sala per supero della capienza, cosa pensate di fare?

Di recente, è diventata celebre l’inchiesta di una giovane giornalista romagnola – Giulia Innocenzi – che ha indagato sulla connessione tra l’industria della carne, le lobby e il potere politico, all’interno dei paesi UE. L’inchiesta prende forma nel docu-film investigativo Food for Profit (aprile 2024) [Proiezione ai VECCHI MAGAZZINI 11 giugno 2024], da lei diretto assieme al regista internazionale Paolo d’Ambrosi. Il documentario è apparso – in versione ridotta – in una recente puntata di Report su Rai 3 (visibile in streaming), programma in cui Giulia aveva già partecipato con un’indagine sotto copertura in cui era riuscita ad entrare nel maxi allevamento-grattacielo di maiali in Cina (sempre visibile in streaming su Rai), oltre ad essere proiettato in molti cinema italiani proprio in queste settimane. Il film ha l’intento demistificatorio di portare alla luce le controverse intenzioni di alcuni rappresentanti della politica a Bruxelles che, sull’impulso delle lobby dei grandi allevamenti intensivi, vorrebbero investire sempre più miliardi – e già lo fanno – nel settore agro-alimentare. Ma i finanziamenti pubblici della PAC – Politica agricola comunitaria – vanno per oltre la metà al 10% agli imprenditori più ricchi e solo il 6% delle sovvenzioni al 50% di quelli più poveri, anche se attualmente le riforme stanno cambiando (dati Matthews 2022). Oltremodo, l’obiettivo è sicuramente quello di raccontare, attraverso la crudezza delle immagini, le condizioni aberranti a cui sono sottoposti certi animali – gli stessi a cui l’Unione Europea dovrebbe garantire i diritti per evitare loro sofferenze e inutili maltrattamenti – nonché quello di riprendere situazioni gravi che in quanto tali avrebbero un impatto ecologico sul territorio e di conseguenza sul pianeta.

Premessa – l’articolo che segue non ha alcun interesse a screditare l’attività degli allevatori o della loro professione in generale, di chi lavora onestamente, delle aziende agricole dislocate anche sul nostro territorio. L’inchiesta riportata da Giulia nel suo film si riferisce agli allevamenti che non rispettano le normative europee: qui non facciamo di tutta l’erba un fascio. Proprio per evitare discriminazioni di categoria, è stata condotta una piccola ricerca sul territorio, raccogliendo opinioni diverse tra allevatori e professionisti del settore, al fine di avere gli elementi necessari in grado di formare anche l’opinione dei lettori di questo articolo, che vestono i panni dei consumatori nella realtà quotidiana. L’obiettivo è proprio quello di fare chiarezza sul tema e generare un dibattito aperto che possa stimolare la riflessione sui contenuti qui proposti.

Problematiche e dati alla mano

Siamo franchi: molti di noi mangiano carne, spesso. Personalmente, mangio carne da tutta la vita. A volte, se manca la pasta o la carne, mi pare di non aver nemmeno pranzato. Quindi non ho mai disdegnato: la bistecca di vitello, la costola d’agnello, la fiorentina, lo stufato, la salsiccia grigliata; ma anche gli insaccati, il brodo con il lesso dentro, il ripieno dei cappelletti (i nostri di collina), il ragù, le polpette ecc. In Romagna, poi, l’alimentazione e lo stare a tavola rientrano nella nostra cultura più intima e casereccia, a cominciare da quella trasmessa dai nostri nonni, molti dei quali contadini, che, nel periodo invernale, uccidono il maiale per fare scorta tutto l’anno. Il maiale può essere considerato l’animale simbolo della Romagna dal punto di vista alimentare, la cui storia rimanda agli antichi confini di queste terre: Longobardi (poi Franchi) e Bizantini. A pensarci, la piadina nasce con lo strutto, non con l’olio. Ergo, l’allevamento porta con sé un enorme valore culturale da cui non possiamo prescindere e non è semplicemente finalizzato alla mera alimentazione. Questo porta a coinvolgere i sentimenti e a complicare i ragionamenti. Personalmente, tutto ciò mi è sempre andato bene (almeno finora): d’altra parte, se la carne si vuol mangiare, l’animale si deve uccidere.

Negli ultimi anni, tuttavia, il tema della produzione di carne è tornato alla ribalta in conseguenza all’emergenza climatica: all’esigenza di invertire la rotta in termini di emissioni di CO2, alle ragioni del discorso ecologico e dell’economia sostenibile. Riportiamo qui alcuni dati scientifici, ad oggi ancora oggetto di dibattito tra gli esperti:

  • l’allevamento tradizionale sarebbe responsabile di circa il 14% delle emissioni di gas serra e il 32% delle emissioni di gas metano riconducibili all’attività umana, ed è anche una delle principali cause di perdita di biodiversità – perché per nutrire il bestiame grandi aree boschive vengono convertite in monocolture (come la soia per esempio). Tuttavia si sta discutendo molto sull’impatto effettivo causato dal settore agricolo: il dato scenderebbe di molto se si considerano gli assorbimenti (l’emissione di CO2 in Europa scenderebbe dall’11% al 4%); inoltre, bisognerebbe distinguere i gas a vita breve (metano) da quelli a vita lunga (CO2), utilizzando parametri differenti. Sul tema dell’assorbimento, per esempio, si dovrebbe tenere conto che gli animali allevati, come i bovini, trasformano foraggi e cellulosa in proteine nobili (carne e latte), mentre rilasciano, per metabolismo, metano e CO2 – che sono altro rispetto alle sostanze inquinanti emesse in atmosfera per combustione. Di vero, però, c’è da dire che gli allevamenti intensivi impattano molto a partire dai liquami degli animali, i quali generano particolato secondario (fonte Greenpeace e ISPRA, 2020: in Italia gli allevamenti intensivi sono responsabili del 17% di emissioni di PM2.5, dannosi per la qualità dell’aria). È importante però distinguere, per esempio, il letame dal liquame: il primo deriva da allevamento su paglia, si trasforma in humus che lentamente genera fertilità nei campi, mentre il secondo è un sottoprodotto dell’agricoltura industriale – altro non è che l’acqua nera proveniente dal lavaggio delle stalle – e non subisce trasformazioni ma va diretto nel terreno, con rilascio di nitrati in falda acquifera e ammoniaca in atmosfera.
  • Riguardo all’impronta idrica della carne – ossia l’utilizzo dell’acqua nel processo di produzione della carne, che tiene conto quindi della produzione dei mangimi, l’allevamento, la depurazione degli ambienti e la macellazione – convenzionalmente si aggirerebbe intorno ai 15.000 litri per 1kg di carne (anche se il Water Footprint Network non terrebbe conto che la maggior parte dell’acqua utilizzata è piovana evo-traspirata dal terreno delle colture destinate ai mangimi, e torna dunque al suo ciclo naturale: in tal senso, il dato si ridurrebbe di parecchio, circa dell’80%). Di fatto, l’impronta idrica per la produzione alimentare in generale vede al primo posto la carne: quella bovina – seguita da fragole e frutta secca – poi ovina, suina e pollame.
  • Una cosa è però certa: la carne ha anche e soprattutto un impatto sulla salute. Citiamo pure che l’OMS ha dichiarato la carne rossa dannosa a lungo andare per l’organismo (malattie cardiovascolari, diabete), consigliandone un consumo moderato, e ha inserito le carni lavorate (insaccati, salsicce, wurstel, hamburger ecc.) nel gruppo 1 dei prodotti sicuramente cancerogeni (secondo l’IARC esiste una netta correlazione tra questi alimenti e il rischio di sviluppare il cancro) anche a causa della presenza di nitriti e nitrati utilizzati per processarle, conservarle e proteggerle dai patogeni esterni. Inoltre, con l’avvento dell’età globalizzata, siamo diventati i più grandi consumatori di tutti i tempi, anche e soprattutto di carne, mangiando 3 volte il corrispettivo delle generazioni precedenti (a dispetto della dieta mediterranea).

Che gli allevamenti influiscano sull’impatto ambientale, come ogni attività umana, non c’è dubbio. Se cerchiamo il pelo nell’uovo, tentando di definire che cos’è l’allevamento “intensivo”, entriamo in un dibattito controverso. In effetti, quando si parla di allevamento intensivo ci viene restituita un’immagine di animali ammucchiati in grandi capannoni, costretti nei loro box ad alimentarsi e riprodursi rimanendo pressoché immobili. E in questo, in buona parte, è vero: soprattutto se pensiamo alle mucche da latte, alle scrofe, ai polli e alle galline ovaiole (a riguardo dei pulcini maschi delle ovaiole – non geneticamente selezionati per la carne – si apre un capitolo a parte, dato che vengono soppressi a migliaia dopo la nascita perché non sono vantaggiosi economicamente. Anche sull’allevamento di vitelli e agnelli ci sarebbe da fare una questione a sé). Ma ci sono dettagli che per buona informazione vanno citati: come l’esistenza di norme che regolamentano l’ampiezza di tali spazi e la distribuzione dei capi di bestiame. Se i detrattori dell’allevamento intensivo lo considerano un’attività di tipo “industriale” che non rispetta il benessere animale ed è fonte di pericolo per igiene e salute, i sostenitori ritengono che tali allevamenti garantiscano invece protezione, un’adeguata disponibilità di alimenti e acqua che riduca gli sprechi, nonché maggiore controllo e possibilità di curare gli animali da malattie infettive. Esistono dei protocolli molto severi – in Italia ancora di più – che prevedono controlli serrati, dalla nascita dell’animale fino al termine del suo ciclo vitale, dall’alimentazione all’allattamento e svezzamento dei cuccioli, ecc. L’allevamento estensivo – il quale ci riporta ad un’immagine bucolica del rapporto uomo-natura – influisce sì sul benessere dell’animale, garantendogli una vita quanto più simile allo stato brado, ma – secondo i tecnici – ciò non significa necessariamente che l’animale libero sia sempre e comunque più sano. A livello sanitario, inoltre, la normativa attualmente sarebbe quella di somministrare antibiotici il meno possibile, a causa della resistenza batterica sempre maggiore (con cui dovremo fare i conti in un futuro non lontano). Insomma, la zootecnia vorrebbe rassicurarci presentandoci il modello intensivo “più vicino” all’esigenze dell’animale – almeno idealmente – che non il crudele “tritacarne” a cui siamo abituati a pensare. Le condizioni di igiene e benessere approssimative, che quarant’anni fa potevano essere considerate normali, oggi non sono più tollerate: in passato gli animali non avevano diritti, erano maltrattati e subivano una fine più brutale. Parlando con un zootecnico, chiaramente mi dice che: non è nell’interesse di nessuno lasciare che l’animale patisca sofferenze o stress eccessivo, dato che ne influirebbe sul suo rendimento in termini di sviluppo e sul prodotto finale.

Intervista al vice sindaco Maurizio Nati

In questi ultimi mesi diverse son state le occasioni pubbliche che hanno affrontato i temi del post alluvione.

Il 6 febbraio al cinema Senio un folto pubblico ha ascoltato e dibattuto per più di due ore le questioni legate alle procedure di richiesta dei danni e delle risorse disponibili. Erano presenti il vice presidente della regione Irene Priolo, il nostro sindaco, il responsabile della Protezione Civile della Prov. Di Ravenna Geologo Marco Bacchini, la consigliera Manuela Rontini.

Nella serata del 9 dopo un primo momento informativo è stato proiettato il docu film “la grande frana” con la sala gremita di persone che hanno potuto rivivere il dramma di quei tragici giorni di maggio. Matteo Bellini che ha curato la regia, il montaggio e girato parte delle scene ha saputo rievocare i sentimenti crudi e intensi di quei giorni riproponendo il 23 la seconda parte del suo lavoro.

A tutte le serate era presente anche Maurizio Nati che ha rendicontato lo stato dei finanziamenti , dei lavori realizzati e in corso d’opera.

Maurizio ci puoi aiutare a fare il punto della situazione complessiva dei lavori pubblici straordinari e ordinari che interessano il nostro comune?

Partiamo dalle risorse. Ad oggi il nostro comune ha potuto saldare tutti i lavori della prima fase, quella cosiddetta di somma urgenza, per un importo pari 2.521.942,00 € di cui 480.000,00 soltanto per il ripristino della viabilità nel tratto delle Case Bruciate. Ora siamo nella fase di messa in sicurezza delle strade comunali che ricordiamo hanno uno sviluppo di 91 chilometri quelle asfaltate e 13 Km quelle bianche. Con l’ordinanza commissariale numero 13 sono stati messi a disposizione del nostro comune 1.896.000,00 €. A queste risorse dobbiamo aggiungere 103.658,00 € relativi ai danni subiti dall’alluvione sul nuovo campo sportivo e i 124.000,00 € per lavori sulla piscina comunale. Altri 123.000,00 € ci sono stati assegnati per i danni della piena del 2 novembre, quella che a Palazzuolo ha devastato il tratto urbano del Senio.

Cosa si intende per messa in sicurezza?

Vuol dire che interverremo sui tratti più critici dove ancora il transito dei veicoli è permesso ai mezzi di soccorso e ai residenti. Dobbiamo riuscire a far sì che le attività economiche delle nostre campagne dalla coltivazione dei campi, alla conduzione degli allevamenti, all’accesso agli agriturismi avvengano in sicurezza.

Quindi i tracciati delle strade comunali con tutte le rettifiche seguite all’emergenza rimarranno così come li vediamo o verranno sistemati ?

La terza fase, dopo la somma urgenza e la messa in sicurezza, sarà la ricostruzione. A quel punto procederemo a risistemare i tracciati. Dovremo redigere i progetti per ricostruire le strade procedendo agli espropri laddove necessario e aprendo i cantieri per le opere necessarie. Purtroppo ad oggi la struttura commissariale non ci ha ancora fornito alcuna notizia né sui tempi né sulle risorse.

Parliamo delle condizioni di sicurezza del centro storico. Il tratto sul fiume di via Matteotti ha subito cedimenti e il Senio ha eroso la base della scarpata. Sappiamo che a metà febbraio hai coordinato un sopralluogo della protezione civile. Quali sono le prospettive?

Siamo stati a visionare tutto il tratto che va dalla chiesa del Suffragio fino alle ultime case che si affacciano sul fiume prima della piscina. Da subito la protezione civile regionale interverrà per mettere in sicurezza il tratto che dà sul Rio di Casola sotto al ponte dei Poggi. Sarà sistemato il muro in sasso nella zona torre del Galbetto lato destro Rio Casola, verrà collocata una rete di protezione sulla riva sinistra del rio Casola zona depuratore e ripristinato l’alveo sopra il tombinamento del Rio Casola, liberandolo dalle frane che anno ostruito i pozzetti d’ispezione. Servono interventi importanti di consolidamento anche nella zona riva sinistra fiume senio sdi sostegno al centro storico, dalla Torre Civica a Piazza L. Sasdelli, come a suo tempo si fece nel muraglione fino alla curva prima del ponte della Soglia, altri interventi di sostegno e protezione sempre sulla parte sinistra del fiume senio dovranno interessare il tratto tra Piazza Sasdelli fino alla strada SP 63 di Zattaglia e zona piscina . Per questo abbiamo già sollecitato e interessato la Regione e gli organi competenti, sono interventi importanti serviranno molte risorse ma estremamente importanti e urgenti .

E’ impressionante come il Senio abbia mutato il suo aspetto. In certe anse ha scavato nella roccia e in altre ha accumulato enormi masse di inerti così che si fa fatica a capire quali saranno gli esiti delle future piene.

Sul Senio, insieme alla Protezione Civile, abbiamo individuato alcune criticità: a Mercatale dove sta scavando sotto il centro abitato, a Baffadi sotto la Canova, in via dei Mulini e al Molinetto. Ma dobbiamo considerare anche i suoi affluenti e cominceremo a intervenire per primi su quelli a ridosso del paese. Il Consorzio di Bonifica ha a disposizione 650.000,00 € per la sistemazione del Rio di Casola, del rio della Peschiera e del Cestina dove i laghetti che riforniscono l’acquedotto hanno subito danni non lievi. Entro febbraio almeno quest’ ultimo cantiere dovrebbe essere concluso.

Proviamo a lasciare da parte i lavori seguiti agli eventi straordinari dell’alluvione e riprendiamo il filo di quelli che riguardano l’ordinarietà con una breve carrellata.

Se l’andamento climatico ci assiste il campo sportivo dovrebbe essere pronto nei prossimi mesi di maggio / giugno. Per le medie dovremmo assegnare i lavori entro aprile. Per il consolidamento del ponte della Soglia la Regione ha adeguato l’importo aggiungendo altri 40.000,00 € e a breve sarà ripetuta la gara d’appalto dei lavori. Un cantiere importante sarà l’adeguamento sismico delle scuole; sarà aperto alla chiusura dell’anno scolastico ma è difficile pensare che si concluda in un paio di mesi.

La redazione de Lo Spekkietto dedica sempre con grande piacere uno spazio a tutti i casolani e le casolane che, per motivi di studio o di lavoro, hanno avuto l’opportunità di trasferirsi all’estero. Sono per il nostro paese un motivo di orgoglio, simbolo di un sogno che si realizza, di un’aspirazione che prende forma e si concretizza.

Con grandissimo piacere ho intervistato Matteo Magigrana, un nostro compaesano talentuoso che ha sempre dedicato grandissimo impegno, dedizione e passione allo studio della musica, prima iscrivendosi al Liceo Musicale di Forlì e, dopo il diploma, al Conservatorio di Bologna.
Matteo è stato selezionato per il progetto Erasmus e lo scorso settembre si è trasferito nella capitale francese per proseguire gli studi di contrabbasso presso la prestigiosa Accademia Musicale "PSPBB - Pôle supérieur d'enseignement artistique Boulogne Billancourt".

Ciao Matteo! Dove e quando nasce la tua passione per la musica e, in particolare, per il tuo strumento?
“Mi sono avvicinato al mondo della musica in prima media suonando la chitarra a scuola, successivamente sono passato al basso elettrico per creare una band con i miei amici e solo in seguito ho iniziato a suonare il contrabbasso. Volevo iscrivermi al Liceo Musicale per approfondire i miei studi sulla musica quando suonavo ancora il basso elettrico, ma purtroppo il corso che volevo seguire non esisteva nel piano di studi, allora mi sono informato e ho scoperto che molti bassisti passano al contrabbasso per perfezionarsi, così ho fatto e non sono più tornato indietro.”

Parlaci del tuo percorso di studi.
“Ho iniziato a prendere lezioni private di musica in seconda media, successivamente sono entrato al Liceo Musicale di Forlì e mi sono diplomato nel 2019. Attualmente studio al Conservatorio “G.B. Martini” di Bologna e in questi anni ho seguito molte masterclass tenute da alcuni dei contrabbassisti migliori in Italia, per ampliare la mia conoscenza dello strumento.”

Tutti a Casola ti conoscono anche per le tue performance con i WonderRoof, al basso. Parlaci di questa doppia anima, classica e rock.

È l’1 settembre, venerdì. Palazzuolo sul Senio. L’anno, quello corrente: 2023.

Il vicolo è uno di quelli più antichi del borgo.
In piazzetta sotto casa stanno allestendo una serata con dj set improvvisato, quattro candele, tre tavoli, una cassa che batte sopra una finestra, una stanza dove servono da bere, fine. Di solito è il luogo dove si danno appuntamento i gatti nelle ore notturne: un rettangolo di dieci metri per cinque; attorno, alcune delle case storiche del quartiere con i loro giardini rialzati.
Decidiamo di uscire sulle 21:00, ma la musica rimbomba già da qualche ora. Scendiamo le scale e voltiamo l’angolo. Di fronte, venti persone, forse trenta, che riempivano quel misero vuoto. Nessuno ballava, si dialogava perlopiù, tutto sommato c’era buonumore. Certo, non che fosse una festa tipica della Contea di Hobbiville, in fin dei conti era sempre un modo per salutare un’altra estate che stava passando.
Prendo una birra, così fingo di essere a mio agio. La mia ragazza non beve; mio figlio, beh neppure, ha dieci mesi dopotutto. Scambiamo due chiacchiere con un tipo alticcio, poi ci appartiamo per non rimanere stretti nella bolgia (si fa per dire). A guardar bene, la gente se la passa: si sono già formate le isole delle confidenze, dove ciclicamente qualcuno cede il posto a qualcun altro per scambiarsi parola con quelli più in là, come accade per gli elettroni con gli atomi.
L’ideatore della festa – oggi il concept director – è un mio vicino di casa, un tipo folle. Per usare il linguaggio dei pischelli del pomeriggio al bar, mio fratello. Un idolo insomma. Mentre la gente sotto si scambia energia elettrochimica, lui se ne sta alla finestra del primo piano, con la musica a manetta, e muove la testa al ritmo dei bassi che sussultano l’aria. Felicissimo.
Anch’io mi rendo conto di sentirmi ok, adesso. Eravamo in compagnia di gente che voleva solo stare insieme, tutto qui. Basta anche solo un po’ si musica per dire che c’è vita, no?
E pensare che stasera devo finire Leopardi, dopo aver ripetuto tutto il giorno, cheppalle. Così mi dico. L’esame di letteratura è fissato a martedì. Chissà se Leopardi se l’è mai presa una pausa; chissà se s’è accontentato, anche di poco.
Bello accontentarsi, penso. Se ho deciso di vivere quassù, evidentemente è perché mi piace la piccola vita, l’umiltà delle cose, le facce di paese. Detta così, per poco non sembro io Leopardi. Diciamo che sì, sto bene con poco, mi accontento.
Poi però mi scende un’ombra di presa di coscienza dalla testa allo stomaco: ma accontentarsi non è mica tanto bello. Vuol dire che mi faccio andar bene tutto, anche quando tutto non va bene. Significa: non volgermi mai al meglio. No, così non va. Il primo furbo che passa mi abbindolerebbe come uno scemo (ed io non mi reputo uno scemo).
Il mio pensiero corre a stamattina, mentre guardavo mio figlio gattonare come un pazzo tra la camera e il salotto. Come fa ad essere così curioso di tutto, mi dicevo. Mio figlio è un magnete, come tutti i bimbi piccoli: si attacca a qualsiasi cosa; lesto anche di fronte al pericolo, non teme nulla – ecco spiegato il motivo per cui dovevo stargli addosso. Avessi anche solo la metà della sua grinta, avrei già affrontato la maggior parte dei miei problemi (specialmente quelli che mi creo nella testa). In breve, mi stavo domandando ciò che scrisse quel predicatore turco sugli uccelli, di cui non saprei pronunciare il nome*. Perché scelgo di rimanere in un posto quando posso volarmene altrove? In poche parole: perché accontentarsi? Io mi accontento troppo. Torno con la mente alla festa; devo andarmene e rimettermi a studiare, sennò non passo quell’esame, mi dico.

Poi però ci ripenso, immaginando che forse

Ciao EDICOLA, oggi 23 gennaio  chiudi i battenti.

Quando, circa 20 giorni fa,  lessi il cartello “cessasi attività” appeso al bancone in fondo, al confine tra la zona della vendita dei giornali e dei libri e l’angolo cartoleria, non ci credevo…forse si trattava di un passaggio di consegne, una provvisoria interruzione, un cambio di locale. Invece, dopo aver chiesto spiegazioni, mi hanno chiarito che  quel cartello era proprio l’annuncio della  definitiva   “chiusura” dell’edicola di Casola Valsenio il 23 GENNAIO 2022.

Non ho impiegato molto tempo a capire cosa ciò avrebbe significato per me e per tanti casolani ….una mancanza, un vuoto nella quotidianità, un ritmo interrotto. L’edicola chiude, chiude sull’odore di inchiostro dei giornali, sull’odore dei libri di carta, un odore che a qualcuno fa ancora piacere! L’edicola chiude sui colori squillanti delle copertine dei settimanali, sui disegni nuovi ed originali dei fumetti, sulle bustine delle figurine e degli album dei calciatori, chiude su uno sportello di notizie scritte su carta, verba volant scripta manent, qualcosa di più duraturo del passaggio di parola e dei messaggi sui social così veloci e caduchi nel buco nero del web, così veloci nel nascere e nello sparire.

Che a rileggere i giornali vecchi , invece, e chi non ne ha in casa, si sorride per la inadeguatezza, la preveggenza o la completa lontananza da ciò che poi è successo.

 Chiude sulle due chiacchiere da fare quotidianamente con l’ edicolante che tutti i giorni dell’anno era lì in posizione, come una postazione – istituzione, di quelle che ci sono sempre, affidabili e costanti.

Chiude sulle fotografie dei personaggi da copertina:   AlBano, Romina, Mara, che sembrano eterni, entravi lì e te li ritrovavi pronti a raccontarti un’altra parte di storia, uno sviluppo, una nuova puntata.

Chiude  sulla voglia di conoscere e di parlare.

Chiude su un’abitudine quotidiana,  settimanale, mensile forse un po’ antiquata, ma importante, il quotidiano, la settimana enigmistica, la rivista di giardinaggio, i fumetti. E’ vero, penso, che tutte queste cose le puoi trovare su Internet, ma vuoi mettere poter toccare la carta, vedere delle foto bellissime, tagliare un articolo da conservare e poi lo spazio concreto che occupa un giornale che si tocca, si apre, si piega, si posa, si riprende.

 
 

Le mascherine sono ormai entrate a far parte della nostra quotidianità e sono indispensabili per la tutela della salute individuale e collettiva. Ma dobbiamo proteggere anche l’ambiente, non gettando a terra questi dispositivi, ma conferendoli correttamente nella raccolta indifferenziata.

 

Rifiuti gettati a terra sotto il tendone del Centro Sociale “Le Colonne”. Foto di Valentina.

 

Rifiuti raccolti a Monte Battaglia, 15 gennaio 2022.

 

Benedetta Landi

«Succede che in Terapia Intensiva, dove i pazienti vengono ricoverati per compromissione delle funzioni vitali, si guarisca da gravi malattie e dopo la degenza e la riabilitazione in altri Reparti  si possa tornare a casa dai propri cari. Succede altre volte (per fortuna di rado) che i pazienti, a causa di lesioni cerebrali irreversibili, muoiano di morte cerebrale, ossia a cuore battente. In questi casi si può procedere con la donazione di organi (cuore, polmoni, fegato, reni, intestino, pancreas) e tessuti  (cute, tessuto muscoloscheletrico, vasi arteriosi e venosi, valvole cardiache, cornee), laddove ci sia una volontà donativa da parte del paziente stesso o quando i parenti decidano di dare il proprio consenso. Accettando di donare, essi aprono la via del trapianto a pazienti riceventi con malattie incurabili, i quali possono così rinascere a nuova vita.Il lavoro del Medico di Rianimazione è anche questo.»

 

Con questa riflessione si apre l’intervista alla Dottoressa Patrizia Maccolini, Medico dell'Unità Operativa di Anestesia, Rianimazione e Terapia Antalgicadell’AUSL di Imola e dal 2003 Coordinatore locale alla Donazione di Organi e Tessuti presso la stessa Azienda.

Molti dei lettori senz’altro conosceranno personalmente Patrizia: potremmo dire che è casolana d’adozione, in quanto cognata di Roberto, membro della nostra redazione.

 

Buongiorno Patrizia, ci parli meglio del suo lavoro come Coordinatore Locale alla Donazione.

«Il mio lavoro è a stretto contatto con il Centro Riferimento Trapianti di Bologna e, all'interno della AUSL di Imola, da circa 2 anni, sono affiancata da una figura infermieristica per il Procurement (cioè per l'intero percorso che parte dalla selezione del donatore e arriva alla donazione vera e propria) e per il lavoro di formazione ed informazione all'interno dell'AUSL e all'esterno con le associazioni di volontariato.»

 

Come si esplica il lavoro di formazione e informazione svolto dalla AUSL e dalle associazioni?

«Si svolge attività divulgativa presso le Scuole (Scuole Medie Superiori di II grado e Scuola di Scienze Infermieristiche). In giornate dedicate allestiamo insieme all’URP e alle associazioni di volontariato banchetti informativi direttamente in Ospedale (Ospedale Nuovo a Imola e Ospedale di Castel San Pietro Terme). È logico che in tempi di pandemia tutto ciò è stato rallentato e reso più difficile.»

 

Qual è l'iter per la donazione degli organi e dei tessuti?

«È un processo molto complesso. Le Morti Encefaliche, cioè con lesioni cerebrali che irreversibilmente “spengono” tutte le funzioni dell’encefalo, devono per  legge essere accertate. In 6 ore vengono analizzate più volte indagini strumentali e cliniche (es. EEG e visita neurologica) da parte di una commissione  di tre medici nominati dalla Direzione Sanitaria, in modo che non ci siano dubbi riguardo alla diagnosi di morte a cuore battente. Se durante queste 6 ore gli organi sono mantenuti vitali da complesse procedure rianimatorie si può procedere al prelievo, che risulta essere un vero intervento chirurgico  in cui intervengono diverse equipe specializzate. Niente deve essere lasciato al caso o alla superficialità. È per questo che in ogni donazione intervengono più di 100 professionisti.»

 

Quali sono i requisiti per diventare un donatore?

«Innanzitutto bisogna sfatare l’idea che l’età può essere un ostacolo alla donazione. Non ci sono limiti di età per essere donatori (mi riferisco in particolare al fegato). Comunque la selezione del donatore è un processo che richiede molte verifiche di idoneità per evitare malattie trasmissibili, attraverso prelievi ematici di controllo, anamnesi del donatore, indagini macro e microscopiche anche in Sala Operatoria al momento del prelievo vero e proprio (N.B. non si parla mai di espianto perché espianto è la rimozione di organo già trapiantato). È grazie alla collaborazione con il Centro Riferimento Trapianti dell’Emilia Romagna e alla intera rete trapiantologica che sono stati raggiunti risultati di eccellenza (in Emilia Romagna sono stati eseguiti nel 2021 493 trapianti, 101 in più rispetto al 2020)»

 

Vorrei approfondire assieme a lei il concetto di “volontà donativa”. Com’è possibile esprimere il proprio consenso alla donazione degli organi?

«Parlare in famiglia della propria volontà è importante per non lasciare questa scelta ai familiari in un momento così doloroso come la perdita del proprio caro. Da pochi anni c’è la possibilità di esprimere la volontà anche in Comune quando si richiede o si rinnova la Carta d’Identità. È valido comunque lasciare anche un scritto datato e firmato con la propria espressione di volontà o rivolgersi  presso L’URP di qualsiasi ASL o presso le Associazioni di volontariato. La Legge 91/99 pone l’accento sul silenzio assenso in caso di notifica accertata al cittadino da parte dello Stato: se non è indicata la volontà (controllata anche tramite un database chiamato SIT) e non ci sono familiari aventi diritto (coniuge non separato, convivente more uxorio, figli o genitori) si può procedere al prelievo di organi e tessuti.»

 

Veniamo ora ad un tema molto delicato: il rapporto con le famiglie dei donatori. Esso è senz'altro fondamentale, quanto difficile in situazioni come quelle da lei descritte, caratterizzate da dolore e sofferenza. Come vengono affiancate e sostenute le famiglie? Come viene loro proposta la possibilità di una donazione, in mancanza di una esplicita volontà del paziente?

«Non può mai venire a mancare il rapporto con la famiglia del donatore. In questi anni ho avuto tante esperienze di questo genere: ho incontrato persone che nel dolore hanno dimostrato sempre dignità, anche se in modi diversi… alcune con rabbia, altre con più introspezione. La prassi prevede che il medico di Reparto di Terapia Intensiva o il Coordinatore locale per le donazioni, comunichi ai familiari il decesso e solo in un secondo momento formuli la richiesta di donazione. In questo delicato compito è di solito affiancato da una figura infermieristica che svolge anche attività di supporto. Separando i due momenti si cerca di “aiutare” nell’elaborazione del lutto e di far comprendere l’importanza della donazione.In alcune occasioni sarebbe molto utile la figura di uno psicologo, che in alcune realtà è sempre presente.»

 

Ringrazio la Dottoressa Patrizia Maccolini per aver risposto alle domande della Redazione de Lo Spekkietto, illustrando a tutti i lettori alcuni aspetti della sua importantissima professione e sensibilizzando all’importanza di donare organi e tessuti.

Ci tengo a ringraziare, assieme a lei, tutte le sue colleghe e tutti i suoi colleghi, medici e infermieri, che svolgono un lavoro eccezionale, il quale negli ultimi due anni è stato messo a dura prova dalla situazione pandemica. Tutti noi dobbiamo essere loro riconoscenti per la forza, la tenacia e l’impegno che ogni giorno mettono in campo per salvare vite umane.

Benedetta Landi

Che cosa è l’ “ambiente”?

L’ambiente non è una entità fatta solo di terreni, boschi, colline e montagne, ma è una entità fatta e fortemente determinata ed identificata anche e soprattutto da esseri umani e da comunità umane che abitano i luoghi e da essi traggono sostentamento.

Un sostentamento che, se nel tempo, a causa dei mutamenti sociali ed economici, si rivela insufficiente, porta al progressivo spopolamento di intere aree e al concentramento dell’habitat umano in altre zone che diventano fittamente abitate, a volte in modo eccessivo sino a giungere, in casi estremi, a livelli che di “umano” hanno ben poco.

Qual è dunque la strategia da usare per mantenere un giusto equilibrio e non perdere e dissipare il grande capitale di storie, di socialità, di esperienze e di umanità che ogni comunità -anche la più piccola- nei diversi luoghi porta con sé, e che caratterizza e costituisce l’ “ambiente” nel significato più vero e completo in cui va inteso questo termine?

Ovviamente, in primo luogo, cercare di sfruttare al meglio ed eventualmente implementare le risorse disponibili in un certo contesto e possibilmente metterne in campo anche altre realisticamente realizzabili e sfruttabili.

 

 

Voglio dire, tanto per intenderci, sintetizzando con crudo ma onesto e concreto realismo: non basta per sopravvivere guardarsi attorno e dire “ Oh che bello!” perché poi viene anche l’ora del “pranzo” e bisogna pur trovare da mangiare.

Vediamo ora di transitare queste considerazioni generali nell’ambito dei problemi della nostra realtà locale.

Un tempo lontano la nostra valle, così come altre vicino alla nostra, era un luogo remoto, appartato, impervio, pochissimo abitato, coperto da vegetazioni incolte. Furono soprattutto i frati Benedettini che, insediatisi nel nostro territorio poco prima all’anno mille, iniziarono poco a poco a coltivare i terreni, a colonizzare gli ambienti collinari e montani e a favorire cosi gli insediamenti umani che stanno alla base della nascita delle nostre comunità.

Il nostro paese, il nostro comune e quelli intorno a noi sono il frutto di questa evoluzione ed è questo insieme di “umano” e di “territorio” che da vita ed identità al nostro “ambiente” ed alla nostra storia.

Questo processo storico è stato anche magistralmente descritto dal prof. Luca Onofri nel saggio da lui curato “ La spada, la croce, il giglio” , cap. “Monaci, santi e pellegrini”, dedicato all’Appennino romagnolo nel Medioevo e in Età Moderna e pubblicato nel Marzo 2021. Ed. “Il Ponte Vecchio” , disponibile presso la nostra biblioteca Comunale.

 

La storia poi evolve, mutano le condizioni ed i contesti ed è in questi nuovi contesti che le comunità devono trovare inserimenti, pena la loro estinzione.

Così, ad esempio, è stato per il nostro comune a partire dagli anni del dopoguerra. Il panorama e lo sviluppo dell’ economia del nostro comune, dapprima basato quasi esclusivamente -o in misura assolutamente prevalente- sull’agricoltura e sulle attività artigianali connesse, ha dovuto fare i conti con il passaggio alla economia industriale che ha favorito lo sviluppo dei grossi centri e delle località di pianura accentrando in essi, via, via, lavoro e servizi. Ed è ciò che ha portato, e sta inesorabilmente continuando a portare allo spopolamento del nostro territorio e della nostra comunità e di quelle a noi affiancate. Uno spopolamento che se, non lo si riesce ad arginare, porterà inevitabilmente a ridurre le nostre piccole comunità di collina a “entità” insignificanti,

Per fortuna, nel panorama esistenziale della nostra comunità, proprio all’inizio di questo fenomeno, alla fine degli anni ’50 , si aprì per Casola e Riolo uno spiraglio ed uno sbocco economico/produttivo che permise di aggiungere alle realtà esistenti un supporto di attività industriale che nel tempo ha fornito un paletto ed un sostegno importante alla nostra economia, all’occupazione di mano d’opera locale e conseguentemente alla nostra sussistenza.

Ciò avvenne nel 1958 quando l’azienda di stato Anic Spa, con sede a Ravenna, aprì la Cava di Monte Tondo sulla Vena dei Gessi per trarne, a livelli industriali, materiale per l’edilizia.

 

Accenni di storia

Dopo i primi vent’anni la cava è poi stata gestita da altre realtà fra le quali la società BPB Italia ed acquisita infine dal gruppo Saint Gobain che dal 2009 è diventata Saint-Gobain PPC Italia. Dal 2012 i materiali estratti sono destinati a prodotti a base di gesso prevalentemente utilizzati per l’edilizia residenziale e produttiva.

Nella seconda metà degli anni ’80 , all’inizio della piana di Valsenio fu poi realizzato lo stabilimento, oggi denominato Gyproc, fortemente legato alla cava di Monte Tondo per la fornitura della materia prima per la produzione di materiali a base di gesso, in particolare cartongesso di cui in Italia è uno dei maggiori produttori (18,5 milioni di metri quadri di lastre in cartongesso e 17 mila tonnellate di intonaci a base gesso). Oggi il sito produttivo impiega direttamente circa 90 persone e coinvolge un indotto di oltre 50 fornitori esterni.