Attualita

 

È l’1 settembre, venerdì. Palazzuolo sul Senio. L’anno, quello corrente: 2023.

Il vicolo è uno di quelli più antichi del borgo.
In piazzetta sotto casa stanno allestendo una serata con dj set improvvisato, quattro candele, tre tavoli, una cassa che batte sopra una finestra, una stanza dove servono da bere, fine. Di solito è il luogo dove si danno appuntamento i gatti nelle ore notturne: un rettangolo di dieci metri per cinque; attorno, alcune delle case storiche del quartiere con i loro giardini rialzati.
Decidiamo di uscire sulle 21:00, ma la musica rimbomba già da qualche ora. Scendiamo le scale e voltiamo l’angolo. Di fronte, venti persone, forse trenta, che riempivano quel misero vuoto. Nessuno ballava, si dialogava perlopiù, tutto sommato c’era buonumore. Certo, non che fosse una festa tipica della Contea di Hobbiville, in fin dei conti era sempre un modo per salutare un’altra estate che stava passando.
Prendo una birra, così fingo di essere a mio agio. La mia ragazza non beve; mio figlio, beh neppure, ha dieci mesi dopotutto. Scambiamo due chiacchiere con un tipo alticcio, poi ci appartiamo per non rimanere stretti nella bolgia (si fa per dire). A guardar bene, la gente se la passa: si sono già formate le isole delle confidenze, dove ciclicamente qualcuno cede il posto a qualcun altro per scambiarsi parola con quelli più in là, come accade per gli elettroni con gli atomi.
L’ideatore della festa – oggi il concept director – è un mio vicino di casa, un tipo folle. Per usare il linguaggio dei pischelli del pomeriggio al bar, mio fratello. Un idolo insomma. Mentre la gente sotto si scambia energia elettrochimica, lui se ne sta alla finestra del primo piano, con la musica a manetta, e muove la testa al ritmo dei bassi che sussultano l’aria. Felicissimo.
Anch’io mi rendo conto di sentirmi ok, adesso. Eravamo in compagnia di gente che voleva solo stare insieme, tutto qui. Basta anche solo un po’ si musica per dire che c’è vita, no?
E pensare che stasera devo finire Leopardi, dopo aver ripetuto tutto il giorno, cheppalle. Così mi dico. L’esame di letteratura è fissato a martedì. Chissà se Leopardi se l’è mai presa una pausa; chissà se s’è accontentato, anche di poco.
Bello accontentarsi, penso. Se ho deciso di vivere quassù, evidentemente è perché mi piace la piccola vita, l’umiltà delle cose, le facce di paese. Detta così, per poco non sembro io Leopardi. Diciamo che sì, sto bene con poco, mi accontento.
Poi però mi scende un’ombra di presa di coscienza dalla testa allo stomaco: ma accontentarsi non è mica tanto bello. Vuol dire che mi faccio andar bene tutto, anche quando tutto non va bene. Significa: non volgermi mai al meglio. No, così non va. Il primo furbo che passa mi abbindolerebbe come uno scemo (ed io non mi reputo uno scemo).
Il mio pensiero corre a stamattina, mentre guardavo mio figlio gattonare come un pazzo tra la camera e il salotto. Come fa ad essere così curioso di tutto, mi dicevo. Mio figlio è un magnete, come tutti i bimbi piccoli: si attacca a qualsiasi cosa; lesto anche di fronte al pericolo, non teme nulla – ecco spiegato il motivo per cui dovevo stargli addosso. Avessi anche solo la metà della sua grinta, avrei già affrontato la maggior parte dei miei problemi (specialmente quelli che mi creo nella testa). In breve, mi stavo domandando ciò che scrisse quel predicatore turco sugli uccelli, di cui non saprei pronunciare il nome*. Perché scelgo di rimanere in un posto quando posso volarmene altrove? In poche parole: perché accontentarsi? Io mi accontento troppo. Torno con la mente alla festa; devo andarmene e rimettermi a studiare, sennò non passo quell’esame, mi dico.

Poi però ci ripenso, immaginando che forse

Ciao EDICOLA, oggi 23 gennaio  chiudi i battenti.

Quando, circa 20 giorni fa,  lessi il cartello “cessasi attività” appeso al bancone in fondo, al confine tra la zona della vendita dei giornali e dei libri e l’angolo cartoleria, non ci credevo…forse si trattava di un passaggio di consegne, una provvisoria interruzione, un cambio di locale. Invece, dopo aver chiesto spiegazioni, mi hanno chiarito che  quel cartello era proprio l’annuncio della  definitiva   “chiusura” dell’edicola di Casola Valsenio il 23 GENNAIO 2022.

Non ho impiegato molto tempo a capire cosa ciò avrebbe significato per me e per tanti casolani ….una mancanza, un vuoto nella quotidianità, un ritmo interrotto. L’edicola chiude, chiude sull’odore di inchiostro dei giornali, sull’odore dei libri di carta, un odore che a qualcuno fa ancora piacere! L’edicola chiude sui colori squillanti delle copertine dei settimanali, sui disegni nuovi ed originali dei fumetti, sulle bustine delle figurine e degli album dei calciatori, chiude su uno sportello di notizie scritte su carta, verba volant scripta manent, qualcosa di più duraturo del passaggio di parola e dei messaggi sui social così veloci e caduchi nel buco nero del web, così veloci nel nascere e nello sparire.

Che a rileggere i giornali vecchi , invece, e chi non ne ha in casa, si sorride per la inadeguatezza, la preveggenza o la completa lontananza da ciò che poi è successo.

 Chiude sulle due chiacchiere da fare quotidianamente con l’ edicolante che tutti i giorni dell’anno era lì in posizione, come una postazione – istituzione, di quelle che ci sono sempre, affidabili e costanti.

Chiude sulle fotografie dei personaggi da copertina:   AlBano, Romina, Mara, che sembrano eterni, entravi lì e te li ritrovavi pronti a raccontarti un’altra parte di storia, uno sviluppo, una nuova puntata.

Chiude  sulla voglia di conoscere e di parlare.

Chiude su un’abitudine quotidiana,  settimanale, mensile forse un po’ antiquata, ma importante, il quotidiano, la settimana enigmistica, la rivista di giardinaggio, i fumetti. E’ vero, penso, che tutte queste cose le puoi trovare su Internet, ma vuoi mettere poter toccare la carta, vedere delle foto bellissime, tagliare un articolo da conservare e poi lo spazio concreto che occupa un giornale che si tocca, si apre, si piega, si posa, si riprende.

 
 

Le mascherine sono ormai entrate a far parte della nostra quotidianità e sono indispensabili per la tutela della salute individuale e collettiva. Ma dobbiamo proteggere anche l’ambiente, non gettando a terra questi dispositivi, ma conferendoli correttamente nella raccolta indifferenziata.

 

Rifiuti gettati a terra sotto il tendone del Centro Sociale “Le Colonne”. Foto di Valentina.

 

Rifiuti raccolti a Monte Battaglia, 15 gennaio 2022.

 

Benedetta Landi

«Succede che in Terapia Intensiva, dove i pazienti vengono ricoverati per compromissione delle funzioni vitali, si guarisca da gravi malattie e dopo la degenza e la riabilitazione in altri Reparti  si possa tornare a casa dai propri cari. Succede altre volte (per fortuna di rado) che i pazienti, a causa di lesioni cerebrali irreversibili, muoiano di morte cerebrale, ossia a cuore battente. In questi casi si può procedere con la donazione di organi (cuore, polmoni, fegato, reni, intestino, pancreas) e tessuti  (cute, tessuto muscoloscheletrico, vasi arteriosi e venosi, valvole cardiache, cornee), laddove ci sia una volontà donativa da parte del paziente stesso o quando i parenti decidano di dare il proprio consenso. Accettando di donare, essi aprono la via del trapianto a pazienti riceventi con malattie incurabili, i quali possono così rinascere a nuova vita.Il lavoro del Medico di Rianimazione è anche questo.»

 

Con questa riflessione si apre l’intervista alla Dottoressa Patrizia Maccolini, Medico dell'Unità Operativa di Anestesia, Rianimazione e Terapia Antalgicadell’AUSL di Imola e dal 2003 Coordinatore locale alla Donazione di Organi e Tessuti presso la stessa Azienda.

Molti dei lettori senz’altro conosceranno personalmente Patrizia: potremmo dire che è casolana d’adozione, in quanto cognata di Roberto, membro della nostra redazione.

 

Buongiorno Patrizia, ci parli meglio del suo lavoro come Coordinatore Locale alla Donazione.

«Il mio lavoro è a stretto contatto con il Centro Riferimento Trapianti di Bologna e, all'interno della AUSL di Imola, da circa 2 anni, sono affiancata da una figura infermieristica per il Procurement (cioè per l'intero percorso che parte dalla selezione del donatore e arriva alla donazione vera e propria) e per il lavoro di formazione ed informazione all'interno dell'AUSL e all'esterno con le associazioni di volontariato.»

 

Come si esplica il lavoro di formazione e informazione svolto dalla AUSL e dalle associazioni?

«Si svolge attività divulgativa presso le Scuole (Scuole Medie Superiori di II grado e Scuola di Scienze Infermieristiche). In giornate dedicate allestiamo insieme all’URP e alle associazioni di volontariato banchetti informativi direttamente in Ospedale (Ospedale Nuovo a Imola e Ospedale di Castel San Pietro Terme). È logico che in tempi di pandemia tutto ciò è stato rallentato e reso più difficile.»

 

Qual è l'iter per la donazione degli organi e dei tessuti?

«È un processo molto complesso. Le Morti Encefaliche, cioè con lesioni cerebrali che irreversibilmente “spengono” tutte le funzioni dell’encefalo, devono per  legge essere accertate. In 6 ore vengono analizzate più volte indagini strumentali e cliniche (es. EEG e visita neurologica) da parte di una commissione  di tre medici nominati dalla Direzione Sanitaria, in modo che non ci siano dubbi riguardo alla diagnosi di morte a cuore battente. Se durante queste 6 ore gli organi sono mantenuti vitali da complesse procedure rianimatorie si può procedere al prelievo, che risulta essere un vero intervento chirurgico  in cui intervengono diverse equipe specializzate. Niente deve essere lasciato al caso o alla superficialità. È per questo che in ogni donazione intervengono più di 100 professionisti.»

 

Quali sono i requisiti per diventare un donatore?

«Innanzitutto bisogna sfatare l’idea che l’età può essere un ostacolo alla donazione. Non ci sono limiti di età per essere donatori (mi riferisco in particolare al fegato). Comunque la selezione del donatore è un processo che richiede molte verifiche di idoneità per evitare malattie trasmissibili, attraverso prelievi ematici di controllo, anamnesi del donatore, indagini macro e microscopiche anche in Sala Operatoria al momento del prelievo vero e proprio (N.B. non si parla mai di espianto perché espianto è la rimozione di organo già trapiantato). È grazie alla collaborazione con il Centro Riferimento Trapianti dell’Emilia Romagna e alla intera rete trapiantologica che sono stati raggiunti risultati di eccellenza (in Emilia Romagna sono stati eseguiti nel 2021 493 trapianti, 101 in più rispetto al 2020)»

 

Vorrei approfondire assieme a lei il concetto di “volontà donativa”. Com’è possibile esprimere il proprio consenso alla donazione degli organi?

«Parlare in famiglia della propria volontà è importante per non lasciare questa scelta ai familiari in un momento così doloroso come la perdita del proprio caro. Da pochi anni c’è la possibilità di esprimere la volontà anche in Comune quando si richiede o si rinnova la Carta d’Identità. È valido comunque lasciare anche un scritto datato e firmato con la propria espressione di volontà o rivolgersi  presso L’URP di qualsiasi ASL o presso le Associazioni di volontariato. La Legge 91/99 pone l’accento sul silenzio assenso in caso di notifica accertata al cittadino da parte dello Stato: se non è indicata la volontà (controllata anche tramite un database chiamato SIT) e non ci sono familiari aventi diritto (coniuge non separato, convivente more uxorio, figli o genitori) si può procedere al prelievo di organi e tessuti.»

 

Veniamo ora ad un tema molto delicato: il rapporto con le famiglie dei donatori. Esso è senz'altro fondamentale, quanto difficile in situazioni come quelle da lei descritte, caratterizzate da dolore e sofferenza. Come vengono affiancate e sostenute le famiglie? Come viene loro proposta la possibilità di una donazione, in mancanza di una esplicita volontà del paziente?

«Non può mai venire a mancare il rapporto con la famiglia del donatore. In questi anni ho avuto tante esperienze di questo genere: ho incontrato persone che nel dolore hanno dimostrato sempre dignità, anche se in modi diversi… alcune con rabbia, altre con più introspezione. La prassi prevede che il medico di Reparto di Terapia Intensiva o il Coordinatore locale per le donazioni, comunichi ai familiari il decesso e solo in un secondo momento formuli la richiesta di donazione. In questo delicato compito è di solito affiancato da una figura infermieristica che svolge anche attività di supporto. Separando i due momenti si cerca di “aiutare” nell’elaborazione del lutto e di far comprendere l’importanza della donazione.In alcune occasioni sarebbe molto utile la figura di uno psicologo, che in alcune realtà è sempre presente.»

 

Ringrazio la Dottoressa Patrizia Maccolini per aver risposto alle domande della Redazione de Lo Spekkietto, illustrando a tutti i lettori alcuni aspetti della sua importantissima professione e sensibilizzando all’importanza di donare organi e tessuti.

Ci tengo a ringraziare, assieme a lei, tutte le sue colleghe e tutti i suoi colleghi, medici e infermieri, che svolgono un lavoro eccezionale, il quale negli ultimi due anni è stato messo a dura prova dalla situazione pandemica. Tutti noi dobbiamo essere loro riconoscenti per la forza, la tenacia e l’impegno che ogni giorno mettono in campo per salvare vite umane.

Benedetta Landi

Che cosa è l’ “ambiente”?

L’ambiente non è una entità fatta solo di terreni, boschi, colline e montagne, ma è una entità fatta e fortemente determinata ed identificata anche e soprattutto da esseri umani e da comunità umane che abitano i luoghi e da essi traggono sostentamento.

Un sostentamento che, se nel tempo, a causa dei mutamenti sociali ed economici, si rivela insufficiente, porta al progressivo spopolamento di intere aree e al concentramento dell’habitat umano in altre zone che diventano fittamente abitate, a volte in modo eccessivo sino a giungere, in casi estremi, a livelli che di “umano” hanno ben poco.

Qual è dunque la strategia da usare per mantenere un giusto equilibrio e non perdere e dissipare il grande capitale di storie, di socialità, di esperienze e di umanità che ogni comunità -anche la più piccola- nei diversi luoghi porta con sé, e che caratterizza e costituisce l’ “ambiente” nel significato più vero e completo in cui va inteso questo termine?

Ovviamente, in primo luogo, cercare di sfruttare al meglio ed eventualmente implementare le risorse disponibili in un certo contesto e possibilmente metterne in campo anche altre realisticamente realizzabili e sfruttabili.

 

 

Voglio dire, tanto per intenderci, sintetizzando con crudo ma onesto e concreto realismo: non basta per sopravvivere guardarsi attorno e dire “ Oh che bello!” perché poi viene anche l’ora del “pranzo” e bisogna pur trovare da mangiare.

Vediamo ora di transitare queste considerazioni generali nell’ambito dei problemi della nostra realtà locale.

Un tempo lontano la nostra valle, così come altre vicino alla nostra, era un luogo remoto, appartato, impervio, pochissimo abitato, coperto da vegetazioni incolte. Furono soprattutto i frati Benedettini che, insediatisi nel nostro territorio poco prima all’anno mille, iniziarono poco a poco a coltivare i terreni, a colonizzare gli ambienti collinari e montani e a favorire cosi gli insediamenti umani che stanno alla base della nascita delle nostre comunità.

Il nostro paese, il nostro comune e quelli intorno a noi sono il frutto di questa evoluzione ed è questo insieme di “umano” e di “territorio” che da vita ed identità al nostro “ambiente” ed alla nostra storia.

Questo processo storico è stato anche magistralmente descritto dal prof. Luca Onofri nel saggio da lui curato “ La spada, la croce, il giglio” , cap. “Monaci, santi e pellegrini”, dedicato all’Appennino romagnolo nel Medioevo e in Età Moderna e pubblicato nel Marzo 2021. Ed. “Il Ponte Vecchio” , disponibile presso la nostra biblioteca Comunale.

 

La storia poi evolve, mutano le condizioni ed i contesti ed è in questi nuovi contesti che le comunità devono trovare inserimenti, pena la loro estinzione.

Così, ad esempio, è stato per il nostro comune a partire dagli anni del dopoguerra. Il panorama e lo sviluppo dell’ economia del nostro comune, dapprima basato quasi esclusivamente -o in misura assolutamente prevalente- sull’agricoltura e sulle attività artigianali connesse, ha dovuto fare i conti con il passaggio alla economia industriale che ha favorito lo sviluppo dei grossi centri e delle località di pianura accentrando in essi, via, via, lavoro e servizi. Ed è ciò che ha portato, e sta inesorabilmente continuando a portare allo spopolamento del nostro territorio e della nostra comunità e di quelle a noi affiancate. Uno spopolamento che se, non lo si riesce ad arginare, porterà inevitabilmente a ridurre le nostre piccole comunità di collina a “entità” insignificanti,

Per fortuna, nel panorama esistenziale della nostra comunità, proprio all’inizio di questo fenomeno, alla fine degli anni ’50 , si aprì per Casola e Riolo uno spiraglio ed uno sbocco economico/produttivo che permise di aggiungere alle realtà esistenti un supporto di attività industriale che nel tempo ha fornito un paletto ed un sostegno importante alla nostra economia, all’occupazione di mano d’opera locale e conseguentemente alla nostra sussistenza.

Ciò avvenne nel 1958 quando l’azienda di stato Anic Spa, con sede a Ravenna, aprì la Cava di Monte Tondo sulla Vena dei Gessi per trarne, a livelli industriali, materiale per l’edilizia.

 

Accenni di storia

Dopo i primi vent’anni la cava è poi stata gestita da altre realtà fra le quali la società BPB Italia ed acquisita infine dal gruppo Saint Gobain che dal 2009 è diventata Saint-Gobain PPC Italia. Dal 2012 i materiali estratti sono destinati a prodotti a base di gesso prevalentemente utilizzati per l’edilizia residenziale e produttiva.

Nella seconda metà degli anni ’80 , all’inizio della piana di Valsenio fu poi realizzato lo stabilimento, oggi denominato Gyproc, fortemente legato alla cava di Monte Tondo per la fornitura della materia prima per la produzione di materiali a base di gesso, in particolare cartongesso di cui in Italia è uno dei maggiori produttori (18,5 milioni di metri quadri di lastre in cartongesso e 17 mila tonnellate di intonaci a base gesso). Oggi il sito produttivo impiega direttamente circa 90 persone e coinvolge un indotto di oltre 50 fornitori esterni.

 

Genny mi dice che in certe giornate, quando le foglie degli alberi intorno non si muovono, quando il caldo non è troppo insistente, nel silenzio dell’angolo  di terreno dove ha impiantato l’allevamento, si sente come un leggero crepitio, una specie di gocciolio grattoso, un sottofondo di leggero tramestio:  le circa 27 mila chiocciole dell’allevamento   stanno mangiando, con i microscopici denti, le foglie di cavolo,  di bietole, di cicoria dei 24 piccoli orti recintati dove  vivono, in località San Ruffillo.

 Genny Morara mi racconta anche che non avrebbe mai potuto continuare a lavorare in un ufficio, troppo vivo l’attaccamento alla terra, all’azienda di famiglia, alla libertà dei ritmi lavorativi legati alle stagioni ed alla natura.

Durante una chiacchierata con delle amiche emerse,  quasi per scherzo, l’ipotesi che allevare lumache poteva essere una buona possibilità per avviare un progetto che comprendesse: rimanere in azienda, essere imprenditrice indipendente, stare a contatto con la natura,  rinnovare, investire in qualcosa di nuovo. E così in pochi mesi Genny ha deciso di buttarsi in questa avventura: l’allevamento di chiocciole.

La vado ad intervistare e lei è ben contenta di comunicare quello che sta imparando  e vivendo da pochi mesi, da luglio precisamente.

 

Come è nata l’ide a di iniziare questo tipo di allevamento?

Per me  che amo la terra e l’azienda agricola di famiglia, ma non guido i mezzi agricoli e ho varie allergie, cosa potevo inventare, dove mi potevo applicare per lavorare nell’azienda dei miei? Per caso, quasi per scherzo, una chiacchierata tra amiche è stata illuminante. In giro ci sono già alcune esperienze di questo tipo, a Imola e nei dintorni di Faenza, ma qui in zona no. Ho chiesto a babbo di concedermi un pezzo di terra e così dove c’erano vecchi prugni abbiamo preparato i recinti degli orticelli per allevare le chiocciole.

Sono orticelli di circa 3 metri x 40. Li visito con la sua guida, in una tranquilla giornata autunnale.

In effetti è estremamente affascinante la disposizione degli orticelli, uguali  e regolarmente distanziati, brillanti di verdi e tenere verdure, suggeriscono una disposizione armonica e ideale progettata da un giardiniere più che da un allevatore, un posto ideale per le lumachine!!!

 

Ho scoperto quasi per caso, grazie a un post su Facebook, l’esistenza di un rifugio per cani a Casola Valsenio. Da amante degli animali ho subito deciso di approfondire la cosa, mettendomi in contatto con Lia Laghi, la ragazza che ha dato vita a questa realtà, la quale si è fin da subito mostrata disponibile e interessata a rispondere alle mie domande e a farmi visitare personalmente casa sua.

Vado a trovarla in un pomeriggio nebbioso di dicembre, ma non appena arrivo al rifugio“Save Soul”, situato in via 1° Maggio 11 (podere Tufo), vengo accolta dal suo caloroso sorriso e dall’abbaio festoso di Cris, uno degli ospiti del rifugio.

Lia è nata e cresciuta a Ravenna, anche se ha origini casolane, in quanto la bisnonna nacque proprio nel nostro paese. In passato ha lavorato come impiegata in una grande azienda, fino a quando questa professione ha cominciato a starle stretta. Ha così deciso di cambiare vita, dedicandosi alla sua più grande passione: i cani. Ha perciò intrapreso un percorso che l’ha portata a diventare educatrice cinofila e ha cominciato a studiare etologia (la scienza che studia il comportamento animale) secondo un approccio relazionale comparato, che analizza le interazioni e il profondo legame che si instaura tra uomo e animale. Si tratta di conoscere a fondo la natura dell’animale, rispettando le sue specificità ed instaurando così un rapporto empatico e profondo. Il suo motto è “CONOSCERE, COMUNICARE, CONDIVIDERE”: solo conoscendo le differenze comportamentali e relazionali tra uomo e animale è possibile imparare a comunicare e a condividere linguaggi ed esperienze.

A seguito di questo percorso formativo ha cominciato a lavorare a svariati progetti sociali, portando in giro per l’Italia le sue esperienze e promuovendo la vera conoscenza del cane, del suo modo di esprimersi e delle sue esigenze.

Nel 2018 ha intrapreso un cammino in Portogallo assieme alla sua cagnolina, dal quale è nato il documentario “My soul paws in cammino con Gioia” (che potete trovare su Youtube), il quale ha vinto diversi premi ed è entrato a far parte dell’archivio digitale della Biblioteca Comunale di Villa Trabia. Questa esperienza l’ha fatta profondamente innamorare del Portogallo, in quanto qui ha potuto respirare un’atmosfera di profonda empatia con gli animali e con la natura, tanto che ha pensato addirittura di trasferirsi e di creare il suo rifugio là. Ma quando ormai tutto era pronto per la partenza, il Covid ha stravolto i suoi piani: viaggiare in tempo di emergenza pandemica era assai difficile, pertanto Lia ha deciso di cercare qua in Italia un luogo adatto a diventare la sede per questo suo progetto. Dopo lunghe ricerche, si è finalmente imbattuta in questa proprietà, situata a Casola Valsenio, ed è così che nel marzo del 2021 è nato il Rifugio Empatico “Save Soul”.

Il nome del rifugio è rappresentativo dell’attività svolta da Lia: “Save Soul” significa “salvare l’anima”, ed è proprio questo ciò di cui si occupa: ricomporre i pezzi di anime spezzate, riabilitare cani maltrattati, che hanno perso la fiducia nell’uomo e che reagiscono alla vita con aggressività o passività, restituendogli la gioia dell’essere cani e dandogli la possibilità di trovare una casa e una famiglia che li ami per la vita.

Appena arrivo, mi presenta tutti i cani che abitano al rifugio: quattro di questi sono di sua proprietà, ma provengono anch’essi da canili e da situazioni di disagio. Si chiamano Gioia, Mariola, Soul e Mate, e mi accolgono scodinzolando e correndo, contente di avere ospiti con cui giocare. Lia mi porta poi a vedere i vari recinti dei cani che accoglie per i percorsi di riabilitazione. Lia conosce da oltre 20 anni il mondo del volontariato e collabora con i canili di tutta Italia. I cani che ospita vengono proprio da qui: i casi più “difficili” vengono dirottati a lei, in modo che possa offrirgli una seconda possibilità. Mi racconta le storie dei cani che sono ospiti del rifugio, e di quelli che sono passati da lì negli ultimi mesi. Mi si accappona la pelle a sentire le sue parole, e gli occhi si inumidiscono pensando alla crudeltà di cui è capace l’essere umano, crudeltà che senza alcun motivo viene riversata su esseri indifesi, che sono anzi capaci di donarci amore incondizionato. Desidero raccontare anche a voi lettori le storie di questi cani, in modo che possiate capire da quali drammatiche situazioni provengono, e soprattutto capire l’immenso lavoro che Lia svolge per dar loro una seconda chance.

RAMBO è uno splendido rottweiler, cane di proprietà acquistato da un allevamento. A soli 8 mesi di vita viene investito da un’auto; questo incidente gli causa la lesione di tre vertebre e quindi la paresi delle zampe posteriori. Nel momento della diagnosi, il proprietario chiede al veterinario di sopprimere il cucciolo, come se la sua disabilità lo rendesse “inutile”, e per questo non degno di continuare a vivere. Fortunatamente il medico si rifiuta di procedere e contatta una volontaria, amica di Lia. Grazie ad una raccolta fondi Rambo viene operato e trasferito al rifugio “Save Soul”. La sua disabilità non è però scomparsa nonostante l’intervento, quindi con Lia inizia un percorso psico-fisico e relazionale. Oggi Rambo ha trovato casa. Vive a Lourdes con una splendida famiglia che lo ama, nonostante la sua disabilità. Quando ha lasciato il rifugio, riusciva nuovamente a reggersi su tutte e quattro le zampe.

LOLA è una meticcia trovata nel bidone della spazzatura dell’ospedale di Napoli a soli 40 giorni di vita. All’età di nove mesi arriva al Rifugio, e grazie a Lia trova adozione a Bologna.

MIRTILLO è un barboncino che ha subito maltrattamenti ed ha vissuto legato ad una catena. Quando arriva al Rifugio manifesta episodi di aggressività, attaccando perfino Lia. Viene visitato e sottoposto ad esami specifici, che mostrano come questa aggressività derivi da una lesione del Sistema Nervoso, causata dai maltrattamenti subiti. Mirtillo è un cane dolcissimo, ma la violenza dell’uomo ha fatto sì che egli manifestasse questi episodi di aggressività, che gli impediscono oggi di stare a stretto contatto con l’uomo e con altri cani. Dopo un periodo trascorso assieme a Lia, Mirtillo è stato accolto all’interno di un’oasi bellissima, nella quale splendide volontarie si prendono cura di lui. Vive tuttavia in un recinto isolato dagli altri cani, in modo tale da non costituire un pericolo per nessuno. È insomma costretto a vivere una vita solitaria a causa dalle violenze che l’uomo gli ha inflitto.

ZOE è una cagnolona di 5 anni, di taglia grande, il classico gigante buono. Proviene da Avellino, anche se ha trascorso un lungo periodo in stallo a Trento. Dopo aver girato mezza Italia, approda al Rifugio “Save Soul”. Di Zoe vedo solo il recinto e la cuccia. Lei è nascosta al suo interno, ed è talmente spaventata dall’uomo che non esce mai in presenza di qualcuno. Chissà quali atrocità ha subito… con lei, Lia utilizza l’aromaterapia, molto utile per calmare i cani più spaventati, e le si avvicina gradualmente, con approcci non invasivi, lasciandole il tempo per riacquistare fiducia. Piano piano Zoe imparerà che non deve più avere paura, capirà che ora si trova finalmente in un posto sicuro, ma vi assicuro che mi si spezza il cuore sapendo quanta paura e quanta sofferenza ha vissuto e vive tutt’ora.

CRIS, il bellissimo labrador che mi ha accolta al mio arrivo con il suo abbaio, ha 11 anni e arriva da Reggio Calabria. È stato sequestrato dalle forze dell’ordine in quanto il suo proprietario lo utilizzava come pungiball. Entra così in canile, e per ben tre volte viene adottato e poi riportato indietro, a causa della sua aggressività. Dopo sei mesi al Rifugio, Cris è un cane nuovo, rinato. Non ha più ringhiato o mostrato segni di aggressività, la quale altro non era che un sintomo dei segni indelebili che il suo passato aveva lasciato nella sua anima. Ora è un cane dolce e affettuoso, che non appena mi vede inizia a scodinzolare e mi mostra una pallina, il suo gioco preferito.

Lia mi spiega che la riabilitazione di questi cani è possibile grazie all’ambiente naturale nel quale è immerso il rifugio, il quale dona tranquillità e permette a tutti gli ospiti di riacquistare fiducia nell’uomo all’interno di un ambiente calmo e non  caotico. Questo permetterà loro di avere una seconda possibilità e di trovare finalmente una famiglia: un cane aggressivo o intimorito difficilmente verrà scelto dalle persone che si recano in canile per adottare un cane. Lia realizza quindi questo progetto di riabilitazione sugli ospiti del Rifugio prima di mandarli in adozione, progetto che lei definisce come una “cura della loro anima”.

Il lavoro di Lia però non si ferma qui. Sta lavorando alla scrittura di storie per bambini, in quanto ritiene che sia fondamentale sensibilizzare fin dalla prima infanzia al rispetto e all’amore per ogni essere vivente. «Raccoglierò le storie dei cani che ho aiutato trasfrmandole in racconti per bambini, in modo tale che possano conoscere la loro storia e la loro rinascita» dice.

“Save Soul”, oltre ad essere un rifugio, è anche un’associazione sportiva, pertanto vengono realizzati percorsi di agility, obedience, dog trekking (nei bellissimi percorsi naturalistici che caratterizzano il nostro territorio), yoga dog e dog house (per lasciare il proprio amico a quattro zampe in un posto sicuro durante le vacanze e contrastare così il terribile fenomeno dell’abbandono). È possibile sostenere l’associazione tesserandosi, per un costo annuale di 25 euro. Tutti i tesserati avranno la possibilità di partecipare agli eventi ludico-ricreativi e formativi organizzati da Lia.

La particolarità con la quale Lia realizza tali progetti e percorsi con i nostri amici a quattro zampe è la cosiddetta “educazione senza biscotto”. Vediamo spesso cani-marionette, addestrati a fare percorsi ad ostacoli in cambio di un biscotto o di un croccantino. E sono ben felice di sapere che Lia si discosta totalmente da questo approccio meccanico e lontano dalla natura del cane. Lia spiega che «il cibo per il cane significa sopravvivenza, pertanto il biscotto fa immediatamente scattare l’istinto e il cane, in cambio di cibo, fa praticamente tutto ciò che gli chiediamo. Ma questo per me significa ridicolizzare l’animale… il nostro rapporto con lui deve andare oltre, deve fondarsi su una relazione autentica ed empatica. Quando chiedo ai miei cani di fare qualcosa, loro rispondono al comando in virtù della relazione che abbiamo instaurato, per complicità e reciproca collaborazione, non con il solo fine di ottenere un premio. Io utilizzo il cibo solamente nella fascia d’età 3-5 mesi, in quanto in questo periodo il cucciolo sviluppa la cosiddetta mappa olfattiva: non c’è ancora apprendimento cognitivo, e il cane si trova in una fase di esplorazione olfattiva, che gli consente di costruirsi la sua rappresentazione del mondo. È quindi importante fargli scoprire odori nuovi e diversi, pertanto in questa fase anche io utilizzo biscotti, carote, mele, ecc. Ma superato questo periodo, lavoro unicamente su una relazione di complicità

A febbraio uscirà inoltre il suo libro, intitolato “La favola di Lola”, in memoria del cane che ha cambiato la sua vita e che l’ha spinta ad intraprendere questo percorso. Sarò felice, in occasione dell’uscita del libro, di intervistare nuovamente Lia, chiedendole di parlarci più a fondo del suo racconto.

Al termine del nostro pomeriggio assieme, ringrazio Lia per avermi permesso di visitare il suo Rifugio e conoscere i suoi cani, i quali nel frattempo si azzuffano tra loro per accaparrarsi le mie coccole. Mi complimento con lei per il suo progetto, in quanto ritengo che il lavoro che svolge per rimettere assieme i pezzi di questi cani soli e arrabbiati, che hanno sperimentato sofferenza, fame e violenza, sia quanto di più nobile ci possa essere. Le chiedo come i lettori del nostro giornale e l’intera comunità casolana possano esserle d’aiuto: «qualsiasi forma di aiuto è ben accetta! Poco tempo fa ho ricevuto delle bellissime coperte, realizzate dagli ospiti della Casa Residenza Anzani di Casola Valsenio… è stato un gesto bellissimo, che mi ha commossa molto! Chiunque volesse fornirmi un aiuto concreto, dandomi una mano in termini di volontariato o lavoro pratico (costruire, imbiancare, tagliare legna e così via) è il benvenuto! Accetto volentieri anche cibo per i miei cani, di qualsiasi tipo: non solo mangimi, ma anche verdure o altri alimenti. In questo momento avrei in particolare la necessità di casette di legno da inserire nei vari recinti. Se qualcuno ne ha in eccedenza, o è bravo a lavorare il legno e ha voglia di costruirne alcune, contribuirà in modo significativo alle attività del Rifugio. Quanti più aiuti mi arriveranno, quanti più cani sarò in grado di accogliere e salvare

Saluto Lia e i suoi cani, che mi riaccompagnano festosi alla macchina. Spero di aver trasmesso ai lettori anche solo una piccola parte dell’emozione che ho provato io visitando il Rifugio, e consiglio a tutti di passare a trovarli. Spero inoltre di aver dato voce ad una bellissima realtà emergente, consentendo così a Lia di pubblicizzare il suo progetto, che sono certa contribuirà a cambiare la vita a tanti cani in difficoltà.

“Salvare un animale forse non cambierà il mondo, ma cambierà per sempre il mondo di quell'animale.”

 

Benedetta Landi

Da qualche anno, all'interno del Progetto “Abilissimi protagonisti” della Zarathustra Film, Fabio Donatini ha realizzato laboratori legati al cinema indirizzati a persone con disabilità. Pochi mesi fa è stato presentato a Bologna un cortometraggio, intitolato Se il mio film avesse le ruote e che potete vedere su Facebook (https://fb.watch/9FIQ5LXy2J/), che rappresenta un po' la summa del lavoro compiuto e “rilegge” alcuni classici cinematografici dal punto di vista della disabilità, con ironia e profondità. Lo Spekki(ett)o ha pensato di raccontare questa esperienza, anche perchè Fabio non è l'unico casolano coinvolto. Fra i protagonisti infatti c'è anche Jader Cavina, che alle multiformi attività a cui partecipa – lo abbiamo visto recentemente travestito da clown per intrattenere i bambini pronti a vaccinarsi nell'hub di Faenza, ma Jader balla anche (e di questo parleremo fra poco) – ha aggiunto anche quella di attore.

Oggi come oggi però non è semplice mettere insieme una intervista fra 3 persone che abitano in luoghi diversi... Certamente avremmo potuto fare una videoconferenza, ma quella si sarebbe esaurita in poco tempo, mentre volevamo darci il tempo per riflettere su cosa chiedere e rispondere. Abbiamo quindi adottato una modalità eccentrica, una chat a 3 su Watsapp in cui ogni tanto buttare lì una domanda, una riflessione, anche a distanza di giorni. Ecco quindi quello che ne è venuto fuori, preliminari compresi.

 

FABIO: Ciao Jader, ciao Michele. Jader, dopo ti giriamo alcune domande qui in chat. Potrai rispondere con dei vocali se vuoi. @MicheleRighini se hai qualcosa da dire scrivi pure.

 

JADER: Ok perfetto capito.

 

SPEKKIETTO: Ciao Jader, ciao Dona, grazie mille per avere accettato la proposta, ci fa molto piacere. Facciamo che inizia Fabio con le domande, poi aggiungo io.

 

JADER: Va bene. Se scrivo la risposta invece di inviare il vocale?

 

SPEKKIETTO: Fai come preferisci Jader.

 

JADER: Sì, anche perchè secondo me è più chiaro.

 

FABIO: @CavinaJader che rapporto hai con il cinema? È un tuo compagno di vita?

 

JADER: Il cinema per me è una forma di espressione, con esso mi sono messo in gioco e devo dire che è stato divertente e lo rifarei altre volte. Collaborare a questo progetto mi è piaciuto molto, in particolare la vicinanza di Fabio e il supporto mi ha permesso di vivere il momento con leggerezza, sapendo che con lui avrei appreso molto.

 

FABIO: Lo rifaresti, bene, ne sono felice. Hai sentito vicinanza con la guardia di Star Wars disabile? [Jader in Se il mio film avesse le ruote non lo vedrete in faccia perchè coperta dal casco bianco delle guardie imperiali presenti nella trilogia originale di Star Wars, n.d.r.]

 

JADER: Sì, mi è piaciuto molto anche perchè ero nello spazio... no, scherzi a parte, interpretare quel personaggio è stato bello in modo particolare perchè ero nel pianeta di sabbia, nel pianeta di terra sarebbe stato troppo facile.

 

FABIO: E cosa, parlando di film o serie che segui, ti piacerebbe fare o interpretare?

 

Il nostro giro di perlustrazione dell’estro casolano non si ferma mai e questa volta abbiamo deciso di rivolgere qualche domanda a Erika Linguerri. Per intenderci, le sue creazioni sono quelle esposte nella vetrina dei Carlò, la ex ferramenta di Carlo Conti. Sarà sicuramente capitato anche a voi lettori, durante le vostre passeggiate serali nel centro di Casola, o più banalmente mentre girate per fare la spesa, di fermarvi anche solo qualche minuto e dare un’occhiata alle novità in vetrina. Chissà che cosa ha colpito la vostra attenzione. I colori? L’atmosfera sognante delle immagini?

Ciao Erika. Partiamo dalla domanda più classica di tutte. Quando è iniziato questo percorso?

Ciao, ormai sono passati molti anni da quando ho frequentato la scuola di ceramica “Ballardini” di Faenza. È lì che ho appreso le principali tecniche riguardanti la lavorazione della ceramica .

Che cosa ispira il tuo lavoro?

Tutto quello che mi circonda, tendo ad osservare molto.

Se tu dovessi individuare delle peculiarità proprie del tuo lavoro artistico, quale indicheresti?

In realtà io non ho uno stile proprio, non mi sento legata solo alla ceramica, trasformo carta, cartoncino legno… cerco di insegnare ad Azzurra a non limitarsi a guardare gli oggetti per quello che sono, ma di andare sempre oltre. Anche un semplice rotolo può trasformarsi in mille altre cose.

So che lavori anche su commissione, nel senso che le persone ti contattano e ti fanno richieste. È diverso lavorare per accontentare le richieste di una persona dal lavorare completamente di fantasia?

Devo dire che chi mi contatta mi lascia piena libertà di espressione, diciamo che va sulla fiducia…

Immagino tu abbia una sorta di laboratorio a casa. Lancio lì un’idea. Perché non aprire una vera e propria bottega?

lidia badini la mia guerra casolaOltre a raccontare la storia di Casola, Lo Spekkietto a volte decide di fare qualcosa in più.

Questa volta ci è piaciuto riportare alla luce una storia, un diario ritrovato che ha attirato subito la nostra attenzione per l'immediatezza e la fluidità della scrittura. Lidia Badini aveva una penna veloce, diretta, coinvolgente: nel diario racconta del periodo in cui -sfollata da Bologna- si rifugiò nelle colline casolane passando di casa in casa in cerca di alloggio e protezione. La seconda guerra mondiale era al momento della svolta? Quello che il diario di Lidia racconta molto bene è la situazione di sospensione dopo l'armistizio del 43: l'illusione della pace e il periodo di stenti, bombardamenti, rappresaglie e guerra civile nel quale l'italia - e piu da vicino Casola Valsenio - si trovava.
Questo libro è stato presentato il 20 Dicembre al centro culturale G.Pittano (Biblioteca di Casola) ed è il frutto del lavoro della nostra redazione: il ritrovamento del diario, la lunga ricerca dei parenti della scrittrice per il benestare alla pubblicazione e le ricerche storiche per l'introduzione che colloca questo testo nello spazio e nel tempo; un piccolo volume che si presta molto bene alla lettura di grandi e piccoli, ora disponibile da Ciata, in via Marconi.

 

Sabato 4 settembre è stata una giornata all’insegna della cultura, della tradizione e dei diritti civili.

Alle ore 16.30, è stata inaugurata la Biblioteca Comunale “G. Pittano”, dopo gli interventi di manutenzione e riqualificazione realizzati nel corso dell’ultimo anno, e in questa occasione si è celebrato anche il 100° anniversario della nascita del Prof. Giuseppe Pittano.

Alle 17.15, è avvenuta la cerimonia di intitolazione della piazzetta antistante la Biblioteca al “25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne”. È stata apposta una targa e sono state installate due panchine, una rossa e una arcobaleno, simbolo rispettivamente della lotta contro la violenza sulle donne e della lotta contro l’omofobia.

Infine, alle 18, è stato inaugurato il murales dedicato ai carri allegorici di gesso e di pensiero, realizzato dalla pittrice Alessandra Carloni.

In questa occasione, il nostro gruppo è stato chiamato ad intervenire sul tema della violenza. Assieme a noi erano presenti Antonella Oriani, in rappresentanza di SOS Donna, e Monia Visani, che assieme ai musicisti della Lega del Suono Buono, ha interpretato un brano dedicato a questa tematica. La nostra portavoce è stata Benedetta Landi, e di seguito riportiamo il suo discorso.

"Buon pomeriggio a tutti. Grazie per essere qui presenti oggi, e grazie all’Amministrazione Comunale per aver scelto di dare voce anche agli Amici della Biblioteca in questa importante giornata.

In quello che sarà il mio discorso non voglio citare i numeri riguardanti la violenza sulle donne, numeri che purtroppo quotidianamente sentiamo in televisione e leggiamo sui giornali. Vorrei piuttosto riflettere sul simbolo che oggi viene posto davanti alla biblioteca.

Perché la panchina?

Cosa ha suscitato in noi, Amici della biblioteca, questo simbolo?

Questa panchina ci ha subito portato alla mente l’immagine di un luogo dove potersi fermare a riflettere, dove potersi prendere una pausa dalle attività quotidiane e dove poter chiacchierare con gli amici. La panchina è anche un luogo dal quale ci si può guardare attorno, dal quale si possono osservare e ammirare il paesaggio, le persone che passano e la vita che scorre attorno a noi.

Una panchina è anche un ottimo luogo nel quale leggere un libro, ed è un luogo pronto ad accogliere tutte le età della vita: i bambini possono sedersi sopra di essa per scambiarsi figurine o decidere le regole di un nuovo gioco, gli adolescenti possono darsi appuntamento lì con il proprio innamorato o con la propria innamorata, gli adulti possono sostare sulla panchina assieme ai propri figli, durante una passeggiata, e gli anziani possono riposarvi sopra o ritrovarvi il piacere della condivisione e del dialogo con gli amici nelle calde sere d’estate.

Una panchina insomma è un luogo di pace e tranquillità, non di scontro. Dalla nostra panchina, non possiamo assistere a episodi di violenza e sopraffazione.

E se ci capita di assistere ad azioni di questo genere, dobbiamo alzarci, non possiamo stare seduti. Nello sport, sta seduto in panchina chi è pronto ad intervenire nel caso in cui ci sia bisogno del suo aiuto. E lo stesso dobbiamo fare noi: tutti dobbiamo farci carico del problema della violenza e tutti dobbiamo essere pronti ad alzarci in piedi quando i diritti di un’altra persona vengono calpestati.

E la panchina deve essere un simbolo che ci ricordi costantemente questo impegno."

https://www.instagram.com/vol_paz/

Già alcuni numeri fa mi ero occupato della street art a Casola e avevo cercato di analizzare nello specifico il murales del cortile delle case popolari. Nel mentre anche le Poste avevano abbellito la sede che le ospita con dei simpatici e allegri disegni. Questa volta le mie considerazioni di ordine generali ve le risparmio (le potete comunque recuperare in quel vecchio numero del giornale) e mi esprimo direttamente secondo il mio punto di vista totalmente soggettivo: il murales di via Roma non è niente male. Sarà forse perché funge anche da vera e propria porta d’ingresso del centro abitato, sarà perché ti si presenta in maniera così imponente che non puoi fare a meno di darci almeno un’occhiata, sarà perché riconosco qualcosa di casolano. Quindi per queste tre motivazioni il lavoro mi piace: funge da “benvenuti a Casola” perché ha messo una pezza al senso di spaesamento sorto dopo la desertificazione del viale del cimitero; l’abbattimento dei pini avrà anche lasciato spazio ad una porzione più ampia di cielo, ma certamente non ha accresciuto il senso di accoglienza a chi fa ingresso in paese da nord. Se Casola è il Paese dei Frutti Dimenticati, delle orbe officinali, della lavorazione del gesso, della speleologia, adesso è anche Paese dei Carri (proporrei semplicemente CARRI, poi il resto della dicitura “di pensiero e di….  “ce lo mettiamo a voce). Il lavoro dell’artista Alessandra Carloni occupa una metratura notevole e se proprio non hai svoltato trecento metri prima per andare alla Storta, ci sbatti lo sguardo contro. Oltretutto nella geografia carresca (termine inesistente nella lingua italiana, ma in quella casolana ben presente) siamo nei pressi della strettoia di Bruscò che rappresenta un punto nevralgico, qualcosa che sta nelle enciclopedie dei luoghi fantastici; luogo di motoseghe, di misurazioni, di manovre incredibili di trattoristi provetti, luogo di imprecazioni e sussulti di gioia. Il terzo motivo per cui il murales mi è piaciuto l’ho semplificato nella frase “ha qualcosa di casolano” e qui il punto si fa veramente spinoso. Già definire qualcosa come casolano è una sorta di impresa titanica, una categoria sfuggente e impalpabile, una categoria forse dello spirito, chissà. Semplicemente intendo dire che a guardarlo bene, il murales contiene degli elementi che appartengono intrinsecamente al modo di pensare e di realizzare i carri. Per dimostrare questo cercherò di fare un’analisi dell’opera e mi calerò nelle parti di un critico d’arte, che ovviamente non sono.

Partiamo dal basso. Per prima cosa troviamo il carro nella forma che i costruttori conoscono bene, l’equivalente della tela bianca per un pittore. È da lì che si parte, da aspetti puramente concreti ed ingegneristici (misure, pesi, bilanciamenti). È la base concreta da cui prendono slancio i sogni. Questo aspetto è evidente dal fatto che il carro non è appoggiato sulla strada, sull’asfalto, ma su leggere nuvole color violetto (uno dei toni principali di tutta l’opera). Con i piedi ben saldi sulle nuvole si trovano due personaggi raffigurati con i tratti che caratterizzano tutte le figure umane del lavoro dell’artista Alessandra Carloni. È una sorta di marchio di fabbrica, un elemento proprio della sua cifra stilistica. Il personaggio sulla sinistra lavora di sega, simbolo della fatica e della cura del dettaglio, quello di destra tiene tra le mani una corda. Per ancorare il carro alle nuvole?

Con i piedi appoggiati sul carro troviamo la figura principale, la Primavera. L’opera è per l'appunto intitolata “Allegoria della Primavera”. Come da tradizione si tratta di una giovane donna perché la stagione primaverile porta con sé tutta una simbologia legata alla rinascita. Pensate alla Primavera più famosa al mondo, quella di Botticelli. Nella nostra Primavera il vestito è lento, in testa porta una corona di fiori, però non ha nessuna grazia rinascimentale, non ci sono rimandi alla classicità, il viso non ha espressione, il corpo è quello di un burattino con le giunture ben visibili. La posizione forse non è delle più azzeccate perché non si intuisce con la dovuta immediatezza che cosa stia facendo. Sorregge Casola? La spinge indietro? A mio modestissimo parere è il punto debole dell’opera.

Continuando a salire troviamo diversi elementi urbanistici identificativi di Casola (torre dell’orologio, chiesa di sopra, ecc...) a cui l’artista ha aggiunto altri elementi desunti da carri allegorici delle ultime edizioni: riconosco i mulini a vento di un carro Nuova Società Peschiera e una cima di un carro Extra.

Musicalmente a Casola si respira un’aria buona, basti pensare all’attività dei tanti professionisti del settore che ottengono riconoscimenti in giro per l’Italia oppure alla ricostituita Lega del Suono Buono che si è già messa in mostra per una serie di iniziative durante l’estate. Senza nulla togliere ai musicisti più navigati,  vorrei questa volta dedicarmi ai giovani, ma veramente giovani. Se volessi utilizzare un termine molto sanremese direi che anche noi del giornale abbiamo sempre dato ampio spazio alle “nuove proposte” per fare conoscere nuove band e musicisti che si affacciano al mondo della musica e al palcoscenico. Oggi abbiamo il piacere di conoscere un giovane producer casolano, Fabrizio Benericetti e faremo quattro chiacchiere con i Wonderrof, gruppo che abbiamo già intervistato un paio di anni fa ma che sta sfornando importanti novità.

Partiamo da Fabrizio

Nome d’arte?

Bicio.

Ha un significato particolare?

No, in realtà non ho un vero nome d’arte, ma “Bicio” è il nome con il quale tutti mi conoscono e mi chiamano da sempre. Per questo motivo sono molto legato ad esso e mi piace essere riconosciuto così anche in ambito artistico/musicale. Non escludo però che più avanti possa cambiarlo.

Adesso ti chiediamo di fare un piccolo sforzo e di tendere una mano ai nostri lettori meno esperti di musica. Che cosa significa producer?

Il producer è colui che si presenta con l’idea in studio, cioè con il progetto completo in mente. Il progetto viene poi passato al beatmaker che si dedica al suo sviluppo e quindi alla creazione del brano mettendo insieme: parti melodiche (sample, synth, ecc…), parti ritmiche ed effetti, arrivando infine alla realizzazione di una base musicale (beat).

Spesso i compiti di producer e beatmaker sono realizzati dalla stessa persona, oppure il beatmaker crea delle bozze per facilitare il producer a realizzare l’idea.

Io in questo momento preferisco definirmi un beatmaker piuttosto che un producer, anche se spesso lavorando da solo, o in due, alla fine mi trovo a fare entrambi i ruoli con i limiti dettati dalle capacità che attualmente possiedo.

Che musica fai?

Il genere di musica di cui principalmente mi occupo è il rap e i suoi sottogeneri come: la trap di Atlanta e la uk drill, ma in realtà cerco di spingermi anche verso altri stili di musica, sia per curiosità e passione, sia per cercare di integrare sonorità diverse.

Quali sono i tuoi punti di riferimento?

Ci sono tanti artisti italiani e stranieri che apprezzo molto, nel campo italiano ad esempio: Sick Luke, Mace e i 2nd Roof che sono produttori che hanno sonorità innovative e molto interessanti. Allargando invece in campo extraeuropeo seguo: Metro Boomin, Southside e Dr. Dre che credo siano un punto di riferimento anche per gli esperti del settore qui in Italia. La loro peculiarità è la capacità di creare suoni così particolari da renderli sempre identificabili. 

Stai lavorando a qualcosa di preciso?

Sì, sono in costante attività: con un amico di Palazzuolo con il quale mi trovo per produrre insieme, abbiamo una pagina Instagram chiamata: prod_bxr (bicioxraffa) dove carichiamo periodicamente alcune delle nostre produzioni.

Inoltre sto anche lavorando ad un progetto con due miei cugini per la produzione di un disco.

Il progetto ha l’intento di creare il disco con una sonorità rap/trap/hip-hop associata a testi dai contenuti ricchi di significato. La difficoltà di questo progetto è la distanza, abitiamo in luoghi lontani tra noi e siamo costretti a lavorare attraverso videochiamate, per questo motivo si tratta di un progetto a lungo termine. Ma nonostante questo sono molto preso ed entusiasta per come si sta evolvendo la cosa.

Infine, aggiungo che sono ancora in continua formazione, seguendo corsi e cercando sempre di migliorare le mie capacità.

Grazie Fabrizio e stai certo che resteremo sulle tue tracce.

Passiamo adesso ai Wonderrof.

Avete sfornato un nuovo EP dal titolo Six Complaints (From Disgruntled Kids), descriveteci questo progetto.

Una lunga estate siccitosa e calda. Frase breve e laconica che nasconde una situazione critica sul fronte degli approvvigionamenti idrici e su alcune colture. E’ il secondo anno di fila che riusciamo per un pelo a non cadere in regime di razionamento nell’acquedotto pubblico. Il calo brusco delle temperature e qualche acquazzone intenso ci hanno salvato in extremis almeno per le forniture idriche domestiche. Diverso è stato per le colture dove la siccità ha condizionato l’esito dei raccolti che sono stati magri soprattutto per la medica e il castagno.

Complice anche un’allegagione che aveva caricato di ricci le chiome dei castagni la carenza di piogge ha fatto maturare frutti molto piccoli. Pochi i marroni di buona o discreta pezzatura che una volta caduti a terra hanno poi subito l’appetito famelico di caprioli e di cinghiali che hanno falcidiato il già magro raccolto. I prezzi alti non hanno compensato la perdita di reddito dei castanicoltori.

Per gli altri frutteti l’aiuto compensativo per la carenza di pioggia è stata l’irrigazione. Già da parecchi anni una parte delle aziende agricole di Casola fruisce dell’acqua irrigua che viene tesaurizzata durante l’inverno negli invasi progettati dai tecnici del Consorzio di Bonifica della Romagna Occidentale.

Abbiamo posto alcune domande a Rossano Montuschi che dirige il distretto montano di competenza del Consorzio e che ha seguito personalmente tanti progetti proprio nel nostro territorio comunale. Lo ringraziamo anche per averci messo a disposizione la tabella che pubblichiamo in calce. Riguarda la piovosità misurata nella stazione di Casola dei primi nove mesi dell’anno, periodo entro cui si svolgono i cicli colturali delle principali colture agrarie e che ne condiziona lo stato vegetativo. Se la media negli ultimi venti anni è stata di quasi 630 mm, negli ultimi due è calata di un terzo raggiungendo appena i 430 mm nel 2021 addirittura un pelo sotto al famoso 2003 che tutti ricordiamo per la disastrosa siccità.

D1) Siamo a fine ottobre e si può ormai dire che la stagione siccitosa è conclusa. Anche per il kiwi, ultimo frutto irriguo a essere staccato, è partita la raccolta. Gli invasi irrigui casolani e anche quelli del circondario sono riusciti a a far fronte alla siccità?

R1) Si, si può affermare che la stagione irrigua è conclusa per la totalità delle colture irrigue più importanti del nostro territorio. Le tre strutture interaziendali presenti nel fondovalle del territorio casolano (invaso di Rio della Nave, delle Mighe e del Tufo) hanno ampiamente fatto fronte alla carenza di piovosità che sta caratterizzando quest’ultimo ventennio (vedi immagine). Tuttavia le situazioni più critiche si registrano nelle fasce pedecollinari a monte degli abitatati di Imola, Castel bolognese e Faenza mentre l’impatto della carenza di precipitazioni nel territorio casolano è sensibilmente inferiore.

D2) Qui a Casola il Consorzio gestisce numerosi acquedotti rurali. Qual è la situazione delle sorgenti che li alimentano e che un tempo, prima che per alcuni di essi si realizzasse il collegamento con l’acquedotto di Casola, erano l’unica fonte idrica?

R2) Sono presenti numerosi acquedotti rurale alimentati fin dagli ’60 con sorgenti perenni che sono stati oggetto di ammodernamento ed adeguamento con le risorse rese disponibile dagli utenti e dalla regione Emilia Romagna nell’ambito del PSR 2007. Questo ha consentito di interconnettere queste strutture con la rete pubblica e pertanto si è in grado di sopperire alla carenza di risorsa e alla scarsità delle sorgenti che nel periodo estivo riducono le portate di circa il 50%.

Tuttavia voglio sottolineare l’importanza di queste strutture che - se ben gestite - garantiscono l’alimentazione di fabbricati rurali sparsi sfruttando l’unica risorsa disponibile in aree extra urbane.

D3) L’estate appena trascorsa ci ha rammentato che sulla disponibilità della risorsa acqua si gioca la sostenibilità dell’agricoltura soprattutto in collina. Va detto che il Consorzio già da tempo ha messo in cantiere opere fondamentali per affrontare questa criticità. Avete altri progetti in merito?

R3) Se una ventina di anni fa si ipotizzava la realizzazione di strutture irrigue interaziendali unicamente al servizio di colture maggiormente idro-esigenti ad esempio il kiwi e il pesco ora la situazione è cambiata radicalmente in quanto si assiste ad una carenza di precipitazioni che rende difficile il completamento del ciclo produttivo di qualsiasi coltura. Faccio un esempio relativamente vicino: nella zona pedecollinare della valle Senio segnalo che quest’anno sono caduti 190 mm di piogge nei primi nove mesi dell’anno. Con il permanere di un regime delle precipitazioni di questa tendenza e in assenza di strutture irrigue non è pensabile la permanenza di aziende agricole economicamente vitali ancora per molti anni.

I progetti che stiamo portando avanti riguardano l’ampliamento di un sistema irriguo nella valle del Torrenete Sintria, nella porzione di comprensorio ricadente nel Comune di Casola Valsenio oltre ad uno studio di fattibilità per l’area di Pagnano a monte del capoluogo comunale.

Con buona probabilità nel primo semestre del prossimo anno dovrebbero riaprire i bandi a valere sulla misura 4.1.03 del PSR 2014-2020 che sarà prorogato – causa COVID – nel biennio 2022 e 2023.

A cura di Roberto Rinaldi Ceroni

 

Azienda Prata   Casola Valsenio

Vado ad intervistare Alex e Massimo  in una giornata ventosa e nuvolosa di questo strano maggio agitato e nervoso come in pochi altri anni è capitato di vedere.

Con l’auto mi immetto nella strada che lambisce il parco del Cardello, mi  inoltro un po’ in una direzione che rimane pianeggiante e non sale in alto, come altri sentieri della zona. Il paesaggio intorno a me è gentile, con tanti olivi dalle foglie argentate  e la macchia mediterranea, con cento tonalità di verde, del parco.  Ad ogni bivio compare l’indicazione” FRANTOIO”.

 Ecco, sono davanti a “Prata”, una casa di campagna ristrutturata, con a lato un grande capannone e di nuovo  l’indicazione FRANTOIO.

Ho un appuntamento sul primo pomeriggio perché in questi giorni i lavori dell’azienda agricola richiedono molte ore e non posso chiedere  troppo tempo per un’intervista,   anche se  per il nostro  glorioso “Spekkietto”.

Mi sono preparata una serie di domande, ma la chiacchierata fluisce veloce e spontanea per cui riassumo sotto forma di intervista una vera e propria  e semplice conversazione.

 

Da quanti anni funziona il vostro frantoio?

Nel 2016 abbiamo deciso di comprare un frantoio per noi, per fare il nostro olio con le olive dei nostri ulivi, un frantoio a pressa. Poi qualcuno ci ha chiesto di molire anche  le loro olive, poi qualcun altro ancora, con il passaparola abbiamo ricevuto sempre più richieste, così abbiamo deciso di cambiare il frantoio, non più a pressione ma a forza centrifuga a freddo, e da allora non ci siamo più fermati, abbiamo continuamente acquistato nuove macchine ed aggiornato  le nostre competenze.

 

Che differenza c’è tra i due tipi di frantoio?

Nel vecchio frantoio a pressa l’olio prendeva luce, aria, sbalzi di temperatura, ma per fare il nostro olio andava bene. Nel frantoio a forza centrifuga, a freddo, l’oliva non incontra luce, aria, temperatura esterna. L’olio è una vera spremitura, una semplice estrazione che mantiene al meglio le qualità del succo delle olive:  puro olio extra vergine, con le migliori proprietà organolettiche e chimiche. Da allora  usiamo macchine toscane che sono leader mondiali in questo settore.