Il trionfo di Trump su Kamala Harris lo scorso 6 novembre è stato netto; e lo è stato in misura maggiore rispetto alle elezioni del 2016 nella corsa alla presidenza contro Hillary Clinton. Questa volta, Trump ha vinto anche nel voto popolare, col 51% delle preferenze a livello federale – anche se, nel sistema elettorale americano, conta conquistare il maggior numero di grandi elettori (270 è la soglia minima), e la lotta più serrata si consuma negli Stati cosiddetti “in bilico” (swing states), ossia quelli che storicamente non sono né rossi (repubblicani) né blu (democratici), come Pennsylvania e Georgia, Michigan e Iowa. Trump non ha solo vinto in questi Stati, ha vinto oltremodo dove non si sarebbe neanche lontanamente pensato1: per questo ha migliorato di molto i risultati del 2016. Trump ha ottenuto voti – dicevamo – dalla maggioranza degli americani, persino all’interno di fasce sociali che tradizionalmente votavano dem: latinos ed elettori non bianchi, ossia le minoranze etniche, per le quali ha pesato l’inflazione e la religione (Trump sarebbe passato dal 33% a quasi il 50% dei votanti non bianchi)2. Trump, inoltre, con questa vittoria, è stato il solo presidente della storia degli States ad essere eletto per la seconda volta in maniera non consecutiva (2016/2024), l’unico assieme a Grover Cleveland, presidente dem, più di 130 anni fa (1885/1993): nonostante l’anzianità, l’assenza di una alternativa migliore e più giovane, gli scandali che gravano a suo carico, Trump è apparso – di nuovo – come la «grande novità» del panorama politico statunitense, come il «vero successore di se stesso».
Molti prospettavano Trump come favorito, specie dopo essere sopravissuto a due attentati in due distinte occasioni di comizio elettorale – fatti che hanno indiscutibilmente rafforzato la sua immagine in tutto il mondo (non è di certo poco). Che ci piaccia oppure no, il Tycoon newyorkese diventerà il 47esimo presidente USA e si insedierà a Washington, nello studio Ovale della Casa Bianca, a partire dal 20 gennaio prossimo, dopo che Joe Biden avrà terminato il suo mandato. Ecco dunque che il caro e (soprattutto) vecchio Donald è “risuscitato” ed è tornato a guidare l’America più forte che mai, nonostante la sua precedente sconfitta nel 2020, l’assalto di Capital Hill che lo adombrò, la perquisizione della villa a Mar-A-Lago da parte dell’FBI, i molteplici scandali, le condanne e la “galera” che sembravano ormai aver decretato la fine della sua carriera politica (a 78 anni, non si può dire che non abbia grinta). In altri Paesi forse tutto questo non sarebbe potuto accadere, ma – ehi – non in America (e qui non so se scrivere: “meno male, non siamo più gli unici a collezionare figuracce” o “sì, ma devono ancora mangiarne di pasta asciutta”).
Analizzando i dati elettorali, rispetto alle elezioni del 2016, questa volta la vittoria di Trump è stata totale e più generalizzata, segno che sono diversi i fattori da considerare per la grande rilevanza che hanno avuto a bilancio del risultato finale. Mettiamoci pure che Kamala è stata scaraventata nella corsa alla presidenza a cento giorni dalle elezioni, e che Trump partisse come favorito rispetto a un Biden sempre meno presentabile; che in America, sebbene ci sia già stato un presidente nero, non è giunto ancora il momento di eleggere una presidente donna; che in fatto di comunicazione, lo staff di Harris non è riuscito a stare al passo con Trump, il quale ha centrato specifici canali d’informazione e ha saputo raccogliere i malumori attorno ai temi principali della politica interna, come l’economia e l’immigrazione.
In realtà, il Tycoon è apparso parecchio sotto pressione rispetto a Harris nell’ultimo periodo, mancando a diversi appuntamenti con il pubblico (cancellandoli di fatto), tra cui: 60 minuts – la più autorevole e temuta trasmissione giornalistica americana – NBC, poi con CNBC, poi con la redazione del più grande quotidiano di Detroit; ha toppato in diversi comizi, è stato umiliato da un elettore negli studi di Univision (tv dal pubblico latinoamericano) ed è andata male persino da Fox News, il cui pubblico è repubblicano. Ciononostante, niente di tutto questo si è tradotto in un crollo nei sondaggi e non è chiaro – come scrive Francesco Costa – «se questo ci dica di più dell’America o dei sondaggi», i quali, di fronte all’incertezza, producono tutti risultati simili e tendono a limitare i rischi. Forse, a discapito dei buchi nell’acqua, la sua popolarità è da ricercare nel suo stile comunicativo da comizio – che Trump stesso definisce the weave – fatto di frasi perentorie, brevi e sconnesse, alternate a entrate sceniche, musica anni 70/80 su cui oscillare per svariati minuti, attacchi deliberati sotto il velo di minacce: tutto per fa attirare l’attenzione su di sé, prendersi il palco, galvanizzare i suoi e ossessionare i media e gli osservatori internazionali. Inoltre, se Harris passava il tempo a saltare da un canale all’altro e da un comizio all’altro per non cedere terreno allo sfidante, Trump ha dominato la scena nei podcast (i giornali parlano di «podcast election», vedi Joe Rogan) e sui social media, dove l’età dei votanti si abbassa e dove si accentuano le polarizzazioni. L’ultima fase della campagna elettorale ha visto i rispettivi candidati intercettare il consenso presso nicchie di pubblico definite al di fuori del loro elettorato: Kamala ha cercato di convincere gli indecisi specialmente tra donne e afroamericani; Trump cercava il «bro vote» – il voto dei giovani under 30, tradizionalmente spostati verso sinistra. Lo staff di Trump, inoltre, non ha mai perso l’occasione di denigrare i democratici attraverso la strumentalizzazione delle notizie e la montatura di spot mirati (i 6,5 mln di dollari spesi per lo spot contro le parole di Kamala per normalizzare la «transizione» di donne transgender detenute con l’ausilio di fondi pubblici ha fatto guadagnare a Trump 2,7 punti percentuali rispetto ad Harris (vedi Future Forward) e la trasmissione di fake news (celebre l’intento di accostare Harris al producer P. Diddy, coinvolto nel recente scandalo per l’accusa di stupro di decine di donne del mondo dello spettacolo).
Eppure, confrontando i dati dell’ultima edizione elettorale con le precedenti, si può notare come Trump sia stato premiato soprattutto per aver parlato alla pancia del Paese, per aver rassicurato i suoi elettori sulla politica economica e per aver cavalcato le inquietudini di molti sotto forma di un unico attacco contro i democratici e la cultura woke,3 non senza colpi bassi, toni sprezzanti e sensazionalismo.
A ragione di ciò, vediamo infatti come, sotto l’amministrazione Biden, molte cose sono migliorate dagli anni del Covid in fatto di politica economica. Dal 2019: la disoccupazione è scesa al 4%, il PIL USA al +7%, l’inflazione è sotto controllo e i posti di lavoro sono aumentati di 5 mln (pacchetti di investimenti per un nuovo tipo di industria verde e tecnologica nelle zone più impoverite degli Stati Uniti); eppure, per 7 americani su 10 l’economia va male. Da qui il termine degli esperti: vibecession, usato per definire la netta discrepanza tra i dati economici e i sentimenti (negativi) circa il proprio potere d’acquisto e gli affari, trasformandosi, nelle fasi finali, in una sfiducia nel futuro e nella politica di Biden – la stessa che avrebbe perseguito Harris se fosse stata eletta (soltanto il 40% degli americani aveva un giudizio favorevole nell’attuale preseidente dem, sondaggio NYT). In questo caso, il demerito è stato proprio dei democratici, che non hanno saputo rivendicare i propri risultati in ambito economico. Quest’estate, i sondaggi mostravano una forte preoccupazione degli americani in particolare sul costo della vita (inflazione al 9% sui beni di prima necessità, superiore agli anni pre-Covid) e sul cambiamento delle politiche industriali – tra transizione energetica e competizione con la Cina (sebbene gli Stati Uniti non abbiano accusato rincari energetici come l’Europa, avendo a disposizione di giacimenti intraterritoriali; anzi, il loro export è aumentato proprio verso quei Paesi che hanno tagliato i rapporti con la Russia, a seguto dell’invasione dell’Ucraina). Nonostante i dati favorevoli, i salari medi non sono aumentati e in un paese dove non esiste lo stesso livello di Welfare e dove non vi sono gli stessi amortizzatori sociali come in Europa, l’inflazione ha un peso significativo, soprattutto nelle realtà di provincia (figuriamoci durante una campagna elettorale). In tal senso, sull’economia, dobbiamo interpretare il voto degli americani come un voto “di pancia”, i quali hanno scelto di salvaguardare il proprio portafoglio, e Trump è riuscito a intercettare questo malcontento, facendo proprie le paure della classe media.
Rispetto ad Harris, che ha giocato una partita tutta ideologica, presentandosi come l’anti-Trump su temi come l’aborto, il clima e i diritti civili, Trump ha quindi saputo interpretare le priorità degli americani, rappresentando meglio gli interessi e le inquietudini dei cittadini. Non è un caso che i temi caldi appannaggio dei repubblicani – quali l’economia e la paura dell’immigrazione – siano stati i più decisivi a livello percentuale, a detta dei sondaggi. Bisogna dire che i democratici hanno lottato su un terreno sdrucciolevole. Harris, a differenza di Biden – la cui agenda 2020 era a cavallo tra i verdi, l’economia, l’assistenza sociale, pro-occupazione, i lavoratori ecc. – ha fatto propria la battaglia sulle identity politics (politiche sull’identità di genere) – su cui democratici e repubblicani sono estremamente polarizzati – ma basandosi unicamente su di esse. Con Harris, il tema dell’identità ha prevalso sulla politica, sulle priorità degli americani appunto, e la cosa non ha funzionato. A molti elettori, inoltre, potrebbe non essere piaciuta l’ipocrisia della Harris sui alcuni temi a lei cari: sì alla politica Green, e poi rivede la sua posizione a favore del fracking (tecnica di estrazione del gas naturale che vede gli States primi esportatori al mondo); sacro diritto dell’aborto, ma per la drammatica situazione in Palestina rimane il suo sostegno a Israele, per quanto sofferto. Ricordiamo a tal proposito che lo staff di Trump e in primis l’endorsement di Musk hanno plasmato la loro lotta elettorale proprio in funzione di un eradicamento di quella sinistra – politically correct, moralista, perbenista – in America riconosciuta nella cultura woke . I sondaggi mostrano come donne e minoranze etniche abbiano votato meno per Harris rispetto a Biden nel 2020: sintomo che per una donna, un musulmano o un latino della classe bassa, sentirsi parlare solo di aborto anziché di un sostegno economico non poteva interessare un granché .4
Sulla politica internazionale, gli elettori hanno votato la persona apparsa più competente: in un momento storico politico come questo, in piena crisi internazionale, con l’apertura di due fronti sensibili in due anni, in cui le destre nazionaliste e radicali appaiono più rassicuranti e soprattutto si esprimono in favore della pace, l’americano ha dato credito alle parole di chi è convinto di «terminare tutti i conflitti in 24 ore». Ciò che preoccupa gli osservatori internazionali – soprattutto noi del Vecchio continente – sono le promesse dei dazi (fino al 25%) sulle importazioni, in particolare di Cina, Canada, Messico ed Europa. In verità, quella dei dazi, è una battaglia più politica che economica (vedi Francesco Costa): i dazi sono ormai una pratica economica spesso autolesionista che gli stati cercano di mettersi alle spalle; dal punto di vista politico, invece, sono un’arma negoziale da usare come minaccia, magari per ottenere altri risultati (di fatto, oggi le economie mondiali sono troppo collegate e interdipendenti tra loro). Se stiamo alle parole di Trump, la prima anomalia è che l’annuncio dei dazi sia arrivato due mesi prima dell’insediamento: perché legarsi le mani annunciandolo con così largo anticipo? Forse per spingere i mercati a prezzare gli effetti dei presunti dazi, sulla base di una semplice promessa? La seconda anomalia sta nel fatto che durante la prima presidenza, Tump aveva già imposto dei dazi su Canada e Messico, per poi rimuoverli a seguito di un nuovo accordo commerciale da lui siglato. Dopo una serie di telefonate il Messico si è trovato disposto di fermare i migranti al confine. Come ha scritto il giornalista Jonathan Last:
«prima Trump promette che fa cose assurde. Poi annuncia che farà le cose assurde. I media a quel punto impazziscono […] ma poi Trump rinuncia a fare cose assurde. A quel punto se n’è parlato così tanto che i suoi sostenitori gli attribuiscono comunque il merito di averle fatte»
Per tirare le conclusioni, chi pensa catastroficamente che, tornato Trump, lo stato delle cose non sarà più quello di prima, si andrà sempre peggio; che avremmo a che fare con un leader misogeno, razzista, simbolo del patriarcato – vero – un pazzo che scatenerà il caos per tutte le scorrettezze e le ingiustizie che ha detto e dirà (tra gli americani c’è in atto un esodo da X – piattaforma social di Musk – c’è chi ha tolto il saluto e chi persino fa lo sciopero del sesso verso chi ha votato Trump), non deve dimenticare che la politica è una sfera complessa della nostra società e che la maggior parte degli elettori non sceglie il proprio leader sulla base di qualcosa che ha detto circa un solo argomento, ma considera un ventaglio di fattori/opportunità che – abbiamo visto – appartengono quasi sempre alle finanze che abbiamo in tasca. Io credo verosimilmente che nella realtà non siamo così polarizzati come pensiamo o come sembriamo sui social media: semmai siamo molto più simili. Infine ricordiamoci che, durante una campagna elettorale – e questo dovremmo ormai saperlo – le promesse fatte dai politici non vengono quasi mai rispettate.
Lorenzo Sabbatani
Note:
1. Starr, Texas, è considerata una delle contee più democratiche. Non votava un repubblicano del 1892 e stavolta Trump ha ottenuto il 57% delle preferenze; Trump ha vinto in tutti i quartieri di NY
2. In Georgia, nelle contee a maggioranza afroamericana come Hancock, Talbot e Jefferson, il consenso di Trump è aumentato rispetto al 2016 (nella contea di Baldwin ha vinto). In Florida i Repubblicani hanno vinto per la prima volta da mezzo secolo nella contea di Miami. Anche tra le comunità latinoamericane del Texas, Trump ha vinto in 14 su 18 contee. I musulmani hanno votato per circa il 30% Trump.
3. il capitolo è molto grande e non si può aprire in questa sede, ma corre trasversalmente in tutte le politiche occidentali di una certa sinistra: per chi scrive, è uno dei motivi principali per cui le sinistre perdono e le destre ultraconservatrici invece governano.
4. Nonostante sappiamo che Trump abbia passato tutta la campagna elettorale a disprezzare il migrante e lo straniero.
FONTI:
PODCAST: Storie di Geopolitica, Daily cogito
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