Di recente, è diventata celebre l’inchiesta di una giovane giornalista romagnola – Giulia Innocenzi – che ha indagato sulla connessione tra l’industria della carne, le lobby e il potere politico, all’interno dei paesi UE. L’inchiesta prende forma nel docu-film investigativo Food for Profit (aprile 2024) [Proiezione ai VECCHI MAGAZZINI 11 giugno 2024], da lei diretto assieme al regista internazionale Paolo d’Ambrosi. Il documentario è apparso – in versione ridotta – in una recente puntata di Report su Rai 3 (visibile in streaming), programma in cui Giulia aveva già partecipato con un’indagine sotto copertura in cui era riuscita ad entrare nel maxi allevamento-grattacielo di maiali in Cina (sempre visibile in streaming su Rai), oltre ad essere proiettato in molti cinema italiani proprio in queste settimane. Il film ha l’intento demistificatorio di portare alla luce le controverse intenzioni di alcuni rappresentanti della politica a Bruxelles che, sull’impulso delle lobby dei grandi allevamenti intensivi, vorrebbero investire sempre più miliardi – e già lo fanno – nel settore agro-alimentare. Ma i finanziamenti pubblici della PAC – Politica agricola comunitaria – vanno per oltre la metà al 10% agli imprenditori più ricchi e solo il 6% delle sovvenzioni al 50% di quelli più poveri, anche se attualmente le riforme stanno cambiando (dati Matthews 2022). Oltremodo, l’obiettivo è sicuramente quello di raccontare, attraverso la crudezza delle immagini, le condizioni aberranti a cui sono sottoposti certi animali – gli stessi a cui l’Unione Europea dovrebbe garantire i diritti per evitare loro sofferenze e inutili maltrattamenti – nonché quello di riprendere situazioni gravi che in quanto tali avrebbero un impatto ecologico sul territorio e di conseguenza sul pianeta.

Premessa – l’articolo che segue non ha alcun interesse a screditare l’attività degli allevatori o della loro professione in generale, di chi lavora onestamente, delle aziende agricole dislocate anche sul nostro territorio. L’inchiesta riportata da Giulia nel suo film si riferisce agli allevamenti che non rispettano le normative europee: qui non facciamo di tutta l’erba un fascio. Proprio per evitare discriminazioni di categoria, è stata condotta una piccola ricerca sul territorio, raccogliendo opinioni diverse tra allevatori e professionisti del settore, al fine di avere gli elementi necessari in grado di formare anche l’opinione dei lettori di questo articolo, che vestono i panni dei consumatori nella realtà quotidiana. L’obiettivo è proprio quello di fare chiarezza sul tema e generare un dibattito aperto che possa stimolare la riflessione sui contenuti qui proposti.

Problematiche e dati alla mano

Siamo franchi: molti di noi mangiano carne, spesso. Personalmente, mangio carne da tutta la vita. A volte, se manca la pasta o la carne, mi pare di non aver nemmeno pranzato. Quindi non ho mai disdegnato: la bistecca di vitello, la costola d’agnello, la fiorentina, lo stufato, la salsiccia grigliata; ma anche gli insaccati, il brodo con il lesso dentro, il ripieno dei cappelletti (i nostri di collina), il ragù, le polpette ecc. In Romagna, poi, l’alimentazione e lo stare a tavola rientrano nella nostra cultura più intima e casereccia, a cominciare da quella trasmessa dai nostri nonni, molti dei quali contadini, che, nel periodo invernale, uccidono il maiale per fare scorta tutto l’anno. Il maiale può essere considerato l’animale simbolo della Romagna dal punto di vista alimentare, la cui storia rimanda agli antichi confini di queste terre: Longobardi (poi Franchi) e Bizantini. A pensarci, la piadina nasce con lo strutto, non con l’olio. Ergo, l’allevamento porta con sé un enorme valore culturale da cui non possiamo prescindere e non è semplicemente finalizzato alla mera alimentazione. Questo porta a coinvolgere i sentimenti e a complicare i ragionamenti. Personalmente, tutto ciò mi è sempre andato bene (almeno finora): d’altra parte, se la carne si vuol mangiare, l’animale si deve uccidere.

Negli ultimi anni, tuttavia, il tema della produzione di carne è tornato alla ribalta in conseguenza all’emergenza climatica: all’esigenza di invertire la rotta in termini di emissioni di CO2, alle ragioni del discorso ecologico e dell’economia sostenibile. Riportiamo qui alcuni dati scientifici, ad oggi ancora oggetto di dibattito tra gli esperti:

  • l’allevamento tradizionale sarebbe responsabile di circa il 14% delle emissioni di gas serra e il 32% delle emissioni di gas metano riconducibili all’attività umana, ed è anche una delle principali cause di perdita di biodiversità – perché per nutrire il bestiame grandi aree boschive vengono convertite in monocolture (come la soia per esempio). Tuttavia si sta discutendo molto sull’impatto effettivo causato dal settore agricolo: il dato scenderebbe di molto se si considerano gli assorbimenti (l’emissione di CO2 in Europa scenderebbe dall’11% al 4%); inoltre, bisognerebbe distinguere i gas a vita breve (metano) da quelli a vita lunga (CO2), utilizzando parametri differenti. Sul tema dell’assorbimento, per esempio, si dovrebbe tenere conto che gli animali allevati, come i bovini, trasformano foraggi e cellulosa in proteine nobili (carne e latte), mentre rilasciano, per metabolismo, metano e CO2 – che sono altro rispetto alle sostanze inquinanti emesse in atmosfera per combustione. Di vero, però, c’è da dire che gli allevamenti intensivi impattano molto a partire dai liquami degli animali, i quali generano particolato secondario (fonte Greenpeace e ISPRA, 2020: in Italia gli allevamenti intensivi sono responsabili del 17% di emissioni di PM2.5, dannosi per la qualità dell’aria). È importante però distinguere, per esempio, il letame dal liquame: il primo deriva da allevamento su paglia, si trasforma in humus che lentamente genera fertilità nei campi, mentre il secondo è un sottoprodotto dell’agricoltura industriale – altro non è che l’acqua nera proveniente dal lavaggio delle stalle – e non subisce trasformazioni ma va diretto nel terreno, con rilascio di nitrati in falda acquifera e ammoniaca in atmosfera.
  • Riguardo all’impronta idrica della carne – ossia l’utilizzo dell’acqua nel processo di produzione della carne, che tiene conto quindi della produzione dei mangimi, l’allevamento, la depurazione degli ambienti e la macellazione – convenzionalmente si aggirerebbe intorno ai 15.000 litri per 1kg di carne (anche se il Water Footprint Network non terrebbe conto che la maggior parte dell’acqua utilizzata è piovana evo-traspirata dal terreno delle colture destinate ai mangimi, e torna dunque al suo ciclo naturale: in tal senso, il dato si ridurrebbe di parecchio, circa dell’80%). Di fatto, l’impronta idrica per la produzione alimentare in generale vede al primo posto la carne: quella bovina – seguita da fragole e frutta secca – poi ovina, suina e pollame.
  • Una cosa è però certa: la carne ha anche e soprattutto un impatto sulla salute. Citiamo pure che l’OMS ha dichiarato la carne rossa dannosa a lungo andare per l’organismo (malattie cardiovascolari, diabete), consigliandone un consumo moderato, e ha inserito le carni lavorate (insaccati, salsicce, wurstel, hamburger ecc.) nel gruppo 1 dei prodotti sicuramente cancerogeni (secondo l’IARC esiste una netta correlazione tra questi alimenti e il rischio di sviluppare il cancro) anche a causa della presenza di nitriti e nitrati utilizzati per processarle, conservarle e proteggerle dai patogeni esterni. Inoltre, con l’avvento dell’età globalizzata, siamo diventati i più grandi consumatori di tutti i tempi, anche e soprattutto di carne, mangiando 3 volte il corrispettivo delle generazioni precedenti (a dispetto della dieta mediterranea).

Che gli allevamenti influiscano sull’impatto ambientale, come ogni attività umana, non c’è dubbio. Se cerchiamo il pelo nell’uovo, tentando di definire che cos’è l’allevamento “intensivo”, entriamo in un dibattito controverso. In effetti, quando si parla di allevamento intensivo ci viene restituita un’immagine di animali ammucchiati in grandi capannoni, costretti nei loro box ad alimentarsi e riprodursi rimanendo pressoché immobili. E in questo, in buona parte, è vero: soprattutto se pensiamo alle mucche da latte, alle scrofe, ai polli e alle galline ovaiole (a riguardo dei pulcini maschi delle ovaiole – non geneticamente selezionati per la carne – si apre un capitolo a parte, dato che vengono soppressi a migliaia dopo la nascita perché non sono vantaggiosi economicamente. Anche sull’allevamento di vitelli e agnelli ci sarebbe da fare una questione a sé). Ma ci sono dettagli che per buona informazione vanno citati: come l’esistenza di norme che regolamentano l’ampiezza di tali spazi e la distribuzione dei capi di bestiame. Se i detrattori dell’allevamento intensivo lo considerano un’attività di tipo “industriale” che non rispetta il benessere animale ed è fonte di pericolo per igiene e salute, i sostenitori ritengono che tali allevamenti garantiscano invece protezione, un’adeguata disponibilità di alimenti e acqua che riduca gli sprechi, nonché maggiore controllo e possibilità di curare gli animali da malattie infettive. Esistono dei protocolli molto severi – in Italia ancora di più – che prevedono controlli serrati, dalla nascita dell’animale fino al termine del suo ciclo vitale, dall’alimentazione all’allattamento e svezzamento dei cuccioli, ecc. L’allevamento estensivo – il quale ci riporta ad un’immagine bucolica del rapporto uomo-natura – influisce sì sul benessere dell’animale, garantendogli una vita quanto più simile allo stato brado, ma – secondo i tecnici – ciò non significa necessariamente che l’animale libero sia sempre e comunque più sano. A livello sanitario, inoltre, la normativa attualmente sarebbe quella di somministrare antibiotici il meno possibile, a causa della resistenza batterica sempre maggiore (con cui dovremo fare i conti in un futuro non lontano). Insomma, la zootecnia vorrebbe rassicurarci presentandoci il modello intensivo “più vicino” all’esigenze dell’animale – almeno idealmente – che non il crudele “tritacarne” a cui siamo abituati a pensare. Le condizioni di igiene e benessere approssimative, che quarant’anni fa potevano essere considerate normali, oggi non sono più tollerate: in passato gli animali non avevano diritti, erano maltrattati e subivano una fine più brutale. Parlando con un zootecnico, chiaramente mi dice che: non è nell’interesse di nessuno lasciare che l’animale patisca sofferenze o stress eccessivo, dato che ne influirebbe sul suo rendimento in termini di sviluppo e sul prodotto finale.

 

Un altro capitolo, tutto da vagliare, si aprirebbe gigantesco se decidessimo di passare dalla produzione alla vendita della carne da allevamento intensivo (forse il vero scandalo): per esempio, come può una vaschetta di 500 g di carne suina del supermercato costare 2,99 € se per produrla un maiale è stato alimentato per 9-12 mesi con quintali di mangime, per essere poi trasportato, macellato e la carne lavorata, refrigerata, ri-trasportata, ri-lavorata e impacchettata fino ad arrivare al banco frigo per essere infine venduta? Quante risorse sono state impiegate all’intero processo produttivo? L’abbattimento dei costi avviene in virtù di una commercializzazione a catena che vuole vendere il più velocemente possibile, azzerando i costi di produzione ma inficiando se non altro la qualità della carne medesima.

Che tipo di consumatori sei?

Secondo il mio parere, a questo punto, di fronte a dati così complessi, alla realtà e alle sue eccezioni, bisogna districare bene i fili dalla matassa, relegando ogni questione al rispettivo macro-tema.

Qualche giorno dopo la visione dell’inchiesta di Giulia, ho parlato della cosa a una collega di lavoro per instaurare un dibattito, la quale mi ha risposto: “eh, ma se vedi certe cose smetti di mangiare”. A quel punto mi sono posto in una condizione di dubbio ancora più marcato: quindi, devo aprirli, gli occhi, o chiuderli? Ovvero: cosa dobbiamo lasciare e cosa accettare?

Dal punto di vista ecologico, certamente come cittadini dovremmo forse rivendicare maggiori controlli, più tutele verso la natura, l’esigenza di un’economia più sostenibile. Di recente, l’UE ha dovuto fare un passo indietro sulle riforme pro-ambientali della PAC, come l’aumento di aree verdi, per gli scontri avvenuti con gli agricoltori europei. Malgrado questi ultimi siano restii ai cambiamenti in senso ecologico, tuttavia dobbiamo comprendere a fondo quali motivazioni li hanno portati a scendere in piazza lo scorso febbraio (come la politica economica sui sostegni UE – la PAC – distribuiti in maniera diseguale o la crescita dei prezzi che li rende meno competitivi rispetto alle aziende straniere).

Dal punto di vista bioetico, invece, occorre fare un passo indietro. Tutto dipende da come ci poniamo come persone, prima che da consumatori, compiendo un’astrazione che almeno una volta abbiamo fatto tutti: riflettere su qual è il mio rapporto con gli animali. Se, cogitando, scoprite di provare simpatia o empatia per loro, se li vedete per ciò che sono e non come prodotto di consumo, se ne riconoscete la straordinaria complessità e intelligenza, se li considerate senzienti (alla faccia di chi dice il contrario) e dotati di particolari sentimenti, allora probabilmente siete arrivati a leggere fino a questo punto per un motivo. Magari siete quelli a cui interessa ancora cercare una soluzione che elevi gli animali – o specifiche categorie – ad un riconoscimento sociale adeguato o alla loro pura salvaguardia. Eppure, mi spiace dirlo, non potete semplicemente additare i produttori di carne come malvagi se la vostra visione – esattamente come la mia – confligge con quella della maggioranza. Sarebbe riduttivo e poco efficace al rinnovamento. Anche se l’allevamento intensivo è un metodo piuttosto recente (ha poco più di un secolo), di carattere industriale (e perciò assai discutibile), gli esseri umani hanno da sempre allevato i loro animali, rivendicandone la proprietà, e gli stessi animali si sono adattati a conviverci, perdendo le loro caratteristiche più ferine e primitive, di fatto “civilizzandosi” assieme a loro. Per quanto controverso sia, i nostri animali – allevati o domestici – sono frutto di selezioni umane e ibridazioni continuative nel tempo, da secoli a questa parte, create in funzione dell’uomo e per l’uomo, già da quando i Sapiens cominciarono a divenire sedentari, formando le prime tribù e appropriandosi delle risorse limitrofe, sia in senso privato che comunitario.

Se può esservi di aiuto, riporto qui due testimonianze preziose, l’una completamente all’opposto dell’altra, ma entrambe a mio parere validissime: la prima riguarda il discorso pubblico pronunciato nel 2011 da Margherita Hack – astrofisica e divulgatrice scientifica – sugli allevamenti intensivi, mentre la seconda si riferisce a un’intervista piuttosto recente (2020) di Philippe Daverio – storico dell’arte – che rispondeva proprio a Giulia Innocenzi riguardo al consumo di carni d’allevamento. Faccio notare che seppur ciascuno sia esperto nel suo ambito, queste persone rappresentano l’importanza di formarci un’opinione sui temi del genere umano, da cui nessuno può prescindere e in cui tutti siamo coinvolti, scienziati o artisti che scegliamo di essere.

Margherita Hack – attivista – si presente come “prova vivente” del fatto che è possibile vivere senza proteine animali, dato che – dice – ha 80 anni ed è vegetariana da tutta la vita. Non ha mezze misure quando sostiene che gli allevamenti intensivi equivalgono a dei «lager», come luoghi di atroci sofferenze animali, in cui bisognerebbe «portare i bambini delle scuole elementari» per fare loro capire la vera sofferenza e «prendere in orrore la carne che sono abituati a vedere sotto forma di involtini nel cellofan», condannando l’ipocrisia umana di nascondere il reale prezzo che pagherebbero gli animali, solo perché fa comodo alla pancia di chi mangia ma con gli occhi chiusi per non sapere e con la bocca piena per tacere. Questo passo è interessante proprio sul piano pedagogico, dato che si comincia ad diventare consapevoli fin da bambini. In effetti il fisico ha ragione: siamo abitati a proteggere i nostri figli dai traumi e raccontiamo loro le storie solo a metà, perché possano essere a lieto fine senza dar loro occasione di ripensarci.

Philippe Daverio, invece, rispondendo agli attacchi della giornalista in collegamento, sostiene che la chiave per andare avanti sia proprio quella di «accettare la propria ipocrisia», di essere consapevoli che il presente ha ereditato dal passato un’intera cultura alimentare e gastronomica, che fa parte del nostro modo di essere: «se il foie gras c’è in Ungheria è perché ce lo avevano portato i Romani, è un pezzo della nostra storia che mangiamo, va oltre il semplice gusto», sostiene lo storico. Di fronte alla sofferenza animale, quindi, dovremmo andare avanti e l’unico modo per farlo è quello di essere «elegantemente ipocriti», il che ha permesso in un dato momento storico di progredire e camminare con le scarpe di cuoio anziché con i piedi scalzi.

Termino, in ultima analisi, con l’esortazione che: qualora si scelga di essere ipocriti o di non esserlo, comunque la decisione spetta sempre a noi, i consumatori. Se si vuole che le cose cambino, allora non si può tanto aspettare che ciò avvenga dall’alto: per una vera “rivoluzione alimentare” bisogna che partiamo da noi stessi (magari cominciando col mangiare poca carne).

Fonti:

WEB:     Ispionline.it – Bioecogeo.com – Agi.it - agriculture.ec.europa.eu – accademiamacelleriaitaliana.it – wikipedia (voce:allevamento intensivo) – fondazioneumbertoveronesi.it

SOCIAL: @Torcha - @Will - @foodforprofit - @econarratrice

YOUTUBE: Margherita Hack sulla coscienza animale (2011) – Daverio su La7 Attualità (2020(

LORENZO SABBATANI

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