A più di un anno di distanza dal disastro delle frane e dalle piene che hanno trasfigurato il nostro territorio tanto da renderlo irriconoscibile voglio dedicare un breve compianto a chi, a torto o a ragione, ha avuto finora poca considerazione.

Voglio parlare degli animali. Non quelli domestici che al massimo hanno patito il trauma dell’abbandono perché la casa dei loro padroni era isolata o inagibile e neanche degli animali degli allevamenti che avevano un importante significato economico e che sono morti di stenti senza che si riuscisse a metterli in sicurezza.

Voglio parlare dei selvatici, dei muti abitanti dei nostri boschi, delle rive e delle anse.

E non tanto della strage di pesci spazzati via da una piena tumultuosa, densa e torbida mai vista a memoria d’uomo che non ha lasciato scampo a nessuno lungo il corso del fiume, non solo dei tassi e degli istrici tappati dalle frane nelle loro tane impervie. Voglio ricordare la colonia delle nutrie e dei loro commensali alati che viveva stabilmente e pacificamente sopra la chiusa di Arsella.

Una colonia di reietti. Sulle nutrie cade la pesante condanna di essere la causa di rovinose esondazioni dei corsi d’acqua della pianura. Con le loro tane, che scavano fin nel profondo degli argini, si dice che creino le condizioni perché la pressione dell’acqua erompa all’esterno e allaghi le fertili terre contigue.

Poi sono brutte. Ricordano troppo da vicino le topazze con quella lunga coda quasi priva di pelo. Danno anche l’idea di essere creature che amano poco l’igiene e che si accontentino di brucare tutto quello che gli capita a tiro. In ecologia quando si vuole citare un esempio di specie aliena nociva viene fuori per prima sempre lei: importata dall’America Latina nella prima metà del Novecento allo scopo di ricavarne economiche pellicce che allora andavano per la maggiore, scappata o liberata dagli allevamenti una volta passata la moda, si è adattata benissimo nei nostri ambienti per l’assenza di predatori specifici.

Così pensavo male di loro anch’io finché non ho cominciato a frequentare la colonia della chiusa di Arsella.

Passavo da lì quando accompagnavo mia mamma a fare un giro in macchina.

Ci fermavamo soprattutto, oltre che per le nutrie, per l’attrazione principale che era l’oca solitaria, bianca e perlopiù stizzita con gli oggetti in movimento. Ce l’aveva specialmente con gli pneumatici che cercava di mordere slanciando il suo lungo e grosso collo. Se facevi quella di scendere dall’auto veniva a miti consigli e si avvicinava col suo passo lento, goffo, caracollante per scroccare qualcosa da mangiare. Era la superstite di un gruppetto di tre, l’unica riuscita a salvarsi dai predatori a due o a quattro gambe.

Le facevano compagnia un’anatra muta ( sizò in dialetto) e una branchetto di germani che stazionava un po’ più guardingo lungo la corrente.

Alcuni personaggi, casolani di origine o di adozione, portavano quasi quotidianamente verdure, pane secco e altri generi alimentari a tutte queste creature. Era partito tutto dall’insediamento di una nutria femmina, guercia da un occhio, soprannominata Cecchina. Dopo tre anni, sfruttando la loro naturale alta prolificità, le condizioni naturali di un clima che non ha più inverni rigidi e la generosa dieta offerta dai loro amici umani, la colonia aveva raggiunto i 28 esemplari quindi alla terza o quarta generazione.

Proprio nella primavera scorsa erano appena nati una dozzina di cuccioli.

Che mi stupiva era la domesticazione raggiunta da queste nutrie. Soprattutto quelle più giovani avevano una confidenza con chiunque portasse loro qualcosa da mangiare. Dapprima ti studiavano guardinghe per capire la tua intenzione; poi, se intuivano l’idea che portavi il rancio, si avvicinavano un poco alla volta. Se poi capivano che le dosi erano abbondanti vedevi tutto il gruppo traversare la corrente partendo dalla riva opposta dove, sotto i massi, avevano costruito il loro sistema di tane.

La confidenza era massima con i loro assidui amici umani. Quando questi arrivavano e si sedevano sulle sedie le vedevi avvicinarsi e alzarsi sulle zampe posteriori per prendere con garbo il cibo dalle loro mani. E poi quanta cura nella pulizia personale e nel ravviarsi il folto mantello nell’acqua trasparente del Senio.

Insomma a frequentare la colonia un po’ alla volta mi sono dovuto ricredere a proposito dei luoghi comuni sulle nutrie. Almeno per quelle di Arsella dove il rapporto quotidiano con l’uomo aveva portato tutti i componenti della numerosa colonia ad assumere comportamenti domestici tanto che, specie nei giorni festivi, erano parecchie le famiglie che anche da fuori venivano per assistere allo spettacolo.

Un laboratorio di etologia all’aperto.

Ora tutta quella numerosa ed eterogenea famiglia è stata spazzata via dalla piena nella notte fra il 16 e il 17 maggio dello scorso anno. Nel paesaggio sconvolto dall’alluvione e dal disboscamento operato dai servizi di bacino, resta solo l’oca. Si è spostata un poco più a valle, temeraria nel presidiare il suo territorio. Triste e solitaria attende paziente che qualcuno arrivi a farle compagnia.

Roberto Rinaldi Ceroni

Condividi questo articolo
FaceBook  Twitter