Non tutti sanno che nel nostro paese è presente una casa famiglia. Io stessa sono venuta a conoscenza della sua esistenza solo poco tempo fa, e parlandone con amici e parenti mi sono resa conto del fatto che molti ignorassero la presenza di questa realtà a Casola Valsenio. La casa famiglia, per definizione, è una struttura destinata all'accoglienza di minorenni, disabili, anziani, adulti in difficoltà e/o a persone con problematiche psicosociali, e si configura come una comunità di tipo familiare con sede in un’abitazione civile. Mi sono quindi ripromessa di approfondire la conoscenza di questa struttura, e di farla conoscere il più possibile anche a tutti i miei concittadini. Ho incontrato Marcella Marzioni, colei che ha dato vita alla Comunità familiare “I colori”, per capire quando è nata e quale tipo di attività si svolge al suo interno.
Ci siamo incontrate in un pomeriggio di inizio aprile, e non appena sono entrata in casa sua sono stata accolta dai sorrisi di cinque meravigliosi ragazzi: uno stava lavando i piatti, mentre un altro stava sparecchiando la tavola. Gli altri, dopo avermi salutata ed essersi presentati, sono usciti in cortile a giocare con il cane e a terminare il lavoro di raccolta dell’erba appena tagliata nel prato, armati di forcale.
Io e Marcella abbiamo parlato a lungo, e grazie ai suoi racconti sono riuscita ad entrare un po’ all’interno del loro mondo.
La Comunità familiare, situata alla Calgheria, è nata poco prima del Covid: è in quel periodo che Marcella, originaria del Friuli Venezia Giulia, si è trasferita a Casola e ha cominciato i lavori di ristrutturazione della sua nuova casa, per renderla strutturalmente adeguata ad accogliere i ragazzi. Marcella è un’educatrice professionale laureata, che ha alle spalle un passato di coordinatrice in una struttura per minori non accompagnati. È stato proprio questo suo passato lavorativo a spingerla a «cercare di fare di più e a fare meglio»: in una struttura così grande, che accoglieva oltre 80 ragazzi, sentiva molto la carenza di un rapporto individuale con loro, così come nella progettazione di un percorso di vita ad hoc per ciascuno di essi. Ha quindi scelto di mettere a frutto l’esperienza maturata negli anni a contatto con questi ragazzi, e di realizzare una struttura tutta sua, ma più piccola, nella quale il progetto di vita perseguito fosse assolutamente individualizzato e personalizzato sulle esigenze del singolo minore.
La sua comunità familiare può ospitare fino a un massimo di 5 bambini/ragazzi, di età compresa tra i 3 e i 18 anni. Attualmente vivono con lei 5 ragazzi adolescenti, due di origini italiane e tre stranieri.
Marcella sogna in futuro di potersi allargare, arrivando ad accogliere fino a 7/8 ragazzi, ma non di più: «mi piacerebbe poter aiutare più ragazzi, ma senza rinunciare a quell’atmosfera di “famiglia” e di “casa” che si è creata» e che sicuramente è resa possibile dal dover gestire piccoli numeri. Le piacerebbe anche valorizzare ulteriormente gli ampi spazi esterni, piantando alberi da frutto e creando uno spazio per galline e capre. «A contatto con il verde questi ragazzi possono tirare un sospiro di sollievo, vivere un senso di libertà e pace mai sperimentato prima. Mi piacerebbe inoltre ristrutturare il capannone di fianco alla casa, e creare degli appartamenti nei quali i ragazzi possano sperimentare una vita autonoma una volta diventati maggiorenni… una sorta di “dopo di noi”».
I ragazzi che vengono affidati a lei sono generalmente minori stranieri non accompagnati, che hanno lasciato il proprio paese e la propria famiglia in cerca di condizioni di vita migliori, nella speranza un giorno di poter portare in Italia anche la propria famiglia o comunque di garantire loro una stabilità economica, oppure ragazzi italiani allontanati dalle proprie famiglie, considerate non idonee ad occuparsi dei propri figli. «Tutti loro hanno ancora rapporti con la famiglia di origine: nel caso dei ragazzi stranieri, è un rapporto costante, si sentono praticamente ogni giorno. Nel caso dei ragazzi italiani è un po’ più complicato: essendo stati allontanati dal nucleo familiare a causa di una situazione problematica, generalmente gli incontri avvengono sotto la supervisione di un assistente sociale».
Questi ragazzi le vengono affidati da un Comune o da una ASP, dopodiché lei se ne prende cura a 360°: gestisce gli aspetti scolastici, sanitari, relazionali e affettivi, così come eventuali rapporti con il servizio psicologico e di neuropsichiatria. Li aiuta con i compiti, li accompagna nei vari spostamenti e insegna loro l’italiano: alcuni arrivano senza sapere la lingua, e necessitano quindi di una prima alfabetizzazione. All’inizio ci si può aiutare con l’inglese o con il francese… «oppure con Google traduttore!»
Anche la collaborazione con la scuola in questa fase è di fondamentale importanza: «innanzitutto bisogna trovare un istituto che accolga il ragazzo ad anno scolastico iniziato… dopodiché, l’anno successivo, il ragazzo potrà cambiare scuola e scegliere quella che più gli piace, in base ai suoi interessi». Marcella afferma di aver sempre trovato grande disponibilità e collaborazione da parte degli istituti scolastici e dei docenti, i quali hanno anche predisposto, laddove necessario, un Piano Didattico Personalizzato che consentisse ai ragazzi di concentrarsi in un primo momento principalmente sulle attività pratiche, mettendo da parte le materie di studio, in modo da consentirgli di imparare la lingua.
Marcella, insomma, si occupa di questi ragazzi e di ogni ambito della loro vita 7 giorni su 7, 24 ore su 24. La cosa importante, dice, è «seguirli sia in maniera singola, che nel microgruppo, che nel macrogruppo»: dare quindi spazio alle esigenze del singolo, ma anche alle relazioni che si instaurano tra i vari ragazzi. Quando un nuovo membro entra a far parte della comunità familiare, si va inevitabilmente incontro ad una ridefinizione dei ruoli e delle relazioni, e non sempre è facile andare d’accordo. «Generalmente un nuovo ingresso è preceduto da un breve preavviso, specialmente se i ragazzi arrivano da situazioni di emergenza. Ma gli altri sono preparati al suo arrivo, prima di quel momento lavoro con loro sulle relazioni. C’è da dire che comunque sono sempre tutti molto solidali con la sofferenza che quel ragazzo si porta dietro: loro stessi l’hanno provata, quindi sono accoglienti e rispettosi, gli lasciano spazio».
La giornata tipo alla casa famiglia non si discosta dalla quotidianità di ogni altra famiglia: «sveglia alle 6, colazione, poi tutti a scuola! Due frequentano la scuola per parrucchieri a Imola, uno l’Oriani a Faenza e altri due la scuola alberghiera a Riolo Terme. Il pomeriggio, una volta tornati a casa, fanno i compiti e si dedicano a varie attività, sia qui a casa (come ad esempio giocare in giardino e dare una mano con le faccende domestiche) che fuori (lo sport)».
A Marcella brillano gli occhi quando parla dei suoi ragazzi: «mi danno costantemente delle soddisfazioni. Arrivano qui che sono dei ragazzi fragili, rotti… ed è stupendo vederli mettere radici e sbocciare. Mi dimostrano sempre tantissima riconoscenza. Condividono con me il loro mondo, e sono tanto affettuosi e collaborativi. La cosa bella di gestire una struttura come questa è quella di avere la possibilità di creare adulti più stabili, più felici e più sereni. Io ci sono per loro, e questo dà loro stabilità. Nel tuo piccolo, cambi il mondo… dai vita a esiti diversi rispetto alla partenza. Sono le mie creature. E poi è tutto bello, ogni aspetto della nostra quotidianità… dai giochi fatti assieme, al condividere i pasti».
Certo, non manca qualche piccola difficoltà: «a volte è complicato essere l’unico adulto. Ma nel rapporto con i ragazzi bisogna essere sempre coerenti e onesti, non nascondere i momenti difficili che possono esserci». Marcella può però contare sul supporto e sull’aiuto di suo figlio James, che vive con loro e con il quale i ragazzi hanno instaurato uno splendido rapporto.
Lo scorso maggio anche Marcella e i suoi ragazzi hanno sperimentato l’esperienza dello sfollamento durante l’alluvione. Abitando vicini al fiume, sono stati fatti evacuare subito, in via precauzionale. «La prima cosa che abbiamo fatto quando ci hanno detto di andare via, è stata quella di spostare dal piano di sotto al piano di sopra tutte le cose importanti: dalla lavatrice, agli oggetti personali. Dopodiché abbiamo fatto le valigie, prendendo il necessario per passare qualche notte fuori casa. In quel momento non mi sono mai sentita sola, ho sempre ricevuto il supporto dei servizi, i quali si sono sempre preoccupati per noi, dimostrandoci vicinanza. Devo dire che, nonostante la paura e il senso di incertezza che tutti abbiamo provato in quel momento, quella è stata la prima volta in cui ho sentito che siamo davvero una squadra unita. I ragazzi hanno dimostrato un grande senso di responsabilità. Tutti noi abbiamo avuto qualche momento di crisi, ma proprio in quei momenti tutti gli altri si stringevano attorno al singolo in difficoltà, standogli vicini».
A luglio, a seguito del temporale che in pochi minuti ha sradicato alberi e allagato cantine, anche la loro casa si è riempita di acqua e fango: «anche in quel momento i ragazzi sono stati molto collaborativi, aiutandomi a ripulire tutto».
Verso la fine della nostra chiacchierata mi sorge spontanea una curiosità: come mai la scelta di costruire tutto questo a Casola? «È stato il destino. Un incastro di situazioni mi ha portata ad essere qua… e ora lo so, io dovevo venire qua. È magico pensare al calore e alla gentilezza delle persone… ho riscontrato un’accoglienza diffusa. Devo innanzitutto ringraziare il Sindaco Giorgio Sagrini per il supporto che mi ha dato fin dal primo momento. Credo che Casola sia un ambiente favorevole per i ragazzi: quando sei circondato da persone che ti vogliono bene ti senti davvero accolto, ti senti a casa. Questo è di grande aiuto nel loro percorso. Solo per fare un esempio: un giorno uno dei miei ragazzi passeggiava per il parco, e un gruppetto che era seduto su una panchina lo ha chiamato dicendo: “Ciao, siediti qua con noi!”. Ora sono diventati amici, e per il suo compleanno sono venuti a cena da noi».
Mi riempie di gioia sapere che la nostra comunità ha accolto in modo così caloroso Marcella e i suoi ragazzi, e per questo le chiedo cos’altro il nostro paese possa fare per loro: come poterli aiutare concretamente? «Facendogli fare qualche attività o laboratorio! Se qualcuno è capace di lavorare il legno, di cucinare, o sa fare altre attività manuali, può trasmettere le proprie conoscenze ai ragazzi. A loro piace imparare e mettersi alla prova! Poco tempo fa è venuta una signora ad insegnare loro come preparare tortelli e cappelletti!»
Proprio in quel momento i ragazzi stanno apparecchiando per la merenda, e dopo poco portano in tavola una torta fragrante e una caraffa di spremuta d’arancia. Ci sediamo tutti attorno allo stesso tavolo, e timidamente cominciano a raccontarmi dei compiti che dovranno fare quel pomeriggio, dell’organizzazione di una gita scolastica, dell’esito di un colloquio di lavoro fatto poche ore prima e di cosa hanno cucinato quel giorno a scuola, all’alberghiera. Marcella, come ogni mamma orgogliosa, afferma guardandoli: «sono proprio bravi…»
Ma io questo l’ho già visto con i miei occhi.
Benedetta Landi