Quale futuro per il nostro cinema?
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- Scritto da Enrica Dalla Vecchia
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Il cinema Senio di Casola, gestito fino all’anno scorso da un’Associazione presieduta da Luigi Barzaglia, si trova ora in una situazione di “vuoto”, in quanto la convenzione con il Comune del paese è scaduta e si sta cercando di capire se potrà continuare ad essere attivo.
“Abbiamo registrato una nuova Associazione che prende il nome di “Nuovo Cinema Senio” – spiega Alberto Fiorentini, Presidente dell’organizzazione – per fare in modo che il cinema di Casola continui con le sue attività e non sia costretto a chiudere. L’Associazione è composta da diversi ragazzi del paese, ma, a causa del Coronavirus, il cinema si trova in una fase di stallo.”
“Il nostro augurio per l’anno prossimo, pensando che il Covid non ci sia più e che la situazione sia risolta, - continua Alberto – è che il cinema sia attivo a partire dalla fine del 2021.”
Gestire una sala cinematografica in una realtà piccola come quella di Casola non è affatto semplice, tuttavia provare ad attuare strategie che soddisfino gli interessi dei cittadini è importante e necessario per cercare di mantenerla in vita.
“I film che vanno per la maggiore sono quelli per famiglie e per bambini/ragazzi, come ad esempio i film di supereroi . Questo tipo di programmazione di solito ha un riscontro molto positivo. – afferma Alberto - Quello che però serve è una maggiore partecipazione: inizialmente l’Associazione era composta da una quindicina di persone, ma adesso siamo rimasti in tre. L’intento, quindi, è quello di coniugare la programmazione cinematografica all’utilizzo del cinema per fini artistici. Come associazione c’è la volontà per fare in modo che il cinema continui a dare un servizio di intrattenimento per famiglie e giovani.”
Ciò che l’Associazione “Nuovo Cinema Senio” vorrebbe fare è istituire un calendario che coinvolga e soddisfi anche le altre associazioni presenti a Casola, per far sì che la sala cinematografica non venga utilizzata solo per proiettare film, ma che possa essere utile anche per le iniziative delle altre associazioni casolane.
Enrica Dalla Vecchia
Caos MARADONA
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- Scritto da Fabio Donatini
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Io Maradona non lo ricordo bene. No, non bene. Adesso è facile. Prima ricordare bene non era così ovvio.
Ma ricordo che sembrava bizzarro, l'estate dei Mondiali in Italia, che l'Argentina avesse perso con il Camerun la prima partita della manifestazione.
Molto entusiasmo, nelle campagne di collina come nella piazza del paese, per la sconfitta del talento contro l'impegno. Del prevedibile, contro l'imprevedibile. Ricordo. Molto bene.
Dunque, nella mente di bambini e degli esseri maturi, un tributo inconscio alla sostanza e al caos. Sostanza e caos. Strano, conflittuale forse; ma tutto sommato credibile.
"Hai visto, Maradona ha perso?"
"Hai saputo dell'Argentina?"
"E alla fine non è riuscito a segnare…"
Io pure, che guardavo mio padre caricare pesche susine, che era l'ultimo giorno di scuola credo, che mi confondevo per l'estate in arrivo, io, pure, ne rimasi lieto. Lieto, spensierato e lieto.
Ero lieto perchè uno che non poteva perdere, aveva d'improvviso perso. E perchè i deboli, succede quindi, possono battere i forti.
Bhe, se questa necessità di gioire dell' imprevisto, di sorridere all'incapace che batte il capace, ha un senso, lo ha perchè probabilmente, Maradona, era archetipo di qualcosa di indecifrabile, ma che aveva a che fare con il "non sono belle le cose troppo scontate". Oppure: "A noi uomini piace ciò che non ci aspettiamo". E ancora: "A noi, esseri umani, piace quando un poco mette in difficoltà un tanto". Dunque, se il fato ha creato una sorte dove il poco e il tanto sono in eterno conflitto, questa sorte sarà ammirata, o, almeno, sarà studiata.
Poi sarà amata. Odiata. Amata. Odiata. E amata ancora. In tempi e in spazi diversi, con caos e passione. Sarà il nostro eroe, nemico, condottiero, avversario.
E infatti in quell'estate Maradona non era il buono. Quel pomeriggio del '90 contro il Camerun, Maradona era il cattivo. Era il cattivo, in quella partita con l'Inghilterra, per quegli inglesi che ancora oggi, nei pub, fanno cambiare canale. Era il cattivo, quando pranzava con l'allibratore di Bagnoli, per chi combatteva gli stilemi mafiosi. Era il cattivo.
Ma poi, poi non vuol dire. Poi le cose sono, e basta, e se regali matematicamente più sorrisi che lacrime, l'umano e l'animale, il vegetale non so, tende ad affezionarsi. E cattivo e buono diventano due termini di poco valore, utili solo se guardi Il Trono di Spade o se credi ancora alle finzioni della politica.
Sostanza o talento quindi? Caos o prevedibilità? No, in questo caso, il caso "Maradona", tutto. Tutto insieme. Come, ora che ci penso attento, in quasi tutti quelli che conosco e ho conosciuto.
A San Donato c'è solo il caldo
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- Scritto da Michele Righini
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Fabio Donatini firma una nuova regia, un documentario dal titolo San Donato Beach. Prodotto da Zarathustra Film, è stato presentato all'ultimo Torino Film Festival, riscuotendo un successo andato ben oltre le aspettative. Se volete vedere il trailer lo trovate qua: https://www.youtube.com/watch?v=p2m-y0h8PIE. Di seguito alcune considerazioni, anche personali, se invece volete capire di cosa parla trovate un sacco di recensioni in rete.
Sono certo che tutto sia iniziato nell’estate del 2003, estate dolce per alcuni versi (che non sto qui a dirvi) e famigerata per altri che invece vi dirò. Quell'anno iniziò quel caldo folle che prima non esisteva e che invece adesso è normale nei mesi estivi. Iniziò il due maggio 2003 (quindi tecnicamente non era nemmeno estate...) e non mollò il colpo fino a fine settembre. Sono certo che tutto sia iniziato allora perché io c’ero, io abitavo in San Donato quell’estate, avevo una nuova morosa (alla fine vi dirò anche perché fu un’estate dolce se vado avanti così...) e tre coinquilini: Albo, che dormiva con la testa nel terrazzino di 80 cm quadrati per combattere il caldo, Lori, con il quale ci disputavamo l’uso dell’unico sgangherato ventilatore di casa, e Fabio che adesso su quel caldo ci ha fatto un film.
Secondo me anche l’idea di questo film ha iniziato a frullargli in testa in quella torrida estate di 17 anni fa, una delle prime trascorse a San Donato. Si deve essere reso conto già allora che non rimane molta gente in agosto in quel giro di strade che sta subito al di là del ponte: via Amaseo, via Galeotti, piazza Mickiewicz... Un discount, un bar a fare da punto di riferimento e, come dice Patrizia all’inizio del film, un gran caldo.
Quando in un posto è molto caldo, o molto freddo, la gente tende ad andarsene. Pensate al deserto che di giorno è caldo caldo e di notte freddo freddo, non ci sono molte cose nel deserto. Quindi le poche cose che ci sono si notano, emergono, colpiscono l’occhio di chi lo osserva (e magari ci si ritrova dentro per caso, errore, necessita, o perché si è perso). Se va bene quello che si nota in lontananza è un’oasi. Nella maggior parte dei casi invece è un cactus. Che ha comunque una sua utilità, ci insegnano i western. Credo che sia successa la stessa cosa con questo film: Fabio, bloccato nel caldo agostano di San Donato, ha notato i cactus, le poche persone rimaste in quello stretto giro di vie. Persone, non personaggi, che normalmente si mimetizzano fra la folla ma che in quel deserto spiccavano come cactus. Con le loro spine e con una scorta d’acqua chiusa dentro di sé, invisibile per tutti quelli che non hanno la voglia, il tempo, la curiosità di farci due chiacchiere. Fabio, lo credo io poi dirà lui se è vero, ha semplicemente inciso quei cactus (poi la smetto con questa similitudine, promesso) per fare sgorgare le loro storie. Non li ha intervistati, è rimasto lì ad ascoltarli mentre parlavano e raccontavano. Il fatto che avesse con sé una telecamera e qualcuno che gli desse una mano a girare (“una troupe ridotta al minimo e attrezzatura leggera”, dicono le note inviatemi dall’ufficio stampa) era un dettaglio di fronte all'urgenza di potere raccontare, per la prima volta, le proprie sfortune, i propri rimpianti, le rare gioie e le scarse ma tenaci speranze.
CARRI APS
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- Scritto da Riccardo Albonetti
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Nel momento in cui scriviamo, ci troviamo in una situazione di forte incertezza e abbiamo oramai capito come è difficile organizzare eventi a lunga scadenza. Sappiamo però che la Festa di Primavera edizione 2020 è saltata, cosa che non accadeva dal secondo conflitto mondiale. Prima che la pandemia fermasse tutto però nell’ ambiente c’era un certo fermento, trapelavano notizie, si intuiva una gran voglia di fare per portare in piazza i carri allegorici. Tra i tanti rumors, le indiscrezioni che di norma filtrano dalla stanza in cui si riuniscono i rappresentanti delle società che li costruiscono (Extra, Sisma e Nuova Società Peschiera 1984) e i discorsi delle persone, ne circolava una particolarmente interessante: il fatto che sarebbe nata un’associazione ad hoc esclusivamente per occuparsi della Festa di Primavera in tutti i suoi aspetti.
Ne abbiamo parlato con il Presidente della Pro-Loco Bruno Boni nonché, da quanto abbiamo potuto capire, presidente della neonata associazione che si occuperà nei prossimi anni della Festa di Primavera.
Anzitutto una domanda semplice semplice. Il nome dell’associazione?
CARRI APS (Associazione di Promozione Sociale)
Da quale esigenza nasce l’idea di scorporare la Festa di Primavera dalla gestione della Pro-Loco e di creare un’entità a sé stante?
L’associazione nasce per la necessità di tutelare i volontari che ogni anno partecipano alla costruzione dei carri; ovviamente con la creazione di questa non si vuole andare a togliere l’organizzazione alla proloco ma dargli un supporto.
Chi fa parte di questa associazione?
MASSIMO E’ IL NUOVO SINDACO DI FAENZA
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- Scritto da Tiziano Righini
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- “Pronto?…ohi Cava, cosa mi dici?”
- “Massimo è diventato sindaco di Faenza e stasera suoneremo in piazza a Faenza!” –
Quando Cristiano Cavina mi ha chiamato, nel pomeriggio del giorno successivo alle elezioni, sinceramente, dentro di me ho pensato: “Lo sapevo già dal 1990 che Massimo avrebbe, prima o poi, ricoperto un ruolo politico importante e credo che sia solo l’inizio di un lungo percorso!”
Fra noi giovani ragazzi degli anni ’90, a Casola, Massimo Isola è sempre stato un leader, un trascinatore, ed io ho sempre percepito il suo entusiasmo nell’inventare tutto ciò che, in quegli anni (profondamente diversi da oggi) mancava ai giovani in un piccolo paese dell’Appennino Romagnolo: praticamente quasi tutto.
In realtà, credo che la generazione del ’74, a Casola, sia stata speciale e non lo dico solo perché sono il primo nato in quell’anno funestato da crisi economica e terrorismo. Ne sono profondamente convinto perché ho avuto modo di stringere amicizie vere, con persone dotate di grandi virtù e capacità intellettive frutto anche delle importanti esperienze del passato, vissute dai nostri genitori.
Con Massimo ho condiviso gli anni in cui l’evoluzione fisica e mentale corre veloce. Un giorno ti svegli e ti senti profondamente legato ai tuoi giochi dell’infanzia, il giorno dopo sogni di guidare l’auto e scorrazzare senza patente sulle colline di notte, con i tuoi amici (fatto poi avveratosi in una calda notte d’agosto del ’91).
Ogni giorno sognavamo di fare qualcosa e diventare qualcuno. Prima il calcio, che ci ha legato indissolubilmente nei ricordi magici raccontati e magistralmente cristallizzati per sempre da Cristiano nel suo romanzo Un’ultima stagione da esordienti. Poi la musica, la cui scoperta fu un intenso percorso che partì dalle origini del rock fino ad arrivare al noise-punk e ai centri sociali, nel giro di 5 anni.
Nella nostra compagnia di amici (maschi-prevalente) nonostante fossimo tutti dotati di carattere e temperamento tutt’altro che scialbo, non vi erano grandi gerarchie.
Ho sempre pensato che ognuno di noi fosse in realtà un leader, a modo proprio. Questo si percepiva, silenziosamente, e veniva in un certo senso riconosciuto, senza doverne parlare. C’era chi dimostrava le proprie doti a scuola, chi nello sport, chi nella musica, chi nei rapporti umani e chi… con le ragazze! Il nostro denominatore comune era comunque il riconoscimento reciproco della personalità, del carattere talvolta sanguigno che contraddistingue tipicamente il romagnolo-montanaro.
La fame di sapere e sperimentare ha sempre caratterizzato Massimo, come confermato in età adulta nelle sue prime missioni politiche, in particolare come Assessore alla Cultura, proprio in quel di Faenza. Seppur seguendo dalla fredda vetrina dei social network il suo operato, in questi ultimi anni, ho sempre percepito nei suoi sguardi lo stesso entusiasmo che ci accompagnava nei lunghi pomeriggi estivi a comporre canzoni o ascoltare a luci spente i Pink Floyd, a tutto volume, così forte che coprivano le lamentele dei vicini. Un assolo di David Gilmour suonato in via Cenni (dove abitava Massimo, nella Casola alta) poteva essere percepito chiaramente fino in Piazza Sasdelli (dove abitavo io), tant’è che mia mamma una volta mi disse - “Ma non sarete mica voi che tenete la musica così alta, in paese?!”
Ogni giorno, per tutti noi, doveva diventare speciale per non cadere nella noia che a quell’età, quando hai poco, rischia di trascinarti in una dimensione apatica. Forse questo lo percepivamo involontariamente, istintivamente e quindi ci adoperavamo in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo per coltivare i nostri sogni, piccoli o grandi che fossero. Quello che ci mancava, lo creavamo noi.
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