Cultura

Fare una compilation ai tempi delle musicassette era un rito ed ognuno aveva il suo metodo, c’era chi registrava dalla radio, chi dal televisore, chi preferiva dividerle per generi e chi andava a sentimento, mettendo ai primi posti le canzoni da “smisurare”, in modo da riavvolgere il nastro velocemente ed avere subito pronto il riascolto.
In questa nostra cassettina, tendente al Rock abbiamo raccolto dei brani che negli ultimi mesi hanno catturato la nostra attenzione.

Questo il link per godervela su spotify: https://open.spotify.com/user/rivola/playlist/7KRWvnqnxcDDoqDJuTLXEX 

e questo su YouTube https://www.youtube.com/watch?v=xnUQLnQLQ_M&list=PLWZFMk7czFFXtUc0VEF8khcy0BpIRHdgW

Alessandro Gucciardo

 

Blank Under the Map

I saatelliti delle serie Sentinel sono in grado di fotografare e mostrarci ogni angolo del pianeta e i suoi cambiamenti ogni tre giorni. Vista sotto questa prospettiva, la Terra potrebbe sembrare un posto immerso in un eterno presente, privo di angoli bui. Un posto dove ormai parrebbe impossibile trovare luoghi blank on the map: spazi vuoti sulle carte, capaci di affascinare e raccontare nuove storie proprio perché ancora ignoti. Fortunatamente per la nostra fantasia e umanità, gli speleologi sanno che l’ignoto e l’esplorazione sono un qualcosa ancora oggi vivo e reale. Qualcosa di cui per ora non vediamo la fine. Le chiazze bianche si sono solo spostate divenendo blank under the map, al riparo dall’occhio indiscreto di Sentinel. Seguendo le strade segrete dell’aria e dell’acqua la geografia della Terra è ancora una via da esplorare e percorrere con il proprio corpo. Se poi l’acqua che si decide di seguire è tanta, si possono avere belle sorprese. Come speleologo sono cresciuto leggendo e sognando sui racconti delle esplorazioni di Minye, Nare e delle altre incredibili grotte della Nuova Guinea. Luoghi dove roccia, acqua e vuoto si sono alleati: decisi a rendere difficile la vita agli esploratori. La speleologia tropicale non è tutta uguale. Dopo oltre vent'anni passati ad organizzare spedizioni a cavallo dell'equatore, con gli amici del nostro gruppo ci siamo domandati se non fosse arrivato il momento di andare a caccia di qualcosa di diverso. Non solo chilometri di grandi gallerie fossili, ma anche qualcosa dove l'acqua fosse la vera padrona dei luoghi. La domanda che ci poniamo è semplice: dove si trova il fiume sotterraneo con la maggiore portata? E sopratutto è mai stato esplorato? Nel 2012 sotto il coordinamento del gruppo Acheloos Geo Exploring, nasce così il progetto Call for river, proprio con obbiettivo la documentazione e l’esplorazione dei fiumi sotterranei con il maggiore regime idrico esistenti sul pianeta.

 

Call for river...

Tra carte topografiche, immagini satellitari e calcolo dei bacini idrogeologici scopriamo così come inaspettatamente molti dei maggiori corsi d'acqua sotterranei del pianeta siano ancora inesplorati e in molti casi mai documentati. Il grosso si concentra nell'area del Sud Est Asiatico e dell'Oceania e indubbiamente sull'isola della Nuova Guinea sembrano esserci obbiettivi realmente grandiosi. Nel 2016, una survey nella Bird’s Head, penisola settentrionale di West Papua, parte indonesiana dell'isola, ci convince oltre ogni dubbio. Obbiettivo i grandi trafori idrogeologici e i sistemi carsici che il fiume Aouk-Kladuk ha creato lungo la sua vallata. Con una lunghezza di oltre 250 chilometri su un bacino di oltre 4000 km², si tratta di uno dei principali corsi d’acqua nella Bird’s head peninsula. Originato dal versante meridionale della catena dei monti Tamrau, scorre verso sud-ovest attraversando la grande area carsica del plateau di Ayamaru fino a sfociare nel mare di Seram. La posizione del suo bacino a ridosso della catena montuosa, fa si che intercetti un altissimo regime pluviometrico, che nella parte alta supera i sei metri annui di precipitazioni, portando il corso d’acqua ad avere alla foce una portata stimata nell’ordine di oltre 300 metri cubi al secondo. Proprio la verifica sul campo e l’inizio delle esplorazioni, ci ha confermato che l’Aouk-Kladuk, potrebbe essere quello che stavamo cercando. Lungo la sua vallata il fiume ha infatti creato una serie di grotte e trafori che in alcuni tratti arrivano ad avere una portata media stimata in oltre 180 metri cubi al secondo. Un luogo fatto di acqua e di pietra che s’intreccia con la storia e la mitologia dei Mey Mare, la popolazione che abita le foreste di questa parte della piana di Ajamaru, ma anche con le storie degli antichi esploratori della Nuova Guinea. Odoardo Beccari, primo europeo che visitò l’interno della penisola nel 1873, esplorando la valle del fiume Wa Samson, arrivò a circa una dozzina di chilometri dal fiume Aouk. Ma nel suo ultimo viaggio nel 1875 si reco presso la sua foce, nel golfo di Samei da dove riconobbe e per primo descrisse la lunga dorsale di coni calcarei dove scorre il fiume. Alcuni decenni più tardi, nel 1914 il tenente Gustav Ilgen al comando di una pattuglia di esploratori olandesi riuscì invece a raggiungere e fotografare proprio l’imbocco di uno dei trafori. Nella carta che contribui a produrre, una piccola sigla segna per la prima volta l’esistenza di una parte del corso sotterraneo dell’Aouk. A oltre un secolo da quel primo e unico segno su una carta geografica, la nostra spedizione si propone di seguire il fiume lungo il suo corso, tentando l’esplorazione e la documentazione di questo incredibile patrimonio geologico. Perché anche oggi, nell’era dei satelliti, è ancora tempo per andare a caccia di luoghi e di nuove storie da raccontare.

 

0°57'25”S 132°20'18”E Waykut: unconventional Speleo

Il primo impatto con il grande fiume e le sue grotte è sempre traumatico. Quando lo scorso anno abbiamo iniziato le esplorazioni, alla fine ci siamo salutati sull'onda di un Banjir: più che una piena, un vero e proprio tsunami di fiume. Nonostante tutta la nostra buona volontà, qui di stagioni secche proprio non se ne parla: diciamo che semplicemente non esistono. Cosi anche questa volta i giorni passano esplorando gallerie tra una piena e l'altra. Questa volta quando va bene si gioca con trenta o quaranta metri cubi d'acqua al secondo, quando decide di piovere e va male... beh in quel caso è meglio uscire molto rapidamente. Giocare con così tanta acqua in grotta è strano. C'è un limite sottile che separa il molto divertente dal molto pericoloso. Un limite fatto di velocità dell'acqua, turbolenze, trappole e tronchi. Una speleologia diversa dal solito, dove è tutto un mischiare tecniche e attrezzi. Cosi accanto a caschi e attrezzi da grotta, compaiono corde galleggianti, giubbetti di salvataggio, moschettoni a sgancio rapido, arpioni, taglisagole e perfino una variante delle piccozze da ghiaccio: costruita apposta per risalire controcorrente. Dimenticavo: ovviamente gli immancabili Packraft, i kayak gonfiabili per navigare gallerie e rapide sotterranee! Il tutto per provare a dimenticarci che il fiume e la sua voce fanno veramente paura. D'altronde il luogo esige sicuramente rispetto: Waykut, il luogo delle eclissi, ovvero l'enorme portale dove il fiume scompare, ma anche dove si avviano i morti: la madri e i padri che diventeranno antenati. Antenati dei Mey Mare, ovvero del popolo che abita da tempi immemorabili queste foreste. Aouk è la loro voce. Ma visto che è il fiume dopo il suo viaggio nel sottosuolo ha scavato anche una via per uscire nuovamente alla luce, il luogo da cui ricompare è al contrario uno spazio di nascita e vita. Quan: l'immagine stessa della donna pronta per partorire. Nei racconti del nostro amico Samuel, morte e rinascita si uniscono nel corso sotterraneo del fiume Aouk. Morte e rinascita: devo dire che questi pensieri mi passano nella mente mentre scendo la lunga calata di oltre 150 metri che ci permette di atterrare direttamente davanti al portale. Non è tanto l'altezza a mettere pensiero, quanto la roccia a cui sono attaccato. Calcarenite del Miocene, ovvero un calcare corallino pieno di conchiglie e sabbia. Marc quando l'ha vista ha detto di non aver mai trovato una roccia peggiore per fare armi e piantare chiodi. Siamo stati tutti perfettamente d'accordo. Mentre scendo, guardo perplesso le grosse viti da 12mm di diametro che abbiamo fissato. Thomas è stato più di mezz'ora appeso alla ricerca di un pezzo di roccia solida in cui avvitarle. Il suo ultimo messaggio via radio prima di scendere è stato un laconico “Ok! Ne ho trovato un pezzetto solido grande come una mano!”. Nonostante tutto, alcuni giorni dopo, stringendo in mano la fine dell'ultima corda a disposizione, dobbiamo accettare a malincuore che anche questa volta il fiume è stato più forte di noi. E' buffo essere in mezzo ad una galleria larga quasi quaranta metri, alta oltre settanta e non poter proseguire. Andare avanti a nuoto o in Kayak, non sarebbe certo un problema. Ma in questo tratto, con le sponde completamente e verticali e la fortissima corrente, senza un traverso di sicurezza non ci sarebbe modo di tornare indietro. In tre settimane con l'esplorazione di circa sei chilometri di enormi gallerie abbiamo cominciato a dare una forma ai trafori del fiume Aouk. Una river cave veramente unica, che con i suoi circa 50 metri cubi di portata media, si pone sullo stesso ordine di grandezza della Xe Bang Fai in Laos o del sistema Gebihe in Cina, ovvero tra le due tre più grandi dell'intero pianeta. Ovviamente è solo un arrivederci e la partita con Waykut è solo rinviata al prossimo anno.

 

Kladuk_Ilgen sink

L'Aouk è un fiume che ha tante storie da raccontare, cosi strada facendo decide di cambiare nome è diventare Kladuk. Ormai è enorme, ha oltre 2800 chilometri quadrati di bacino su cui piove sempre: raramente il suo colore non è scuro e limaccioso. Siamo più vicini al mare che alle montagne, ma lui ancora non si è levato il vizio di scomparire sottoterra. Questo è il nostro secondo obbiettivo. Un traforo potenzialmente assurdo percorso da un fiume con una portata stabile di 130-180 metri cubi di acqua al secondo. Le immagini satellitari ci mostrano chiaramente il punto dove il fiume scompare e quello dove ricompare in una enorme rapida di acque bianche. Nel mezzo alcune grandi chiazze nere hanno tutta l'aria di enormi pozzi dove provare a scendere. Quando arriviamo davanti al grande lago dove s'inghiotte, riconosciamo la foto fatta oltre un secolo fa dal tenente Gustav Ilgen, mentre esplorava questa parte della Nuova Guinea. Come allora una enorme catasta di legna ricopre come una lastra di ghiaccio lo specchio d'acqua. Sembra di camminare su terreno solido, ma sotto di noi scorre il fiume. Sul fondo la parete e una bocca larga e bassa. Ci avviciniamo con circospezione, un grande antro prosegue all'interno fino a quella che sembra una parete, un sifone. Qui non si può ne nuotare ne camminare e anche il resto serve a poco, non ci resta che tentare la risorgente a valle. Se a monte il Kladuk scompariva quasi silenzioso nel grande lago, qui dove esce ruggisce con tutta la sua forza. Più che rapide sono vere e proprie onde e anche se è praticamente in magra saranno oltre cento i metri cubi che sputa verso di noi. Purtroppo anche da questo lato l'acqua esce sotto la parete e non ci resta che contemplare la più grande risorgente carsica del pianeta. Nel vicino villaggio di Saluk, conoscono bene il loro fiume e la sua abitudine a nascondersi nel sottosuolo. Cosi il loro Re ci accompagna presso una di quelle macchie scure a metà strada. Dall'alto il ruggito è inconfondibile, sotto questo Tiankeng scorre il Kladuk. Tra foresta e pareti, una lingua d'acqua torna a giorno per settanta metri traversandolo da un lato all'altro. Lo spettacolo è grandioso. Purtroppo anche qui due sifoni ci sbarrano la strada. Abbiamo ancora pochi giorni a disposizione; mentre risalgo penso che avendo più tempo, forse cercando meglio potremmo avere più fortuna. Eppure, allo stesso tempo sono contento di aver vissuto questo luogo incredibile. Pensandoci bene, mi sembra ovvio e giusto che il fiume sotterraneo più grande del pianeta abbia deciso di conservare intatto il suo buio e il mistero. Almeno fino alla prossima spedizione...

Andrea Benassi (coordinatore spedizione Papua 2017)

 

 

 

Partecipanti: Andrea Benassi (Società Speleologica Saknussem), Ivan Vicenzi (Gruppo Speleologico Sacile), Thomas Pasquini (Gruppo Speleologico Piemontese); Katia Zampatti (Gruppo Speleologico Brescia), ; Riccardo Pozzo (Gruppo Speleologico Biellese); Tommaso Biondi, Marc Faverjon e Paolo Turrini.

Un ringraziamento agli sponsors che con il loro appoggio e fiducia hanno reso possibile la spedizione: Petzl; Rodcle Equipment; Korda’s; CT Climbing technology; Kikko Lamp; Repetto Sport; Enomad; AlpackaRaft; Società Geografica Italiana; Società Speleologica Italiana; Museo di Storia Naturale di Firenze; Museo di Sgtoria Naturale di Verona; Unione dei Comuni della Romagna Faentina; Parco regionale della Vena del Gesso; Parco regionale delle Dolomiti Friulane.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mestiere dell'archeologo, grazie anche a film come Indiana Jones o alle avventure di eroi dei fumetti, ha qualcosa di estremamente affascinante e di misterioso. Spiegaci anzitutto in cosa consiste. Come ti sei avvicinato all'archeologia?

Occorre precisare fin dal principio che l'Archeologia è a tutti gli effetti una disciplina scientifica, il cui scopo è lo studio delle civiltà e delle culture antiche, basandosi principalmente sulla raccolta, tramite scavo archeologico, sullo studio e sull'analisi delle tracce da esse lasciate nel corso dei secoli, ad esempio monumenti, oggetti d'uso comune e sepolture. In quanto disciplina scientifica l'Archeologia prevede una considerevole preparazione teorica, che deve abbracciare diversi ambiti disciplinari, tra cui Storia, Topografia, Archeometria e quant'altro; per citare il professor Jones: "toglietevi dalla testa città abbandonate, viaggi esotici e scavi in giro per il mondo, noi non seguiamo mappe di tesori nascosti, e la X non indica, mai, il punto dove scavare. Il 70% del lavoro dell'archeologo si svolge in biblioteca, facendo ricerche, leggendo". Per quanto riguarda la mia personale esperienza mi sono avvicinato all'attività archeologica durante il triennio di studi in Storia Antica, da sempre mia grande passione. Grazie ad un mio professore partecipai ad uno scavo archeologico gestito dall'Università di Bologna nelle Marche, e da lì decisi di conseguire la Laurea Magistrale in Archeologia e Culture del Mondo Antico.

So che hai scritto la tua tesi di laurea sul patrimonio archeologico di Casola. Che cosa hai studiato in particolare?

Mi sono concentrato sul periodo più antico della storia casolana, dalle prime testimonianze di presenza antropica, durante il Paleolitico, fino a tutta l'età Romana. Dalla mia ricerca è emerso un quadro di popolamento nella vallata pressoché continuo nel corso dei secoli, con la presenza di siti archeologici di una discreta importanza. Tra i siti più rilevanti abbiamo sicuramente la necropoli umbra, con annesso insediamento, rinvenuta nei primi anni '50 in località Monteroni e databile tra la fine del VI e l'inizio del V a.C. (gli Umbri furono una popolazione italica affine ai più famosi Sanniti e Sabini). Altri siti di particolare interesse sono l'abitato dell'età del Bronzo di Monte Battaglia e le numerose fattorie di età Romana.

Pensi che questo patrimonio possa essere valorizzato? Perché?

Quest’estate  è uscito il libro di racconti (e personaggi )  di Sonia Galliani .

Il libro “ Come le volpi”, edito da “ Tempo al  libro” raccoglie dieci  storie accadute a Casola e dintorni che hanno come protagonisti donne e uomini di diverse età e condizioni, collocate tutte in un passato che noi abbiamo appena sfiorato, ma che è stato il mondo dei nostri genitori e dei nostri nonni, in questo angolo di Romagna . Oggi  possiamo solo intuire, passeggiando lungo i  sentieri e le sterrate, guardando i ruderi delle case che sorgevano in luoghi impossibili, o imbattendosi in  chiese,  anche grandi, in zone dove ora sono solo boschi( chissà da dove giungevano le anime da salvare!?), che lì, su quelle colline, vivevano tante famiglie e tante persone  che si spostavano solamente a piedi, non conoscevano l’automobile, venivano in paese due volte all’anno, frequentavano al massimo tre anni di scuola, producevano quasi tutto ciò di cui avevano bisogno, avevano una conoscenza della terra e della vita che risaliva alle generazioni precedenti, quasi senza mutamenti, da secoli. Leggendo il libro ci si trova immersi in quel mondo “lontano” più dell’effettivo tempo che ce ne separa, quegli odori, quelle abitudini, quel dialetto, quella antica saggezza, quei radicati pregiudizi, quelle incertezze nel trovarsi  in situazioni storiche drammatiche senza conoscere quasi nulla  del mondo di fuori, riemergono dal passato con vivacità e forza e anche con un sorriso.  E pure i  personaggi emergono dal passato tracciati con forza ed energia dall’autrice , quasi mai vittime passive, ma sempre attaccate alla vita e pronte a lottare , oltre le difficoltà, i limiti, le paure.                                                         

Il libro è stato preceduto, come sappiamo, nella storia  e nelle precedenti esperienze dell’autrice, dai “racconti dimenticati” a cui Sonia  è appassionata da quando questa rassegna esiste.

Per la rassegna, chiamata “ La festa dei racconti dimenticati” o “ La notte delle favole”, Sonia ha raccolto , negli anni, una grande quantità di storie e testimonianze, che ha  raccontato con passione e precisione nei cortili  e, leggendo le storie scelte per il libro, sembra di sentire uscire dalle pagine l’ energia e la  meticolosità della sua voce. Energia che serve sia a catturare l’ascoltatore , sia, in questo caso, a catturare il lettore.

 Oltre alle vicende di  quel mondo lontano , sono esaltati i sentimenti della vita , così simili a quelli che viviamo noi: l’amore in primo luogo, la tristezza, la speranza, ma soprattutto una forte voglia di vivere… di vivere…. anche in situazioni difficili!

Prima di rivolgere qualche domanda a Sonia voglio ancora aggiungere che le storie sono state raccolte da Sonia dalla viva voce dei protagonisti o da chi li ha conosciuti e ne ha tramandato oralmente le vicissitudini. Quindi “ testimonianze” che hanno come comune denominatore la fatica della vita in questi luoghi ( che sono poi anche i luoghi della vita universali ): fatica nell’amore per essere accettato, fatica nella guerra, fatica nella povertà, fatica nelle scelte nei periodi bui e difficili della storia, fatica nella morte, la “ fatica” come ci ricorda Donato, il protagonista dell’ultimo e più lungo dei racconti.

Sonia tu sai che sono stati pubblicati molti libri che raccontano del passato  nel nostro angolo di Romagna, cosa ha trovato di nuovo l’editore nel tuo libro che lo ha spinto a pubblicarlo con entusiasmo?

Quando l’editore ha letto la prima stesura dei racconti, che all’inizio erano sei, poi sono diventati dieci, mi ha detto che è stato colpito dalla forza con cui sono stati scritti, per cui gli sono apparsi subito particolarmente “veri”.

Come è nata l’  idea di scrivere un libro?

Io avevo raccolto delle testimonianze dai miei familiari o da conoscenti e le avevo utilizzate per la rassegna dei “ Racconti dimenticati” che si tiene a Casola Valsenio in agosto da ben dieci anni. Nel corso di questa rassegna alcuni casolani si sono cimentati nel raccontare vecchie storie ad un pubblico di bambini ed adulti nei cortili del centro storico di Casola. Oltre ai casolani, nei cortili, hanno narrato storie anche alcuni dei più importanti narratori italiani e non solo italiani. Mi sono  appassionata subito a raccogliere le storie e narrarle, cercando di catturare l’attenzione dei miei piccoli ascoltatori. Il fatto di scriverle è stato un ulteriore lavoro per fare conoscere e non fare cadere nell’oblio tante storie di vita, che mi sono da sempre sembrate degne di essere ricordate.

Sonia ti piace di più scrivere o raccontare? Sono simili le due cose nella tua esperienza?

Per me c’è il momento di raccontare e c’è il momento di scrivere. Però scrivere è un’esigenza di cui ormai non posso fare a meno. Mi piace moltissimo riflettere per comunicare le storie in una modalità espressiva differente . Mi piace  rielaborare le storie che ho conosciuto per renderle  vive, toccanti, indimenticabili.

Tu  hai cercato di raccontare le storie  nel modo più realistico o hai trovato il modo di adattarla alla tua sensibilità?

Le ho rivissute con la mia sensibilità e mi sono accorta spesso che il racconto specifico, locale, aveva comunque una valenza universale, che riguardava anche me , di un’altra generazione ..

Ora che il libro è andato via hai già l’idea di una nuova fatica che ti coinvolgerà?

Molti che hanno letto il mio libro mi hanno chiesto: “ E quando uscirà il secondo? Uscirà presto?”

Per ora però non ci penso. Ho ricominciato a raccogliere del materiale , però per ora “raccolgo” solo, forse presto incomincerò a riscrivere questo materiale, a ripensarlo e reinterpretarlo , poi si vedrà.

Tu sei nata e cresciuta in campagna… e dal libro si capisce la vivacità e l’orgoglio delle tue radici…. hai raccontato la storia degli altri, ma anche un po’ la tua con questo libro?

Per forza è anche la mia storia. Trascrivere e riflettere su queste storie mi ha permesso di affondare ulteriormente le mie radici in questa terra.

Nella mia giovinezza mi sono sentita a volte un po’ “ provinciale” per il fatto di essere nata e vissuta in campagna ( mi chiamavano Heidi!), ma ho avuto, poi, come l’intuizione che questa era la mia ricchezza, una mia risorsa e non un mio limite.

Battute in dialetto, detti vecchi, perle di saggezza contadina sono sedimentate in me quasi a mia insaputa e al momento opportuno, mentre racconto o scrivo, riemergono ad effetto!

A cura di Paola Giacometti

È uscito per la Emil Editrice di Bologna, il romanzo di Pier Ugo Acerbi:

OI, MAROS MAROS                              

Pier Ugo, per i casolani il De, per molti anni ha svolto la sua attività lavorativa all’estero, avviando gli impianti industriali che una nota azienda cooperativa imolese installa in tutto il mondo. Come già per il precedente “… RITORNO IN MAGGIO”, anche quest’ultimo libro trova ispirazione tra i ricordi di un trasfertista, e tra fantasmi di un mondo che non esiste più.

Kromtau, Kazakhistan, URSS. Inverno del 1990, un inverno particolarmente freddo anche per le abitudini della gente, forte e caparbia, che vive da quelle parti.

I personaggi principali del racconto sono Vladia, interprete e autista tuttofare, ma soprattutto persona di cultura, buona e saggia, Anatoly, direttore di fabbrica e uomo subdolo, degno rappresentante della nomenclatura di partito, Avksenty, ragazzo furbo e intelligente tanto da potersi procurare qualsiasi cosa al mercato nero, e Alexandra, cameriera conosciuta in un malandato e squallido posto-ristoro della città:

« Alexandra è russa da parte di madre e kazaca da parte di padre. Per questo motivo, sopra il suo viso slavo si intuiscono lineamenti orientali, in particolare la linea sinuosa seguita dagli zigomi. I capelli biondi e il colore azzurro degli occhi, un azzurro molto molto chiaro, li ha invece ereditati dalla madre. È una ragazza alta e longilinea, e come tutte le persone aggraziate parla sempre a viso aperto, diretta, guardandoti fisso negli occhi, lentamente e con calma. E non sia agita mai. Ha vent’anni e scrive con la sinistra.»

Infine, il protagonista principale del racconto… l’Impero Sovietico al suo tramonto:

«…a giustificare il sacrificio del momento c’erano i freschi e nobili ideali del socialismo… l’avvenire pieno di speranza per i figli.-

Vladia si passa una mano tra i capelli lunghi, che gli cadono sugli occhi, e scopre un viso solenne del quale è difficile dubitare. Riprende a parlare:

-Ma il momento è passato, e sono passati gli anni e poi i decenni. E piano piano la speranza si è spenta, sostituita con l’abitudine al disagio… un disagio continuo e avvilente. Ne è nata una malattia, proprio lì, nella fatiscenza dei caseggiati popolari. Una malattia dalla quale non si guarisce perché quando si vive in mezzo a pidocchi, pulci, topi e scarafaggi… dimmi un po’ tu: come si fa a guarire?... e così il minuscolo appartamento si trasforma nella mano stessa del regime, che ti trattiene, ti opprime e ti contiene come fosse una bara, nei suoi spazi angusti, con il corridoietto dove si passa uno solo per volta, con le parole disperate del vicino che attraversando le sottili pareti divisorie ti raggiungono in ogni angolo della casa. Fino a quando la bara si chiude per davvero e ti portano via in verticale, perché altrimenti non si esce dalla porta.-»

I fenomeni geologici collegati alle fuoriuscite di gas naturale hanno da sempre catturato la fantasia, suscitando in passato non poche paure. Acque che gorgogliano senza apparente motivo o fiamme che si sprigionano dalla roccia non potevano che far pensare a mostri nascosti nel sottosuolo. Gli antichi greci, proprio per spiegare questo fenomeno avevano immaginato un mostro mitologico: la Chimera. Un essere che vomitava fuoco nella Licia, lungo le coste dell'attuale Turchia: «…Era il mostro di origine divina, leone la testa, il petto capra, e drago la coda; e dalla bocca orrende vampe vomitava di foco..." Cosi Omero nell'Iliade descrive l'aspetto del mostro che verrà vinto dell'eroe Bellerofonte. Una vittoria che non impedisce però alle fiamme prodotte dalle fuoriuscite di metano di continuare a bruciare ancora oggi, migliaia di anni dopo la nascita del mito. Anche il nostro appennino è stata terra di fenomeni misteriosi: i viaggiatori che scendevano verso Firenze dal settentrione citavano continuamente i fuochi di Pietramala. Consistenti emissioni di metano incendiato, che illuminavano le colline verso il passo della Raticosa spaventando fino all'età dell'illuminismo passanti e locali tanto da battezzare la zona 'bocca dell'inferno'. Bisognerà aspettare fino al 1780, quando Alessandro Volta riconobbe un parallelo con l'aria delle paludi' perché il fenomeno potesse essere in parte spiegato. Oggi sappiamo che in una ampia fascia pedecollinare tra il parmense ed il forlivese sono presenti fenomeni di questo genere. Fuochi, vulcanelli, salse e bollitori, dovuti a manifestazioni superficiali di idrocarburi, principalmente gassosi, che tendono a risalire all'interno delle rocce che li contengono e li sovrastano. Quando le bolle di gas fuoriescono attraverso terreni di tipo argilloso si hanno delle eruzioni fangose chiamata salse o bollitori che sono composte da emulsioni fredde di acqua, gas metano e argilla. Il più famoso dei quali è sicuramente il buldur di Bergullo, presso Imola, descritto dal finire del '700 e studiato dallo Scarabelli.

 

Ma anche il meno noto Dragone di Sassuno nella valle del Sillaro o il vulcano di Monte Busca, la cui fiamma perenne illumina le colline vicino a Tredozio. Nella vallata del Senio, ufficialmente non si era a conoscenza fino ad ora della presenza di fenomeni simili. Localmente si sapeva della presenza di piccole emissioni di gas lungo il fiume presso la confluenza con la Cestina, dove nelle vicinanze era nota anche l'esistenza in passato della fiammella. Probabilmente una piccola emissione costante di metano che bruciava nel mezzo di un campo. Fenomeni che con il passare del tempo sembrano essersi esauriti. Del tutto nuovo o almeno sconosciuto, sembra essere al contrario il fenomeno delle numerose risalite di gas nel tratto di fiume proprio a monte del paese di Casola, in corrispondenza del ponte del Cantone. Ovvero in quella zona di fiume che due anni fa fu interessata dalla grande frana del campo sportivo, e dove la stessa frana ha creato un ampio lago perenne il cui limite arriva proprio presso il ponte. Il gas, probabilmente una miscela di metano, anidride carbonica e idrogeno solforato, risale gorgogliando da decine di piccole bocche che si aprono sul fondo e se acceso brucia e scoppietta in vampe rossastre. Non è chiaro se sia stata la presenza delle acque calme e costanti del lago ad aver reso maggiormente visibili oggi queste emissioni, oppure se le stesse siano aumentate. Non è escluso che le stesse possano essere messe in relazione proprio con la presenza del nuovo bacino o con i fenomeni sismici che precedettero di alcuni mesi la frana stessa. L'origine di questi fenomeni in generale non è ancora del tutto chiara. Spesso si hanno risalite di gas e fluidi lungo allineamenti strutturali come le faglie. L'attività delle salse e dei bollitori non è sempre regolare ma alterna fasi di maggiore o minore crescita senza una cadenza precisa. Nel caso delle salse di Bergullo per esempio pare che l'attività sia collegata con le oscillazioni della falda freatica, diminuendo con la siccità. Gli studi attuali indicano che l'origine di tali fenomeni sarebbe da collegare con quelle situazioni geodinamiche che causano l'instaurarsi nel sottosuolo di pressioni interstiziali di fluidi. Pressioni generate potenzialmente sia da movimenti di faglia che da mutate condizioni idrogeologiche. Quale che sia la spiegazione e l'origine, navigare in canoa attorno a questi piccoli gorgogli che increspano l'acqua, ha un fascino tutto particolare. Trasportati in un clima di mistero non è difficile immaginare che anche nelle profondità sotto il Senio possa dormire un qualche mostro mitologico, magari se non un Dragone o una Chimera almeno un piccolo Basilisco.

Andrea Benassi   

 

 

Daniele Faziani, a due anni di distanza dalla pubblicazione di In memory of a real sound. Homage to Charlie Parker per sassofono contralto, pubblica, sempre per la casa editrice musicale bolognese UtOrpheus, un altro omaggio ad un altro grande della storia del jazz, John Coltrane. Si tratta della composizione Your gift. Homage to John Coltrane per sassofono Tenore o Soprano. Coltrane, sassofonista, autore di brani indimenticabili come A love supreme o My favourite things, è considerato uno dei giganti della musica jazz e della musica del Novecento in genere. Daniele Faziani ha sentito il desiderio di omaggiare un musicista che ha amato e che lo ha influenzato ed ha mosso la sua ispirazione dallo stile evocativo della musica di Coltrane e dalle suggestioni che nascevano dalle sue improvvisazioni. Coltrane rimane ancora oggi un punto di riferimento per i sassofonisti di tutto il mondo e Faziani ha cercato di cogliere soprattutto la peculiarità del suono aggressivo del sax tenore. Si tratta quindi di un brano di carattere assolutamente jazzistico. Speriamo di potere ascoltare a breve l’esecuzione del brano a Casola.

R.A.

“ Non fissarli negli occhi 
non accarezzarli sopra la testa
non avere postura dominante
porsi lateralmente e non in posizione frontale
 non correre via”

 

Ascolto attentamente  queste  indicazioni perché sono attratta dai cani e nello stesso tempo li temo per una brutta esperienza avuta da bambina.

Voglio trattenere queste indicazioni per assimilarle indelebilmente!

E poi quando  passeggerò sulle nostre colline e incontrerò qualche cane da guardia, come spesso succede, saprò come comportarmi.

Ma, sia ben chiaro, non le ho trovate su INTERNET, come potreste credere ( e cosa non si trova su Internet ?), ma dalla viva e dolce  voce di “un’ esperta” che da circa due anni collabora con un centro cinofilo di Forlì. E’ di Casola, è giovane e piena di entusiasmo e da bambina  raccoglieva ogni gattino, uccellino, riccio, coniglietto sperduto, abbandonato o ferito…. Così, quando ho saputo che attualmente collabora con un centro cinofilo e, a dispetto degli studi fatti, sembra decisa a seguire questa strada nella vita, ho pensato di contattarla e di farle un’ intervista per saperne di più sui cani , su noi e i cani, sulle nuove esperienze che li vedono protagonisti nella nostra società.

Ho pensato di intervistare Ramona perché è veramente un’esperta i n questo settore e dopo i due anni di collaborazione col Centro sta pensando seriamente di aver trovato la sua strada nel mondo lavorativo: un lavoro appassionante e che, come vedremo, ha un vivace bacino di utenza nel mondo e nella società attuale.

 Come hai conosciuto il Centro presso cui collabori?

Come capita a tutti, sulla posta elettronica trovai, tra le tante, una mail che mi invitava a seguire un corso on line per educatore di cani, molto costoso e molto indefinito. Cercando di saperne di più mi imbattei in un corso , questo concreto, organizzato dal centro cinofilo di Forlì e decisi di parteciparvi: sono dei weekend organizzati (tuttora) dal centro in cui si alternano lezioni di psicologia dei cani, di veterinaria, di istruzioni per relazionarsi ad essi….

Da quel corso, un po’ alla volta, la mia conoscenza si è approfondita e l’interesse  verso il mondo degli animali e soprattutto dei cani si è intensificato ancora di più.

Così ho iniziato a collaborare con loro.

I RICORDI DI NICOLETTA CAVINA

Dopo 50 anni oggi è la prima volta che scrivo alcune righe per Lo Specchio/Spekkietto.

Il mio ricordo della vita della redazione va a quelle sere di sabato quando ci si ritrovava tutti  insieme ,dopo cena , per finire il giornale e per farlo uscire entro il fine settimana.

C’era chi doveva ancora finire l’articolo, chi con gli ormografi scriveva i titoli,  chi incominciava a ciclostilare girando la manovella: io ero una di queste. E finalmente alle prime ore del mattino terminavamo impaginandolo molto soddisfatti.  Era molto bello stare insieme e condividere le nostre idee. Ricordo anche quando i nostri amici universitari raccontavano a noi,  che vivevamo soprattutto la vita del paese, quello che accadeva a Bologna durante le manifestazioni studentesche. Insieme discutevamo gli articoli appena pubblicati e insieme facevamo proposte per quelli che avremmo scritti per il  numero successivo. Voglio ribadire “insieme, nel bene e nel male” come  ricorda una vecchia canzone scout, oggi un po’ dimenticata; E’  così che siamo cresciuti. Ora è tutto computerizzato, tutto on-line. Si scrive con la posta elettronica, su Facebook, un computer a testa e con Whatsapp si fa il resto. Ognuno a casa sua e il giornale te lo trovi già fatto e confezionato in una scatola, pronto per la distribuzione.

(Rolling Stones – Blue & Lonesome)

Ecco il blues degli Stones. Quello delle persone, dei loro amori, delle loro vite, delle loro paure e della loro fatica. Quello delle canzoni ascoltate, con passione e grande sentimento. Quello delle canzoni, che parlano delle loro storie. Non solo perdenti, ma anche racconti di storie d'amore, lussi e divertimenti. Un insieme di canzoni suonate con rispetto per la musica e per i musicisti che ci sono stati prima di noi.

Una piccola introduzione di quello che è stato in passato, suonato oggi. Un invito a fare conoscere ciò che è stato amato, ascoltato. Pezzi di Jimmy Reed, Willie Dixon, Eddie Taylor, Little Water and Howlin'Wolf.

Circa 50 anni di storia, registrati in 3 giorni. Musica suonata senza badare molto alla tecnica, con sana sporcizia, attraversata direttamente per renderla ancor più reale. Impreziosita da una presenza discreta, Eric Clapton.

Quasi come se accadesse qualcosa di magico alla fine di ogni canzone. Suonata con lo sguardo non sullo spartito ma incrociato con chi suona, canta e suda vicino a te. L'occhio diretto al rosso del sangue, sul quale s'intravede traccia di blues.

Un disco che suona intenso. Difficile pensarlo suonato così, da musicisti che hanno alle spalle così tanta storia. Una dichiarazione d'amore, purissima, verso la musica che hanno amato. Un insieme di movimenti sgrammaticati, polverosi e selvaggi che tracciano percorsi più importanti della meta. Viene difficile definire il blues, soprattutto per chi ne sa poca. Viene però facile riconoscerlo, è musica senza tempo. E se ti piace, capisci che in quella crepa, è entrata luce.

Come facciamo, tra miliardi di video e di foto che circolano, a distinguere un odioso latrato di un cane da un bravo cantante, uno scarabocchio di un bambio che per la prima volta prende in mano una matita da un quadro che mantenga la sua ragion d’essere, uno scatto orribile da un’immagine ben fatta e costruita?

Con tanta fatica, con allenamento, con interesse, certamente potrebbero essere la risposta. E così con immane sforzo del cervello e con un surplus di stanchezza per i nostri occhi arriviamo ad individuare qualcosa e qualcuno a cui riconosciamo un diritto di cittadinanza nel mondo dell’espressione. In questo mare magnum di immagini quindi capita di imbattersi in qualcosa che vale la pena di raccontare agli altri e di fare conoscere. È quello che è capitato quando ho visto le foto di Filippo Cantoni e così mi è sembrato normale fargli qualche domanda

Ciao Filippo, anzitutto raccontaci come è nata la tua passione per la fotografia?

Ciao Riccardo, la mia passione è nata circa 5 anni fa. Comprai la mia prima compatta e iniziai a scattare foto a tutto quello che mi trovavo davanti, attratto dalla possibilità di potere catturare un momento in un fotogramma.

Che cosa ti piace fotografare?

La domanda giusta sarebbe cosa non mi piace fotografare! Penso che ci si possa divertire realizzando qualsiasi tipo di fotografia. Il genere che preferisco però è sicuramente il food. Trovo davvero interessante e difficile riuscire a trasmettere attraverso uno scatto i colori i sapori e gli odori di una pietanza, per questo ogni volta è sempre una nuova sfida da superare.

Hai frequentato scuole, corsi o tutto è frutto della tua passione?

Penso che la passione sia fondamentale per questo tipo di lavoro, ma basi tecniche e occhio siano molto più importanti. Scuole non ne ho frequentate, ma ho letto e studiato online attraverso corsi su you tube, blog fotografici ecc. Poi sono stato l’assistente di un fotografo professionista per un breve periodo. Chiaramente devo ancora imparare tantissimo prima di potermi definire un fotografo.

Entrano sottoterra, et di nuovo escono fuori il fiume Lico in Asia, Erasino in Argolica, il Tigri in Mesopotania. Et in Athene quelle cose che son messe nel fonte d'Esculapio riescono nel Falerico. Et in territorio d'Atina un fiume entra sottoterra e scorre venti miglia e di poi sbocca. Il medesimo fa il Timavo in quel d'Aquileia.” Plinio_Historia Naturale_libro II° cap. CIII

 

La galleria di Amos a monte del sifone di Cariddi

 

Cosi scriveva circa duemila anni fa Plinio nella sua grandiosa Historia Naturale. I fiumi sotterranei hanno da sempre attratto la fantasia e l'immaginazione degli uomini di ogni tempo e luogo. Dai fiumi infernali narrati da Dante a quelli incontrati da Simbad nei mari d'oriente fino a quello capace d'essere via per l'Eldorado nel racconto di Voltaire, l'idea che un fiume possa scorrere sotto un cielo di pietra attrraverso luoghi misteriosi, ha esercitato un fascino potente, capace di fondere in ugual misura attrazione e paura. Proprio il mistero del fiume Timavo che s'inabissa sotto il carso triestino è stato uno dei principali motori che hanno portato alla nascita della Speleologia all'inizio del 19° secolo. Dopo quasi due secoli di esplorazioni speleologiche, le grotte conosciute ed esplorate in Italia e nel mondo sono oggi decine di migliaia; in alcuni casi profonde oltre due chilometri o lunghe molte centinaia. Eppure, se oggi ci domandassimo quale sia e dove si trovi il fiume sotterraneo più grande del pianeta, quello capace di tuonare nel sottosuolo con la maggiore portata d'acqua, a questa semplice domanda ancora oggi non sapremmo rispondere. Anche nell'epoca dei gps e delle foto satellitari accessibili a tutti, la speleologia resta infatti uno spazio d'esplorazione reale dove andare in cerca di luoghi e fenomeni totalmente sconosciuti. Così mentre sappiamo bene dove si trovino le più alte montagne della Terra, poco o nulla sappiamo di dove siano e come siano fatti i più grandi fiumi sotterranei. Partendo da questa semplice constatazione la Società Speleologica Saknussem di Casola Valsenio, ed il Gruppo Speleologico Sacile hanno avviato da alcuni anni un progetto di ricerca denominato Onderaardsche Loop Project (Corso sotterraneo dalla sigla O.L. usata sulle antiche cartografie delle Indie olandesi per segnare quando un fiume scompariva misteriosamente nel sottosuolo). Il progetto, patrocinato dalla Società Speleologica Italiana e dal Parco regionale della Vena del Gesso Romagnola è oggi alla sua terza spedizione ed è specificamente finalizzato ad individuare ed esplorare i maggiori fiumi sotterranei del pianeta, muovendosi di volta in volta su diverse zone carsiche. In questi primi tre anni le nostre ricerche si sono concentrate su alcune aree nell'estremità orientale dell'enorme arcipelago indonesiano.

PEREGRINATIO CASULA VALLE SENII – ROMA AD LIMINA SANCTI PETRI XXV Junius – X Julius MMXVI

Dunque dicevamo che un manipolo di Casolani ed ex Casolani, con l’inserimento di una Castellana, che comunque frequenta regolarmente Casola, aveva deciso da tempo di rispondere all’appello lanciato da Papa Francesco e di andare in pellegrinaggio a Roma nell’anno duomillesimodecimosesto del Giubileo della Misericordia. Per diversi membri del manipolo anzidet-to l’esperienza del pellegrinaggio a piedi non era una novità, essendosi già impegnati negli anni precedenti sui sacri percorsi, per alcuni altri invece rappresentava una novità.
Tutto ebbe inizio con un convito ed attorno ad una mensa austeramente …..? - Beh proprio austeramente non si può dire , per cui diciamo attorno ad una mensa appositamente allestita, nella dimora degli Olmatelli dove si fissarono i punti cardine, compreso le date, del pellegrinaggio romano e in cui si saggiarono le disponibilità di tempo di ciascuno.
Nei tempi successivi si definirono i particolari, compresa la scrematura degli aspiranti pelle-grini. Furono stabilite le tappe giornaliere ed i contatti con le strutture di ospitalità disponibili. Grazie alle conoscenze di Sandra Landi fu trovato anche un mezzo d’appoggio per il tra-sporto degli zaini pesanti e per eventuali trasferimenti di emergenza: un Pic Hup messo gentilmente a disposizione da Mancurti Stefano. Finalmente arrivò la data prevista per la partenza: il sabato 25 Giugno.

Il diario completo del pellegrinaggio è consultabile e scaricabile a questo link: https://goo.gl/OgRWae

Dopo tanto tempo abbiamo il piacere di reintervistare Fabio Donatini che avevamo lasciato qualche anno fa con il docu-film “Tuber”, ambientato principalmente a Casola, che raccontava di un mondo, quello del tartufo, fatto di luci e ombre, di passione ma anche di denaro, di amicizia ma anche di rivalità. Fabio ce lo aveva presentato con la sua solita ironia, con voglia di prendersi un po’ in giro, con l’immancabile dose di surrealismo.

Come era andato Tuber?

Direi bene. La Regione lo ha trasmesso in varie città, anche se la parte “surreale” ha suscitato qualche lamentela da parte dei committenti. Ma ci può stare, non si può piacere a tutti. Anzi, distinguersi e ricevere critiche è spesso sentore di una buona ricezione del messaggio; nel senso che il film viene seguito e capito, poi, può piacere e non piacere. Spesso alcuni prodotti non vengono proprio recepiti, e quindi neanche criticati. Mi è capitato, e non è una bella sensazione.

Che cosa è successo dopo Tuber?

Tante cose. Ho girato un medio metraggio, finanziato dal Ministero dei beni culturali. Ma non è andato bene. Non è stato distribuito. Questo mi ha fatto penare parecchio, credo di non aver ancora superato il trauma. Un film di 70 minuti che ti rimane nel cassetto e che viene proiettato solo una decina di volte è, nel mio settore, una cosa piuttosto dolorosa. Tipo sbagliare un rigore ai mondiali. Ma anche questo ci può stare, c’est la vie. Ti lascia molta insicurezza nelle ossa, ma poi devi rimetterti a scrivere e pensare al progetto successivo. Poi mi sono legato professionalmente a Bottega Finzioni, un scuola di scrittura e agenzia di contenuti. Per la Bottega ho fatto diverse regie: un video aziendale per la Banca di Bologna, una web-serie per Unipol Banca, l’assistente di regia per un lungometraggio, la scrittura di diverse puntate de “Le muse ignoranti” (un format in onda su Sky Arte giunto alla terza stagione), alcuni spot virali, alcuni videoclip a basso budget per cantautori emergenti, tre cortometraggi. Insomma, mi sono dato da fare attraversando vari linguaggi. Ora sto lavorando per Bologna Welcome, l’ente turistico del Comune di Bologna. Ci stiamo dedicando alla costruzione di brevi virali dedicati a persone famose vissute a Bologna. In questi giorni stiamo montando Umberto Eco. Uscirà in rete a fine novembre.

Sappiamo che hai sceneggiato una puntata della serie televisiva in onda su Rai2, “L’Ispettore Coliandro”. Come è scrivere la sceneggiatura di una serie che passa in prima serata sulla RAI?

Molto difficile. Davvero. Rispettare e capire le regole della serialità non è per niente immediato. Carlo Lucarelli, creatore della serie, mi ha aiutato molto a capire le caratteristiche di Coliandro, caratteriste che devono essere reiterate in tutte le puntate della serie. Bisogna quindi conoscere bene come si comporta e come parla il personaggio, come reagisce a date situazione e cosa può o non può fare; nel senso che devi immedesimarti molto con lui, perché quello che faresti tu, ovviamente, non è quello che farebbe l’ispettore Coliandro. Per capirlo ci vuole tempo. E ovviamente ti devi guardare tutte le puntate passate. E dopo un poco di tempo può diventare leggermente monotono. Solo leggermente però. Inoltre bisogna rapportarsi continuamente con attori, registi e produttori, che spesso ti chiedono di cambiare scene, battute, azioni. E questo si verifica più e più volte, anche durante i giorni di ripresa. Stressante direi. Ma passare in prima serata è ovviamente una soddisfazione.

Sabato 11 luglio, alle 21, in una piazza Sasdelli assai affollata, il “Maderna Percussion Group”, quartetto formatosi all’interno del Conservatorio Maderna di Cesena,  in occasione della rassegna “Musica nei luoghi della Storia”, ha tenuto un concerto, sorprendendo il pubblico casolano, non solo per l’originalità degli strumenti (Marimba, Xilofono, Vibrafono, Cassa sinfonica, Maracas, Congas, Bastone della pioggia e una serie pressoché infinita di vari strumenti non facenti parte della tradizione occidentale)  e per la splendida performance,  ma, e soprattutto, per la presenza, all’interno del gruppo, di due fratelli casolani, Michele e Vittorio Soglia che, insieme al loro insegnante, il Maestro Daniele Sabatani, e al loro compagno di studi Tommaso Sassatelli, hanno costituito, da oltre quattro anni, questa particolarissima formazione strumentale.La loro bravura si è palesata in un repertorio di grande presa sul pubblico, costituito da alcuni brani molto difficili, tra cui “Music for pieces of wood” di Steve Reich, originariamente scritto per cinque suonatori di clave o legnetti, e arrangiato per l’occasione per quattro strumentisti, la cui particolarità consiste nella fitta rete di incastri dalla quale è impossibile riconoscere se tutti gli strumentisti stanno eseguendo la stessa frase; “Ghanaia” di Mattias Schmitt, l’omaggio che il compositore vuole rendere alla musica tradizionale africana; “Mitos Brasileiros” di Ney Rosauro, concerto in cinque movimenti per quartetto di percussioni, che vuole essere un omaggio alla musica latino americana; “Marimba Spiritual” del giapponese Minoru Miki, scritto dal suo autore tra il 1983 e il 1984 come riflessione sulle terribili condizioni di povertà che attanagliavano il popolo africano in quegli anni.