Ebbene si, gli altri ci guardano, ci osservano, e ci giudicano. Detta così può apparire come la più lapalissiana delle affermazioni, ma sembra difficile abbracciarla appena la moduliamo veramente sul diritto-capacità dell’altro di farlo. Dal mio punto di vista è pane quotidiano: l’antropologia ha dovuto misurarsi con lo sguardo dell’altro da almeno un secolo, il potere dell’occhio altrui ha messo in crisi una dopo l’altra le sue teorie ed i suoi modelli.
Lo sguardo dell’altro ha messo in crisi l’impero inglese ed il colonialismo, specchiandosi negli occhi di Conrad, e sembrava almeno fino ad alcuni anni addietro che si potesse archiviare l’evoluzionismo sociale con la sua ottica di osservazione privilegiata ed asettica, con la sua fede certa nella possibilità di creare e modellare società a tavolino, come un relitto della storia, eppure i fatti dimostrano il contrario. Il nostro sguardo paternalista, declinato purtroppo anche nelle migliori intenzioni, fa grande fatica a liberarsi della filosofia delle idee pure, evita attentamente di calarsi nella fangaia della storia. Lo sguardo ad alta quota, vorrebbe un altro lontano da noi, un altro da osservare con un misto di buonismo e voujerismo o di condanna senza appello, un altro silenzioso e con il quale non si deve comunicare: uno spettacolo. Abituati da decenni alla visione del lontano, la tele-visione, come espressione di comunicazione ad una via, abituati alle immagini di dolore che entrano nel salotto buono senza lasciare traccia di sangue e di fango, siamo cresciuti con l’idea che la realtà fosse una buona inquadratura, che uno spettacolo teatrale avesse sempre una quarta parete a proteggere lo spettatore, che videodrome fosse solo un film dell’orrore. L’evidenza dimostra che ci sbagliavamo. L’atto del conoscere è pericoloso in se stesso, per conoscere, per uscire da noi stessi, dobbiamo aprirci, esporci all’altro. L’essenza di ogni conoscenza è fondamentalmente dialogica. Gli italiani hanno scoperto in questi giorni uno dei corollari profondi della globalizzazione, hanno scoperto che l’altro, troppo spesso percepito come essere connotato solo da identità etniche o religiose rozzamente abbozzate, è in grado di agire anche in modo strettamente politico. Che la strategia e la tattica della real politik non sono patrimonio esclusivo del mondo euro-americano. Che l’altrove non è sinonimo di un mondo arcaico ed immutabile, che gli spettacoli folkloristici dei club turistici ed i costumi tipici rimandano a strategie economiche e non all’anima immutabile di un popolo, che esistono molte realtà e molti immaginari, più o meno credute, malintese, tollerate. Stanno imparando forse, che definire l’altro è già il primo tentativo di coercizzarlo e forgiarlo al nostro occhio. Ebbene in questa guerra di sguardi dobbiamo abbandonare la nostra posizione privilegiata, il nostro comodo laboratorio. Personalmente come antropologo, di sguardi incrociati ne ho subiti molti e ne conosco la potenza spiazzante, l’ambiguo gioco del malinteso, la scomoda posizione di chi si trova in una situazione non per fruire di un contratto turistico, di un patto stabilito tra le parti, un patto che si può onorare con anonima moneta, ma per stabilire una relazione tra esseri umani. Una relazione che se chiede una parte di umanità, di originale, deve essere pronta a pagare con la stessa moneta, una dinamica di reciprocità, di riconoscimento reciproco, e non di freddo solipsismo e tautologia. Nei 34 paesi del mondo che ho visitato, ho sempre trovato questa volontà allo sguardo, che è anche la radice profonda di ogni curiosità e di ogni (forse l’unico che ci è concesso) tentativo di trascendere la nostra datità, la nostra insostenibile finitudine. Devo anche ammettere che non sono sempre stato in grado di reggere il peso dello sguardo, e più di una volta ho abbassato gli occhi rifugiandomi in una delle tante realtà, categorie, modelli e immagini che secoli e millenni di tradizione occidentale ci permettono di usare per giudicare l’altro. L’ho forzato in categorie, sezionato, analizzato, perdendo la possibilità dell’incontro, fallendo il motivo per cui ero li spesso sono tornato con la fotografia dello specchio, con un alterità che parlava solo del mio giudizio. Ci sono state però delle volte che ho passato quella soglia, ed oltre ho incontrato qualcosa di realmente esterno al mio sguardo. Che gli altri, non solo euro-americani, si interessino allo sguardo che abbiamo di loro, è cosa vecchia ben più della globalizzazione, e sarebbero tante, troppe, le cose da tirare fuori dagli archivi della storia per cercare di concepire e comprendere questa invisibile rete di sguardi, a me piace ricordare alcuni episodi personali che mi sono capitati in giro per l’altrove. Nel 1996 mi trovavo nelle montagne dell’Atlante, tra Marocco ed Algeria, ed un rapporto di rispetto, riconoscimento reciproco, e forse amicizia, con alcuni ragazzi berberi è iniziato proprio parlando di politica italiana. Di politica interna, della affermazioni di Bossi sulla secessione padana, sono stati loro a chiedermi di italiani e padani e cosa fosse successo della nostra identità nazionale. Non c’era Internet, e la massima tecnologia era una radio a pile, in un posto che ancora oggi non ha corrente elettrica e dove si arriva in camion una volta la settimana. L’anno scorso ero in Kashmir, in India, zona che notoriamente da più di mezzo secolo avrebbe i suoi personali problemi, ma anche qui la realtà del presente la si incontra in ogni angolo. Nella valle dello Zanskar, un posto dove la prima strada è stata fatta circa dieci anni fa, che rimane isolato dal resto del mondo per sette mesi l’anno, dove la posta arriva d’inverno a piedi lungo un fiume gelato, ogni sera in uno dei piccoli locali dove mangiavo, si discuteva di politica estera, della guerra in Irak, del rapporto geopolitico tra l’appoggio del Pakistan agli Stati Uniti, il ruolo dell’India e la ricaduta nel conflitto Indo – Pakistano, in modo particolare sul ruolo che gli islamici indiani avrebbero avuto, e sull’immagine che gli altri ne avrebbero dato. Si discuteva di questo, in famiglia, con gli amici, tra uomini e donne, mentre si preparava il pane, nella penombra del fuoco. Quando ai primi di settembre fu ucciso l’Imman sciita di Karbala, a Kargil fu proclamato il lutto, ed io ero l’unico in città che impiegò mezza giornata a capire perché tutti i negozi e gli alberghi fossero chiusi, a collegare i fili della realtà. Forse mi avrebbe fatto piacere si fosse trattato di una festa tradizionale, un pittoresco atteggiamento locale, ma invece era solamente la realtà del presente, era solo la realtà degli sguardi che rivolti verso di me cercavano di giudicarmi e posizionarmi in quel presente di cui io ignoravo la stessa esistenza. Ho passato l’altra metà della giornata e la cena con alcuni medici originari di Shrinagar che prestavano servizio a Kargil, parlando di come si stesse modificando la percezione dell’Islam da parte di intere fette del mondo, da parte di persone che mai avevano conosciuto una realtà islamica, di quanti errori si stessero commettendo in questo impressionante rigurgito classificatorio che oppone civiltà, senza rendersi conto di mostrare solo gli stereotipi delle stesse. Li ho conosciuti mentre cercavo un giornale per capire cosa fosse successo. A Kargil i giornali arrivano con alcuni giorni di ritardo, ma non è così per le notizie, per la voglia di capire, incontrare e giudicare i comportamenti del resto del mondo. La politica estera ha sempre saputo l’importanza dei malintesi, degli sguardi, dell’apparire, ne ha fatto l’arte della diplomazia, vi ha posto gli ambasciatori a capo come casta sacerdotale, la novità in questi tempi è più per la politica interna, che non può più permettersi di usare due pesi, che ha scoperto di non poter fare accordi separati tra interno ed esterno, che in un mondo dove le merci si spostano, dove si spostano le masse di esseri umani, non esiste più una strategia per l’interno ed una per l’esterno, che il limes si modula in tinte ambigue e mutevoli, che le scelte compiono eccentriche traiettorie rimandandoci echi ed immagini sinistre e fin troppo reali. Forse l’Italia ha anche scoperto che l’altro, lo straniero, non proviene da un’altrove indifferenziato, da un limbo connotato solo da sofferenze e povertà ontologiche e trascendenti, ma da un preciso orizzonte e contesto sociale, da problemi generati da una rete di cause-effetti storicamente determinata, dalla quale, sebbene non si possa estrarre la causa prima, non ci si può neanche tirare fuori in modo totale ed estraniante. Si può dissertare sulla guerra, sulle scelte, sui diritti, ma è buona cosa assicurarsi sempre di non essere di fronte ad uno specchio, è bene assicurarsi che l’altro possa realmente farci notare le nostre responsabilità e gli effetti delle nostre scelte.
Andrea Benassi