'In tutti quegli anni la storia dell’herpes era stata ripetuta continuamente, stiracchiata da tutte le parti, gonfiata od omessa, ma non aveva mai perso un grammo della magia che possedeva”.

Nel paese di Tolintesàc
, il secondo romanzo di Cristiano Cavina, è, prima di tutto, quello che viene definito un libro metanarrativo. Raccontando, riflette sull’arte difficile e salvifica del raccontare.
In una novella di quell’elogio supremo della narrazione che è il Decameron, la leggiadra Madonna Oretta sbeffeggiava argutamente, con metafore ippiche, un corteggiatore che, volendo farsi largo nel cuore di lei con sapide storielle, si rivelava il più impacciato e noioso dei narratori. Forse Madonna Oretta, dopo essere discesa dal bizzoso e recalcitrante cavallo del suo spasimante, si sarebbe volentieri accoccolata ai piedi di nonna Cristina, di fianco al nipote sbalordito, attento e incredulo, per ascoltare qualcuna di quelle storie sformate, tagliate, riaccomodate ma sempre, anzi proprio per questo, magiche.
Ci sono tanti tipi di “narratori in prima persona”, bisogna fare attenzione a non confonderli uno con l’altro. Il giovane Baracca che dall’inizio alla fine del romanzo regge le fila del discorso, è in realtà soltanto un mezzo, un canale tramite il quale le parole di nonna Cristina arrivano sulla carta stampata. Lui racconta pochissime esperienze della propria vita, qualche messa servita, un ricevimento dei genitori e poco più. «Del resto non c’era mai spazio per i miei interventi», dice a un certo punto. E prima ancora si era definito un ostaggio dell’abilità affabulatoria della nonna, condannato a starla ad ascoltare finché lei non gli avesse reso la libertà addormentandosi. Quello che incatena il giovane ai piedi della poltrona della nonna non è tanto ciò che lei racconta, ma il modo in cui lo fa: le sue pause, le improvvise accelerazioni – segnale, per l’ascoltatore attento, che in quel punto qualcosa disturba la mai obiettiva narratrice – le omissioni di certi dettagli e le insistenze su altri. Succede così che alle storie della nonna si aggiunga e si sovrapponga un’altra storia, questa volta sì narrata dal nipote: la storia di come si racconta (e di come si ascolta) una storia. Come ogni racconto ben costruito, la storia di chi narra e di chi ascolta ha altri significati, ha profondità buie in cui si gioca il rapporto fra un’anziana signora che per tutta la vita ha lottato e il suo giovane nipote, arrivato alla vita senza neanche due righe di preavviso, come un ospite non gradito, ma che ora sta “ripagando”, con l’attenzione, gli affanni provocati prima ancora di nascere.
Il rapporto fra i diversi piani del testo, quello del passato rievocato da nonna Cristina e quello del momento presente in cui lei racconta, non è semplice e immediato. Viene costruito con la continua alternanza fra le parole del nipote che “rimodella” (è un canale di trasmissione, come detto, ma non inerte) quelle della narratrice, e alcuni commenti di Cristina stessa, riportati in discorso diretto e che sono la spia dei suoi sentimenti verso quel brano della storia, sentimenti che il nipote sa ben leggere. La struttura è articolata e, si potrebbe pensare, difficile da portare avanti per un congruo numero di pagine come quello che costituisce il romanzo. Invece, all’atto della lettura (perlomeno, della mia lettura), accade il contrario. Accade che le pagine più ostiche siano le prime, quando ancora ci si deve abituare a questo modo di “raccontare un atto narrativo”, e che la macchinosità e la fatica si sciolgano una volta che ci si è adattati al ritmo delle brevi narrazioni continuamente interrotte. Più ci si inoltra nel romanzo più la lettura scorre fluida e divertente, accattivante e stimolante. Dobbiamo anche noi diventare ascoltatori attenti.
In questo avvicinamento al ritmo del testo aiuta molto il linguaggio di Cavina, come sempre ricco di invenzioni e arguzie che si esprimono soprattutto nelle similitudini che trasformano Cristina in un gigantesco uccellino da cucù o la mamma Nicolina, investita da un’auto e scaraventata sull’altro lato della strada, in «un panno stropicciato scappato al filo su cui era steso ad asciugare». Ogni tanto la voglia di sorprendere prende un po’ la mano alla scrittura e genera similitudini di non immediata comprensione ed efficacia (i capelli ripiegati come le stanghette delle t minuscole) o metafore troppo insistite (l’aria pesante che si respira in casa e che si solidifica in una cassa troppo gravosa per non piegare le spalle), ma non c’è dubbio che la migliore qualità della scrittura di Cavina sia proprio l’abilità nell’accostare immagini lontane e modellarle in modo da gettare nuova luce anche sugli oggetti più comuni e famigliari. Un’arte dello straniamento insomma che ha la sua radice profonda nello sguardo infantile e “puro” con cui il mondo viene guardato.
Un romanzo sull’atto del narrare dicevamo.
Alla fine il giovane nipote esplicitamente prende il posto dell’anziana affabulatrice, i ruoli si invertono e lui costruisce per lei una nuova storia con materiali vecchi, a testimoniare come un buon narratore sia capace di rendere affascinante e stimolante anche le storie che da secoli vengono masticate e macinate da centinaia di lingue e filtrate e godute da migliaia di orecchie. La giusta operazione è quella di porre Nel paese di Tolintesàc come antefatto di Alla grande!, il primo romanzo di Cavina. Chi ricorda quelle pagine (il ritmo e l’atmosfera di quelle pagine, non i dettagli, che ci informerebbero immediatamente, per esempio, che “il Mio Signore” del bambino-narratore in Alla grande! è la versione personalizzata di “Quel Signore” di nonna Cristina) non può non cogliere il fatto che, pur avendo un cognome diverso, chi ascolta nonna Cristina è il giovane Bastiano Casaccia, mattatore del primo libro, che chiaramente ha imparato da lei come si racconta una storia. All’interno del piccolo mondo dei suoi 12 anni, con una materia necessariamente limitata dalla mancanza di distanza temporale, Bastiano tratta le storie come nonna Cristina: le prende e le rimodella a suoi piacimento, ingigantisce dei dettagli e ne passa sotto silenzio altri, reinvesta e nobilita personaggi e altri li dimentica, guarda quel mondo dal suo personalissimo punto di vista e così facendo lo ricrea in una forma nuova. Non ci si deve infatti lasciare ingannare dalle numerose date sparse per il libro. Quello raccontato da nonna Cristina non è un tempo storico, scandito cronologicamente e oggettivamente ricostruibile. Quello delle storie di nonna Cristina è il tempo della mitologia che fluisce senza un prima e un dopo, si raggomitola su se stesso, perde qualche brandello per strada e si popola di personaggi che hanno ormai perso ogni ancoraggio con la realtà e diventano eroi di piccole ma roboanti battaglie, di dimenticate ma indimenticabili avventure. Quella di Purocielo è una mitologia piccola ma che va oltre gli eventi storici e che ognuno può ricostruire a proprio piacimento, nonna Cristina o la maestra Vittoria o il nipote neo-narratore.
Non è infatti un caso che proprio sugli anni della guerra si apra un «buco nero» nel racconto. L’omissione si verifica nel momento in cui l’enormità degli eventi, o la sofferenza ad essi sottesa, non può essere controllata dalle abili parole della narratrice, non può essere ricondotta all’interno di quel tempo mitico e favoloso entro cui rimettere a posto gli avvenimenti di una vita. Di fronte a ciò che non può essere compreso (o che non si vuole comprendere), nonna Cristina accelera, taglia, scorcia gli eventi nel modo più congeniale per farli rientrare nel suo disegno. E quando lo sforzo è vano, non solo di fronte alla guerra ma anche di fronte al divorzio dello zio Varo e alla sua “caduta”, l’unica risorsa è aggrapparsi ai nomi dei “supereroi” che avevano popolato le strade di Purocielo o quelle di Zurigo, personaggi che offrono l’appiglio per riportarsi a una storia conosciuta e famigliare. Ma sono, appunto, soltanto nomi, gusci vuoti di molluschi spesso mai conosciuti, vivi solo per uno sforzo di fantasia e un gioco di prestigio di parole. Se mi è permesso usare in un senso diverso le parole di nonna Cristina: non «roba di sangue», insomma. Ma irrinunciabili e salvifici. Come i personaggi dei romanzi.

Michele Righini

P.S.: Il Manuale del perfetto critico insegna a trattare l’autore come un’entità astratta, una “funzione del testo”, che non c’entra niente con la persona che ha materialmente scritto quelle parole. Ancora una volta, non «roba di sangue». Ho cercato di seguire questa “regola aurea” leggendo e “giudicando” Nel paese di Tolintesàc. Per riuscire a fare ciò ho chiamato Cristiano col suo cognome, per cercare di “distanziarlo” dalla persona che conosco da 30 anni, di svuotarlo di affetti, sentimenti, ricordi. Il nome del paese del romanzo, Purocielo, mi ha aiutato a tenere alla stessa distanza l’immagine di Casola. Ho cercato di dimenticare di avere assistito al funerale di una nonna Cristina che assomiglia molto a quella del romanzo. Ho perfino dovuto convincermi che «Lo Specchio» che anima le battaglie elettorali sessantottine non è lo stesso giornale sulle cui pagine sto ora scrivendo.
Ho fatto tutto questo a costo di perdere, e non riuscire a trasmettere in quest’articolo, alcune emozioni, personali e collettive, che il libro trasmette a chi conosce certe vicende un po’ più da vicino di un lettore di Caltanissetta.
Se ho fatto tutto ciò è perché credo che il lavoro di Cristiano lo meriti. Cristiano non è un raccoglitore di memorie, Cristiano è un romanziere, un “raccontatore di storie”, uno che inventa e gioca, uno che ha la funzione sempre più importante oggi di farci dimenticare la quotidiana realtà, di farci vivere in un altro mondo per lo spazio di 262 pagine. Perché dunque volere ad ogni costo infilare il nostro mondo in quelle pagine? Il lavoro di Cristiano merita di essere guardato con l’occhio obiettivo e anche severo del critico, non con quello appannato e offuscato dell’amico.
Ho ricercato la distanza e il rigore, ho dimenticato l’affetto e il ricordo.
Era l’omaggio più sincero e sentito che potessi fare al lavoro di Cristiano.

Michele
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