Mi ricordo così e così: che anno era?
Non c’erano acora i supermercati, credo, la televisione a colori non era ancora stata perfezionata e lasciava sbavature imbarazzanti, specialmente quando Moser in maglia rosa andava in fuga.
Nando Martellini faceva le telecronache della nazionale e tutti ascoltavano Miguel Bosè: alle case popolari, ogni santo giorno, lo sentivi cantare, neanche fosse venuto ad abitare lì.
Com’è che faceva? Camminiamo sul filo del cielo a più di cento metri dall’asfalto… più o meno. Io camminavo più in basso, di traverso più che altro, perché Galera, per motivi tutti suoi, ci teneva a menarmi ogni giorno, e cercavo di controllarmi sempre le spalle.
Pertini era presidente, di sicuro, ma Antognoni forse non era più in ospedale per via di quell’uscita sciagurata di Martina che gli aveva spaccato la testa.
Le Fiat Uno nuove e fiammanti incominciavano a invadere le strade, ma la macchina più bella del mondo, per me, era l’Alfa Sud gialla di S’Ciaflì.
Usava ancora nevicare, ogni santo inverno, e le scuole elementari erano rosse, con l’ingresso sui giardini.
Avevo sette anni e alcune certezze incrollabili.
Che non si poteva giocare a calcio in piazza Sasdelli, perché i vigili requisivano i palloni, e che le urla che sentivo per strada la notte, dal mio letto, probabilmente non erano i fantasmi ma i Fumogeni che giocavano a guardie e ladri.
Per stare sul sicuro, mi votavo ai miei due santi protettori, appesi alla parete di fianco a me: Eric Estrada dei Chips e Alberto Camerini non mi avrebbero mai abbandonato.
Sapevo di riuscire a recitare il rosario a memoria, di non sapermi fare il nodo alla cravatta – e la cosa non importava granchè, perché la prima che vidi fu a tredici anni – e che Poggio era il primo da scegliere se vincevi a pari o dispari. Era un dogma. Come il ‘palo è sempre palo’ di quando giocavi con i giubbotti a delimitare le porte, con la variazione di Lampadina che recitava: “Si, ma gol è sempre gol”.
Sapevo di non dover in nessun caso salire sulla vespa rossa con Gianì, specialmente quando aveva una balla di fieno legata al portapacchi, perché puntualmente ci saremmo schiantati contro il tabellone delle affissioni di Viale Neri.
E sapevo un’altra cosa.
Che il grande Piter Tozzi, in quell’inverno dell’81, non sarebbe mai riuscito a scendere con il suo bob per tutta la pista di Pagnano, dalla cima del monte fino alla strada.

Si era preparato a quella impresa per mesi.
L’aveva annunciato a tutti, a scuola.
A me aveva raccontato i particolari di quella sfida ogni giorno, quando veniva a casa mia, dopo cena.
Alle cinque e un quarto, puntuale.
Considerando che facevamo il tempo pieno, che la campanella suonava alle quattro e mezza e che lui abitava alla Calgheria, la cosa aveva del soprannaturale.
Il suo piano era astuto e audace.
Avrebbe risalito tutto il campo fino in cima al monte e si sarebbe buttato giù.
Non era niente male davvero.
Ma sapevo che non ce l’avrebbe mai fatta, perché era impossibile.
Quando finalmente nevicò, eravamo già pronti per andare a sbobbare.
Avevamo dei sensori che ci avvertivano in anticipo della neve, con una precisione che nemmeno Bernacca avrebbe saputo uguagliare. In più, Piter avrebbe sfidato l’impossibile.
Arrivai nel piazzale della Chiesa e c’erano già Poggio, Rigo e Bomba.
Nessuno diceva niente.
Aspettavamo e basta.
Arrivarono anche Gigi e Lorenzino Dardi.
Non provammo nemmeno ad avolare mia cugina, che ci accompagnava sempre.
Era un momento troppo importante.
Stavamo lì, immobili, tenendo a freno i nostri bob.
Poi arrivò.
Indossava una tuta da sci blu scuro, simile a quella di Fittipaldi, perfettamente attillata, guanti da saldatore che sembravano ricavati dalla pelle di cervo e un incredibile casco integrale da motociclista, rosso fuoco, di 5 misure più grande.
La visiera era alzata e ne uscivano sbuffi di vapore ad ogni respiro.
Si intravedevano solo gli occhi, simili a due tizzoni ardenti.
Sembrava un cavaliere medioevale prima della battaglia.
Determinato e spietato, giuro.
Un Crociato con una casco integrale al posto dell’elmo.
Le mie certezze cominciarono a scricchiolare.
Risalendo in silenzio verso la pista, le persi completamente.
Il grande Piter ci precedeva di qualche metro e contrariamente al solito non spiccicava parola.
A parte in Rocky 1, non avevamo mai visto tanta determinazione in un solo uomo.
C’erano due scuole di bob, a Casola, che si possono riassumere in una sola frase.
I comunisti sbobbavano a Belfiore, i Chiesani a Pagnano.
La nostra pista – da buoni chirichetti professionisti - era il campo che costeggiava il primo tratto di strada che portava a Oriolo, appena dopo il cimitero.
Veniva giù bello ripido per una sessantina di metri, ma la cosa più bella era l’ultimo tratto, dove bisognava chiudere gli occhi e saltare giù nel fosso.
Qualcuno aveva messo in giro la voce che nel ’79 Lampadina avesse saltato pari pari la strada e fosse finito nel campo dall’altra parte, a strapiombo sul fiume, e si fosse fermato proprio sul ciglio della riva dopo aver schivato in slalom un intero esercito di peschi congelati...
Era quella, fino ad allora, l’impresa più incredibile vista a Pagnano.
Ma avrebbe avuto le ore contate, perché il grande Piter prese a risalire la pista.
Sopra al campo c’era una grande casa colonica, il breve tratto piano dell’aia e poi il campo riprendeva ancora più ripido, fino a un boschetto sulla sommità.
Lo guardammo procedere in silenzio.
Io ero annichilito. Mi ero perfino scordato del maestoso bob Giordani nero che mi scalpitava al fianco.
Il grande Piter ne cavalcava uno rosso sbiadito, con le manopole e il sedile giallo.
Diventò un puntino blu in mezzo al bianco.
Risalì l’ultimo tratto della pista prendendola alla larga, per evitare la pendenza impossibile, e alla fine si riconosceva solo l’immenso casco integrale rosso, che ciondolava dallo sforzo.
Sembrava un omino del subbuteo e testa in giù.
Arrivato in cima, ci salutò con le mani.
Fu come un segnale, perché prendemmo anche noi a risalire.
Per vederlo meglio, credo, ma anche perché dopo quel po’ po’ di saluto, come se stesse partendo per il fronte, ci sembrava giusto andare a dirgli addio.

Quel tratto di pista era infernale, ripido come un muro.
Qualcosa di inviolabile. Probabile che nel boschetto ci fossero anche i lupi, e dietro si aprisse una valle sconosciuta, popolata di dinosauri sopravissuti all’estinzione.
Ci fu perfino lo strillo di una cornacchia, che lì per lì mi sembrò quello di uno pterodattilo.
Con un gesto da guerriero il grande Piter tirò giù la visiera, e gli sbuffi di vapore scomparvero.
Noi trattenemmo il fiato.
Eccolo lassù, solo contro il suo destino, armato solo di un bob e di un casco integrale gigantesco, probabilmente non omologato.
Ci sentivamo come gli Sherpa che accompagnavano il grande Messner allo conquista dell’Himalaya.
E il grande Piter Tozzi partì.
I primi due metri furono lenti e solenni, come lo strisciare di un coccodrillo salla riva del Nilo, poi accellerò bruscamente.
Non ci potevo credere.
Guardai gli altri.
Anche loro con la bocca aperta.
Il Grande Piter Tozzi era un fulmine rosso, e veniva giù così alla svelta che ti rimaneva impressa nella retina come una scia dietro al bob, tipo la coda di una cometa.
L’accelerazione e le irregolarità della neve gli sballottavano la testa da ogni parte: solo anni dopo, con l’invenzione della telecamera negli abitacoli delle macchine di formula uno, avrei rivisto i movimenti di quel casco rosso, come quando si curva a 200 all’ora e la forza centrifuga ti vorrebbe scagliare dall’altra parte del mondo.
Ragazzi, filava come il vento.
Il grande Piter Tozzi avrebbe domato il campo, dall’inizio alla fine.
Ce la stava facendo, e io incominciai a capire l’inutilità delle certezze: tutto il mondo mi si rimescolava nello stomaco e immaginai come sarebbe stato bello averne uno a testa in giù, con gli orologi che girano al contrario e macchine che sputano aria fresca dagli scapamenti.
Stupefacente.
Tutto sarebbe stato splendido.
Forse Galera non mi avrebbe più picchiato.
E magari per una volta sarei riuscito a scartare Poggio.
Chissà, magari Nonno avrebbe imparato a mettere la seconda solo dopo aver tirato la frizione, e non il contrario, e le aule delle scuole si sarebbero riempite di studenti adulti e di bambini come insegnanti.
Sarebbe stato un mondo perfetto, radioso, se il Grande Piter Tozzi non avesse dimenticato la barriera di rovi in fondo al campo, coperta di neve, e al massimo della spinta, poco prima del tratto piano che lo avrebbe portato all’ultimo pezzo di pista, ci fosse piombato dentro, sprofondando per metri come in una trappola.
Ci mettemmo due ore a toglierlo da lì dentro.
Era come la bella addormentata nel bosco, circondata dai rovi, solo che era sdraiato su un bob rosso pallido e indossava un gigantesco casco integrale, che ci aveva aiutato a localizzarlo in mezzo a tutto quel bianco, come una immensa boa in mezzo al mare.
La visiera era completamente appannata e la tuta a brandelli.
Dopo un po’ riuscì a parlare, con un filo di voce, prima di lasciarsi cadere esausto a terra.
‘Andiamo a giocare a pallone’, disse.
Non so se è andata così. Ormai non sono più certo di niente.
E questo è un bene, perché ci sono ancora molte cose che mi lasciano a bocca aperta.
E’ stato il Grande Piter Tozzi a insegnarmi l’arte di dubitare.
E anche se i ricordi sono di un materiale particolare, simile a quello dei sogni, che tende a sgretolarsi col tempo e a cambiare forma, spesso a scomparire, posso assicurarvi che non ho mai più visto niente di così eroico in vita mia.

Cristiano Cavina
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