SUL PARTICOLARE TIPO DI OMICIDIO (inteso come atto finalizzato alla soppressione della vita umana) DETTO ALTRIMENTI ABORTO
Carissimi, intervengo ancora una volta sull’argomento in questione facendo seguito ai commenti inviati dall’amico FabioBittini e dall’anonima scrittrice “76”. Rispetto di Fabio il coraggio di firmare ciò che scrive, e faccio un po’ di esercizio di carità per comprendere il riserbo e l’imbarazzo di chi, come la corrispondente “76” preferisce rimanere dietro il paravento di una sigla.
In fin dei conti questi sono dettagli, ciò che conta è la sostanza del problema e sulla sostanza del problema, nella misura e nelle argomentazioni espresse nel mio intervento “Ditemi se questo non è un omicidio” già pubblicato su questo sito, non ho nulla da aggiungere e da togliere.
Carissimi, intervengo ancora una volta sull’argomento in questione facendo seguito ai commenti inviati dall’amico FabioBittini e dall’anonima scrittrice “76”. Rispetto di Fabio il coraggio di firmare ciò che scrive, e faccio un po’ di esercizio di carità per comprendere il riserbo e l’imbarazzo di chi, come la corrispondente “76” preferisce rimanere dietro il paravento di una sigla.
In fin dei conti questi sono dettagli, ciò che conta è la sostanza del problema e sulla sostanza del problema, nella misura e nelle argomentazioni espresse nel mio intervento “Ditemi se questo non è un omicidio” già pubblicato su questo sito, non ho nulla da aggiungere e da togliere.
Solo per amore di chiarezza e di verità e, per quanto riguarderà l’ultima parte di questo mio intervento, di ragione (intendendo con ciò il faticoso impiego dell’intelligenza nello sforzo di giungere al difficile discernimento delle cose, così come esse sono e non come ci piace di immaginarle) e non certo di preconcetto ideologico, desidero precisare e sottolineare ancora qualche aspetto.
Entrambi gli interventi, sia di Fabio che dell’anonima “76”, sono fortemente appuntati sulla compassione per un solo soggetto del dramma “aborto” , ovvero la madre alle prese con il suo dolore interiore, e molto caratterizzati sul versante del sentimento.
Nel mio intervento avevo precisato ed espresso a chiare lettere che non intendevo assolutamente ergermi a giudice di nessuno, ne giudicare nessuno sul piano personale, non solo per quanto riguardava la madre, ma anche, infine, per quanto riguardava i medici, anche se per essi devo ammettere che glissare sull’eticità della loro scelta professionale mi risulta assai più difficile.
Ciò che mi premeva era far emergere quella realtà dura e cruda delle cose che troppo spesso viene offuscata, nascosta, mistificata da un profluvio di parole ipocrite e di sentimentalismi non sempre disinteressati (basti andare a rileggersi a tal proposito la campagna di stampa che precedette la legalizzazione dell’aborto, tutta incentrata sulla drammatizzazione di pochi casi estremi , veramente penosi e difficili, e verificare ciò che è invece la realtà attuale della pratica dell’aborto, come essa si esplica nelle sue fasi preliminari nei consultori e come, con facilità estrema, si possa ricorrere ad esso anche per motivazioni assai banali e tutt’altro che drammatiche).
A proposito del gioco delle parole, non posso far a meno di osservare e di far osservare che la descrizione in toni drammatici, con i particolari dell’eventuale intervento chirurgico da praticare sul nascituro, riportata nella lettera della madre che scrive al quotidiano Repubblica, si può applicare a qualsiasi intervento chirurgico, che per sua natura è sempre una operazione di una certa cruenza ed invasività ma non per questo se ne trae motivo per preferire di lasciar morire chi ne abbia necessità, piuttosto che applicarla.
Tutto ciò per confermare come con l’uso opportunistico e distorto delle parole si possa distorcere la visione e la percezione di un problema
Per questo invitavo, nel mio intervento, ad impegnarci tutti in una operazione veramente rivoluzionaria e cioè cominciare a chiamare le cose con il loro vero proprio nome e per questo ponevo il quesito “Ditemi se ciò non è un omicidio”
Poi però tutte le volte che si affrontano argomenti di particolare gravità ed impatto drammatico salta su qualcuno che pone la domanda fatidica: - Tu cosa ne sai del dramma personale di chi ha agito in questo modo? – E qui dovrebbe arrestarsi ogni considerazione.
Ora potrei convenire con questa impostazione se l’intento fosse quello di giudicare una persona, cosa che ripeto non mi compete e neppure voglio fare. Non solo la mamma che nel caso in discussione ha fatto quella scelta drammatica, ma anche nessun altro, sia pur implicato nei più efferati delitti, non è la responsabilità o la bontà, o la malvagità personale del singolo che mi interessa, tutto ciò attiene, per quanto mi riguarda, alla sfera dell’esercizio della carità responsabile a cui sono chiamato a rispondere come fratello di tutti nell’umanità ed in modo particolare come cristiano. Per il resto ci sono i tribunali ed io fortunatamente non sono un giudice.
Il problema dunque non è questo, il problema è che la compassione e la carità non possono essere i paraventi dietro cui si mistifica la verità, così come la disperazione di un singolo non può rappresentare la traballante e subdola passerella di cui la società si serve per giustificare il suo approdo sui lidi di una visione perversa ed alienata della vita e della realtà, che agli occhi appannati e fuorviati dalla visione utilitaristica imperante nella nostra società può apparire la più semplice, meno dolorosa e più caritatevole da praticarsi ma che è in realtà gravata dall’intollerabile ed ineliminabile difetto di risultare nei fatti , nella sua essenza e nelle sue motivazioni di fondo la più disumana
Per inciso vorrei tuttavia far osservare che il sottoscritto sapientone purtroppo, o per fortuna (a seconda di come si sono risolti i casi) qualcosa di concreto e non di solo sentito dire ne sa dei drammi che girano intorno all’argomento ed è proprio per questo che il sottoscritto non riesce a stare zitto.
Piuttosto, a chi chiede : - Che cosa ne sai tu della realtà dell’aborto?- Vorrei chiedere, sempre per inciso e sempre per restare anche solo sul piano dei sentimenti mettendomi però, una volta tanto dalla parte di chi non può parlare:
- E voi, , cosa ne sapete della realtà dell’aborto? Ne sapete qualcosa? Vi siete chiesti cosa provi un esserino vivo ad essere ucciso nel ventre della madre, a volte smembrato, o magari ad essere strappato vivo e lasciato agonizzare senza assistenza (come freddamente prospettava un illustre clinico nelle settimane scorse, chiedendosi se le norme attualmente in vigore, che prescrivono comunque l’obbligo di tentare la rianimazione per i piccoli abortiti vivi, avessero un senso) ?
Vi è capitato di dare una occhiata a qualche rapporto di medicina in cui vengono descritte le reazioni del cosiddetto feto durante gli interventi cosiddetti di interruzione di gravidanza e che, man mano che le conoscenze avanzano, emergono con sempre maggior rilevanza?-
Evidentemente ciò che si legge in molti rapporti è molto diverso dalle informazioni rassicuranti che a dire della madre che scrive nell’articolo di Repubblica, raccontano alcuni medici (fine dell’inciso).
Tornando a noi la realtà cruda, al di là del tono e dall’accento con cui si vogliono sottolineare le varie argomentazioni è che dei due soggetti interessati (ma poi vi sono altri soggetti che non vengono mai menzionati e che la legge sull’aborto taglia drasticamente fuori, il padre ad esempio) uno, la madre, continua a vivere, sebbene con i suoi drammi interiori, l’altro invece viene ucciso.
La realtà cruda è che il piccolo essere vivente non ancora uscito dal grembo della madre viene considerato un essere di serie B nei confronti del quale, a determinate condizioni (molto facili a verificarsi), vi è licenza di uccidere a discrezione.
Questo è il punto discriminante, questo è l’aspetto su cui si deve esercitare la nostra capacità di discernimento, di giudizio e, a mio avviso di condanna.
E’ fin troppo facile osservare che gli argomenti compassionevoli, sulla base dei quali, in ordine a queste cose, si vorrebbe addirittura imporre il silenzio e chiudere ogni discussione fastidiosa e spiacevole, si potrebbero allora tranquillamente applicare con le stesse motivazioni a quei genitori che, depressi o esasperati per la malattia di un figlio, finiscono per ucciderlo (e non sono pochi i casi), o viceversa a quei figli che per gli stessi motivi sopprimono un genitore.
E’ a questo il traguardo a cui vogliamo arrivare, è questa la prospettiva della nostra misericordia?
E se non è questo ciò a cui vogliamo arrivare, allora perché si distinguono e discriminano i diversi casi? E’ forse sulla base della minore o maggiore apparenza dei vari soggetti, visibili gli uni (gli adulti), quasi invisibili (ma solo agli occhi grossolani di menti distratte) gli altri (i nascituri)?
Su argomenti come questi, una cosa è , sul piano della colpevolezza personale (che ripeto non mi permetto assolutamente di voler giudicare, perché non mi compete), voler tenere giustamente conto delle attenuanti, altro conto invece è finire con il sorvolare sulla gravità di certe scelte ed infine giustificare delle prassi disumane (nel senso di negazione del valore della umanità) che hanno il deprecabile effetto finale di condurre ad una sterilizzazione e ad un inaridimento della coscienza a cui , come riferimento unico e ultimo resta il solo fine utilitaristico della vita.
Vogliamo ignorare il fatto che nel caso dell’episodio del piccolo di Firenze, a quanto ci è dato sapere, non si è ritenuto vincolante e necessario nemmeno l’espletamento di tutti gli esami clinici atti a verificare con certezza la presenza di malformazioni gravemente invalidanti nel nascituro? Non è questo forse un grave sintomo di come, nella coscienza e nella comune percezione delle cose, si stia scivolando (ma a mio avviso siamo già molto avanti su questa pericolosa china) verso una sempre più diffusa accettazione di scelte di morte giustificate dalla necessità di semplificarci la vita?
Grazie per l’ospitalità
Alessandro Righini