Un bimbo di 22 settimane, 5 mesi e mezzo, viene legalmente abortito, perché sospettato di essere malformato, da una madre, che, si dice, non abbia neanche accettato di sottoporsi a tutti gli esami ritenuti utili, con l’aiuto ed il beneplacito delle pubbliche istituzioni.
Il bimbo, estratto dalle viscere della madre invece, a dispetto di tutte le approssimate previsioni, è sano e continua a vivere autonomamente, sebbene per pochi giorni, affermando così in modo drammatico il suo diritto alla vita e smascherando, con la forza della verità dei fatti, tutte le mistificazioni e le bugie (fatte passare per scelte di civiltà), le perfidie di chi ammanta le scelte di morte (che si fanno sempre più variegate, insinuanti e invadenti di ogni aspetto della vita) con un velo di ipocrita pietà.
Ma, mi chiedo io, che differenza ci sarebbe stata se anche il bimbo fosse stato realmente malformato? Sarebbe stato meno tragico e orribile e più giustificabile il gesto della madre e dei medici che accettano di svolgere questo compito infame?
Davvero è dato all’uomo di poter scegliere chi ha diritto alla vita o no? Su quali basi?
Non si attribuivano gli stessi diritti gli scienziati pazzi e paranoici che in un recente passato assecondavano le idiosincrasie criminali di Hitler e giustificavano la soppressione, oltre che degli appartenenti alle cosiddette razze inferiori, anche degli handicappati e dei malformati (aspetto questo meno ricordato e sottolineato nelle manifestazioni che si propongono di non far scemare il ricordo di quegli orrori)?
La differenza sta forse nel fatto che adesso l’uomo si è dato licenza di uccidere gli handicappati di nascosto, nell’ombra del seno di una madre, prima che si mostrino con tutto il peso della loro imbarazzante evidenza?
Mi ricordo esponenti radicali, ed altri apparentemente più pensosi e mielosamente moderati, parlare a proposito del cosiddetto “feto”, (che a tutti gli effetti è un essere umano autonomo nella misura in cui lo può essere un essere umano nei vari stadi della sua esistenza, ed unico), definendolo “ancora un oscuro grumo di cellule e sangue” e definendo “una scelta di civiltà” le giustificazioni della sua soppressione.
Ma ecco che la vita, la verità, la natura, anche se soffocata, prima o poi è destinata ad emergere con la propria forza, la propria realtà, con il pugno allo stomaco della sua evidenza.
Io non ce l’ho con la madre sventurata che ha deciso di fare questa scelta ed ora, immagino, sta sopportando tutto il peso devastante del rimorso per il gesto compiuto, ce l’ho certamente molto di più con i medici che accettano di fare gli eliminatori, anziché il loro mestiere di guaritori.
Fatevi raccontare da qualcuno che abbia il coraggio e lo stomaco di dirla nuda e cruda qual è la realtà di una sala dove si praticano aborti, (io qualcosa me la sono fatta dire) specie quelli definiti, con sublime ipocrisia, “terapeutici”, con nascituri già in età avanzata (dico motivatamente “età” e non “stadio di maturazione” perché in effetti noi nasciamo nel momento in cui veniamo concepiti e non quando usciamo dall’utero di nostra madre: l’età anagrafica è solo una convenzione degna di una società ancora arretrata e barbara, giustificata solo per un tempo in cui non si conoscevano compiutamente i processi di formazione della vita dell’uomo).
Ma anche per i singoli medici mi guardo bene dal voler essere giudice, non sono le colpe del singolo individuo che mi interessano dal momento che non sono in grado di penetrare nel segreto di una mente o di un cuore (chi sono io, con le mie miserie, per giudicare), io ce l’ho invece e soprattutto con una mentalità infingarda e dissennata che viene sempre più imponendosi sulla base di un mistificante stravolgimento della realtà fattuale e che si esplicita da un lato spingendo oltre i limiti del ridicolo e del grottesco, la relativizzazione delle più palesi e concrete evidenze della realtà umana (vedi appunto il concetto di vita, la distinzione dei sessi e via dicendo) e dall’altro enfatizzando, gonfiando e drammatizzando le più strane, spesso patologiche, singole aspirazioni, facendole apparire come scelte di modernità e civiltà e di grande preminenza, dimenticando che in realtà, nella loro stragrande maggioranza, si tratta di pratiche e attitudini barbare ed ancestrali (un po’ di lettura della storia ed un po’ di lettura della Bibbia, che non è proprio un best seller dell’ultima ora, non farebbe male) dalle quali si pensava che l’uomo con il proprio discernimento, con la propria intelligenza e magari con l’aiutino di qualche ispirazione non propriamente ed esclusivamente umana, pur con grande fatica, si fosse emancipato.
Io credo che sia necessario, ed ormai indispensabile, che chi ha a cuore queste cose non debba più limitarsi ad agire solo di rimessa, giocando solo in difesa. Io credo che sia giunto il momento di cominciare a prendere una iniziativa rivoluzionaria, quella che è sempre stata la più rivoluzionaria di tutte, quella cioè di chiamare le cose con il proprio vero nome, così da smascherare le ipocrisie e le infingardaggini che ci stanno trasformando in una società di idioti o di inconsapevoli beoti.
Non si tratta di essere intolleranti, guai mai. Noi ci facciamo carico di tutta la comprensione, la pietà e la carità (intesa nel suo senso più alto) possibile, questo in relazione ai singoli individui ed alle loro, a volte tragiche, problematiche, ma per quanto riguarda i fatti in sé e le basi su cui impostare le regole della società dobbiamo essere chiari e fermi, e voi ditemi, anche alla luce terrificante e tragicamente illuminante dell’evento che ha determinato questa riflessione, se non si possa affermare con lucida chiarezza che l’aborto è l’equivalente di un omicidio?

Alessandro Righini
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