Fabio Donatini firma una nuova regia, un documentario dal titolo San Donato Beach. Prodotto da Zarathustra Film, è stato presentato all'ultimo Torino Film Festival, riscuotendo un successo andato ben oltre le aspettative. Se volete vedere il trailer lo trovate qua: https://www.youtube.com/watch?v=p2m-y0h8PIE. Di seguito alcune considerazioni, anche personali, se invece volete capire di cosa parla trovate un sacco di recensioni in rete.
Sono certo che tutto sia iniziato nell’estate del 2003, estate dolce per alcuni versi (che non sto qui a dirvi) e famigerata per altri che invece vi dirò. Quell'anno iniziò quel caldo folle che prima non esisteva e che invece adesso è normale nei mesi estivi. Iniziò il due maggio 2003 (quindi tecnicamente non era nemmeno estate...) e non mollò il colpo fino a fine settembre. Sono certo che tutto sia iniziato allora perché io c’ero, io abitavo in San Donato quell’estate, avevo una nuova morosa (alla fine vi dirò anche perché fu un’estate dolce se vado avanti così...) e tre coinquilini: Albo, che dormiva con la testa nel terrazzino di 80 cm quadrati per combattere il caldo, Lori, con il quale ci disputavamo l’uso dell’unico sgangherato ventilatore di casa, e Fabio che adesso su quel caldo ci ha fatto un film.
Secondo me anche l’idea di questo film ha iniziato a frullargli in testa in quella torrida estate di 17 anni fa, una delle prime trascorse a San Donato. Si deve essere reso conto già allora che non rimane molta gente in agosto in quel giro di strade che sta subito al di là del ponte: via Amaseo, via Galeotti, piazza Mickiewicz... Un discount, un bar a fare da punto di riferimento e, come dice Patrizia all’inizio del film, un gran caldo.
Quando in un posto è molto caldo, o molto freddo, la gente tende ad andarsene. Pensate al deserto che di giorno è caldo caldo e di notte freddo freddo, non ci sono molte cose nel deserto. Quindi le poche cose che ci sono si notano, emergono, colpiscono l’occhio di chi lo osserva (e magari ci si ritrova dentro per caso, errore, necessita, o perché si è perso). Se va bene quello che si nota in lontananza è un’oasi. Nella maggior parte dei casi invece è un cactus. Che ha comunque una sua utilità, ci insegnano i western. Credo che sia successa la stessa cosa con questo film: Fabio, bloccato nel caldo agostano di San Donato, ha notato i cactus, le poche persone rimaste in quello stretto giro di vie. Persone, non personaggi, che normalmente si mimetizzano fra la folla ma che in quel deserto spiccavano come cactus. Con le loro spine e con una scorta d’acqua chiusa dentro di sé, invisibile per tutti quelli che non hanno la voglia, il tempo, la curiosità di farci due chiacchiere. Fabio, lo credo io poi dirà lui se è vero, ha semplicemente inciso quei cactus (poi la smetto con questa similitudine, promesso) per fare sgorgare le loro storie. Non li ha intervistati, è rimasto lì ad ascoltarli mentre parlavano e raccontavano. Il fatto che avesse con sé una telecamera e qualcuno che gli desse una mano a girare (“una troupe ridotta al minimo e attrezzatura leggera”, dicono le note inviatemi dall’ufficio stampa) era un dettaglio di fronte all'urgenza di potere raccontare, per la prima volta, le proprie sfortune, i propri rimpianti, le rare gioie e le scarse ma tenaci speranze.
C'è Patrizia che anni fa è stata ospite al Maurizio Costanza Show, c'è Andrea che rimpiange le partite a calcetto all'infanzia e la morosa con cui “faceva tante cose” e che lo ha lasciato non sappiamo perchè, c'è Reza che viene da lontano e ne ha passate tante per ritrovarsi in una situazione di disperazione non troppo dissimile da quella da cui è fuggito.
Non penso che vada buttata in sociologia urbana. C'è la desolazione delle periferie che però non riesco a contrapporre al luccichio del centro – che a Bologna, negli ultimi anni, in agosto è un formicolio di turisti in verità poco invitante. Compaiono gli alti condomini un po' squallidi che però citando grandi registi – almeno Antonioni e Pasolini che a sua volta ironicamente cita Antonioni in una inquadratura che mi è rimasta impressa – vanno oltre il dato fattuale e rimandano al vero nocciolo del lavoro, che è il desiderio di raccontare la solitudine. Delle persone che si raccontano, naturalmente, ma con uno sguardo ben più ampio su una condizione in cui tutti potremmo trovarci. Anzi in cui tutti ci troviamo, prima o poi, per almeno un periodo della propria vita. Non è che questa cosa della solitudine la dico io, sia chiaro, l'ha detto Fabio nelle interviste che si trovano girando in rete, è dichiarato nelle schede di presentazione del film. Ma va ribadito: si tratta di un racconto sulla solitudine, sugli effetti che questa può avere sulle persone, su come gli eventi della vita ti possono costruire un deserto intorno. San Donato in agosto ha offerto a Fabio il set per raccontare tutto ciò.
Insisto sulla parola “raccontare” perché San Donato Beach è certamente un documentario, che però non vuole insegnare, spiegare, analizzare. Vuole narrare una condizione umana e come ogni narrazione assume un suo punto di vista, lo sceglie e lo costruisce. Fabio è rimasto ad ascoltare i racconti, abbiamo detto, ma questo non significa che non abbia dato una propria interpretazione, non abbia calato la propria poetica su quei racconti (o viceversa). Non c'è niente di impersonale e di asettico nel modo in cui queste storie vengono raccontate. L'esempio più evidente credo stia nella scelta della colonna sonora, che chi conosce il percorso di Fabio come regista, prima nei suoi studi poi nei suoi lavori, non può non riconoscere come una cifra stilistica ben precisa. Le “canzonette” italiane degli anni Sessanta, non tanto le hit ma brani quasi dimenticati, quelli che tutti abbiamo sentito almeno una volta ma di cui non conosciamo titolo, autore, nulla. Hanno avuto un passato glorioso ma ora se ne stanno relegati negli scantinati della memoria, ancor più malinconici proprio per avere vissuto momenti in cui erano, letteralmente, sulla bocca di tutti. Fabio ha ascoltato questi brani come ha ascoltato gli abitanti di San Donato. Ma non ci si inganni, non ha ridato nuova vita né alle canzonette né alle persone, non era quello lo scopo del racconto. Pochi giorni dopo che avrete visto San Donato Beach avrete dimenticato canzonette e persone. Questa è la maledizione, che vale per tutti, non solo per loro. Se proprio vogliamo trarne un insegnamento, ma non è obbligatorio, ricordiamoci di questo.
Michele Righini