Ho l’impressione che di quarantena sentiremo parlare a lungo, che sia l’argomento caldo non solo di questa ingrata primavera, colma di un sole che ci è negato, ma anche della prossima estate. Probabilmente, se vorremmo andare al mare lo dovremmo immaginare.

Già perché non importa quante restrizioni andranno ad allentarsi d’ora in avanti: il nostro stato di salute – la salute civile di ciascun popolo in questo periodo storico – è quello di chi ha preso un’influenza esagerata e non può muoversi dal letto (è pur vero che di virus stiamo parlando). E per quanto si senta volenteroso di uscire e di spaccare il mondo, il paziente deve essere tenuto in osservazione ancora per qualche giorno (ciò che per noi equivale a parecchi mesi di riposo). Questa è l’attuale condizione di un Paese insofferente e malconcio – il nostro – nell’attesa di essere dimesso dal proprio lettino d’ospedale al più presto. Forse un po’ troppo fiducioso: non è ancora il momento di cedere all’irrequietezza della libertà.
In situazioni di pericolo, la vita organica mette in atto un meccanismo di difesa chiamato “sistema immunitario”. Tornando alla metafora del paziente d’ospedale, piuttosto attuale, il nostro paese non è poi così diverso dall’organismo umano. Si potrebbe infatti immaginare (senza banalizzare) che il personale sanitario equivalga ai nostri agguerriti leucociti, i quali, nelle loro divise bianche, sono specializzati a seconda della loro funzione difensiva; che le persone “coagulate” in casa siano come le piastrine, che prevengono il contatto con agenti patogeni esterni (anche se il Covid-19 si manifesta con i sintomi del raffreddore), mentre il resto delle persone che continuano a lavorare corrisponda all’insieme delle risorse necessarie per sostenere l’integrità del corpo.
Nel nostro stato di convalescenza, che ci separa ma ci accomuna, che ci assimila e al contempo ci allontana, siamo costretti a fare i conti con noi stessi, per la prima volta dopo molto tempo.

Ci sono momenti rari della storia in cui una comunità d’un tratto si percepisce interamente come singolo. E alla base di un tale fenomeno agiscono sempre e principalmente i sentimenti umani. Infatti, se l’unità di un paese si può ottenere dalla coercizione o dalla coesione sociale, tuttavia è solo dal XX secolo che abbiamo finalmente capito una regola fondamentale: veicolare i sentimenti delle persone attorno ad un progetto politico oppure ad un capo carismatico è molto più redditizio che reprimerli nel sangue. Nel caso dell’Italia, questo tipo di coinvolgimento è sicuramente avvenuto per l’Unificazione del 1861 (voluta dagli intellettuali e dai signori), in seguito per l’iniziativa bellica del 15-18 (per la quale una minoranza “chiassosa” ribaltò la volontà del Paese), quindi nei confronti dell’ideologia fascista e del suo capo supremo, infine azzarderei dire che gli anni del miracolo economico (50-60), della FIAT 600 e della Vespa, del cinematografo di Fellini, della Rai e di Mike Bongiorno, abbiano contribuito a plasmare l’immagine dell’Italia nella mente dei suoi cittadini, esportandola nel mondo.
Certo, tendiamo a sperimentare la nostra cittadinanza giorno dopo giorno, ogni volta che andiamo al lavoro, quando paghiamo le tasse, mentre ci rechiamo alle urne. Ma quand’è che ci siamo più sentiti veramente una cosa sola?
Questo, però, non vuole essere un argomento a favore di una qualsiasi forma di nazionalismo, ancora dilagante nei circuiti partitici o nei chiassosi salotti di Rete 4, quelli condotti da opinionisti che si divertono a fare i saltimbanchi in prima serata. Anzi, il vero grave problema è proprio quello di aver finora politicizzato il Covid-19, ossia di averlo reso una questione di confine. Eppure il virus non pone limiti territoriali, li valica; non porta una bandiera sulle spalle, ma ne sgualcisce i colori e ne calpesta le geometrie.

 

Vedendo come stanno andando le cose in Europa e nel mondo, allora mi sorge un disappunto: non dovremmo “pensare” come il virus? Cosa c’entra in fondo la politica e l’ideologia nel contesto dell’emergenza sanitaria?
Isolati nelle nostre case, messi al muro dal timore di un contagio, non siamo distinguibili: siamo uguali. A tenerci stretti, seppur da lontano, non è infatti il sentimento nei confronti di un qualsivoglia credo politico, ma l’istinto di sopravvivenza, che in termini di humanitas – quella del commediografo Terenzio, nella sua radice ellenica – si traduce in un puro sentimento di pietà. Incontaminato.
Io rido e mi dispiaccio di fronte a frasi del tipo: «Ce la faremo perché siamo italiani». Ma non è perché siamo italiani che ce la dobbiamo fare. E la politica dovrebbe lavorare unita, attenuando i contrasti tra maggioranza e opposizione, mettendo da parte le divergenze, legiferando una sorta di temporaneo “patto dell’oblio”.
Mi duole ancor di più pensare che l’Europa che abbiamo tanto idolatrato stia perdendo la battaglia virologica. Non perché è inferiore al nemico, sia chiaro, ma perché non usa le vere armi che possiede. Ed è triste pensare che a rimetterci sia soprattutto (e paradossalmente) la generazione dei nonni e dei padri, che l’Europa l’hanno vista nascere e costruire. Possibile che a nessuno venga in mente?
Ad ascoltare le parole di papa Francesco, che durante la benedizione della santa Pasqua ha richiamato il continente intero alla coscienza, sono indotto a pensare che, mentre di Europa si parla tanto, di Unione non si parli affatto. Al contrario, ogni paese sembra salvaguardare in primo luogo la stabilità del proprio mercato finanziario, mentre dove ci si aspetta grande solidarietà tra le nazioni, troviamo invece l’irresistibile baratro del debito pubblico.
Va a finire che per custodire quel famoso Graal su cui si fonda la nostra economia, il capitale, sarà proprio l’economia a vacillare, specie quella dei più piccoli e dei modesti, che di capitale hanno solo l’illusione.
In definitiva, quella che si dipinge come una grande occasione per la contemporaneità pare tramutarsi nel solito conflitto di interessi. La pandemia sta facendo emergere molti limiti e debolezze degli organi istituzionali e sovra-statali, mettendone a rischio la credibilità per il prossimo futuro.

Quando l’Inno di Mameli rompeva il silenzio delle strade d’Italia per rappresentare l’unità del paese lo scorso marzo, ho teso l’orecchio senza ricevere quasi nulla in cambio. Mi sono invece emozionato ascoltando le note di Ennio Morricone, suonate dalla chitarra di un ragazzo al di sopra una Piazza Navona deserta, oppure alla dedica che Sting ha fatto nei confronti del suo «paese preferito». Ciò che vorrei restasse di queste righe è che non ci dobbiamo sentire italiani per sentirci vicini, e così deve valere per gli altri popoli e le altre nazioni. Nel mezzo di un dramma che si è rivelato avere i caratteri di una pandemia, sconvolgendo la vita di milioni di persone, forse, per una volta, dovremmo scordarci di quei confini ideali, smettere di essere frammentati e spalleggiarci come in un unico grande organismo.
In conclusione, mi auguro sia questa una lezione per l’umanità, con un particolare riserbo alla dimensione della vita e della natura, che non deve essere dominata ma preservata, prima che qualche “mostro” torni nuovamente a rammentarci quale sia il nostro posto.
Perché di questo mondo siamo gli ospiti, non i padroni.

Lorenzo Sabbatani

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