Con un salto nel vuoto. Così è nata la Spereologica Scuderia Saknussen. E mi piace chiamarla proprio con il nome storico. Inclusa la r al posto della l.
Il salto nel vuoto lo feci personalmente. Me ne ricordo bene. A salvarmi la vita fu Biagio naturalmente.
Giovani e incoscienti esploratori, ci aggiravamo per la vena dei gessi muniti di un rampone a quattro denti. Fatto con del fi 8 da edilizia. Ribattuto a dovere da Biagio alla Max Sagesser. Nell’anello di ferro, saldato dalla parte opposta dei denti, passava la corda annodata. Canapa rigida. Tipo quella di un fachiro indiano arrampicatore, tanto per intenderci. Più o meno dieci metri di lunghezza.
Lanciato il rampone verso l’alto per agganciare il muro di gesso, chiedevo speranzoso:
- Tiene? -
Biagio tirava la corda con due o tre strappi leggeri. Poi enunciava il solito “Tiene, tiene!” Quasi credendoci.
A volte, quando arrampicando a forza di braccia conquistavamo la cima, ad aspettarci in alto c’era la sorpresa di ritrovare il rampone afferrato, magari con un solo dente, ad una minuscola sporgenza della roccia.
- Ha tenuto! - diceva Biagio. Senza guardarmi negli occhi. Per evitare di dover confessare un “Os’cià che culo!”
Ma la vita non la rischiai in salita.
Volevamo esplorare un inghiottitoio bello profondo che ci aveva fermato qualche giorno prima. A causa della corda troppo corta.
Scendemmo i primi venti metri, storti e sbilenchi, fino a trovarci nel buio. Poi una breve sosta in un corto piano per organizzare le torce elettriche. Biagio si fece passare la corda dietro la schiena per reggermi. Iniziai la discesa verso la sconosciuta gola. Senza alcuna sicurezza. Aggrappato al canapo solo con le mani. Questa volta la lunghezza della corda sarebbe bastata... forse. Ne avevamo annodati tre spezzoni per arrivare ad una cinquantina di metri.
Anche se allora ero in perfetta forma fisica e pesavo 55 magrissimi kili, vi assicuro che non è facile penzolarsi nel vuoto tenendo con una mano la corda e con l’altra la torcia. Fatto sta che, scivolata via la torcia, il tentare di riprenderla al volo sfidando la gravità mi costò la presa anche dell’altra mano.
Cominciai a precipitare verso il baratro verificando di persona la dilatazione del tempo che molti descrivono quando si fronteggia la morte da vicino. È sicuro che precipitai per non più di un secondo… a me parve almeno un minuto.
Poi, nel tenebroso cadere, sentii un urlo: - PRENDITI -
Un urlo forte e non ripetuto. Non ce ne sarebbe stato il tempo. In quello stesso istante sentii la corda sfiorarmi il viso mentre fuggiva via veloce. Interamente contenuto dentro un buio senza limite, alzai le mani e d’istinto l’afferrai. Così, alla cieca.
Un violento strattone. Rimbalzando indietro, atterrai in un provvidenziale e miracolosamente posizionato pianerottolo. Non più ampio di un mezzo metro. Tuttavia sufficiente a fermarmi.
Alle mani, che avevano frizionato sulla corda per qualche metro, sentivo il caldo umido dovuto all’ustione sanguinolenta. Istintivamente le portai al viso. Quasi a verificare, con il tatto delle guance, il danno procurato dalla frenata. Sentii la vampa e il sangue caldo entrarmi negli occhi.
Intanto Biagio, che per fortuna e con una fiducia estrema aveva tenuto il “cuccio”, dall’alto continuava a gridare: - De…De... De…! -
Lo rassicurai con un “vacca boia che male”.
A tastoni recuperai la corda che ancora pendeva a un braccio di distanza da me. In qualche modo mi legai… Biagio tirò su 55 inerti kili a forza di braccia. Quando infine mi puntò la torcia in faccia, la maschera insanguinata gli fece una gran paura. Ma la faccia non aveva proprio niente… messe male erano le mani. Recuperai in qualche settimana.
Chi ha visto da vicino quel buco, ha assicurato che non c’era scampo: non mi fossi preso al canapo, la mia caduta sarebbe finita venti metri sotto. Fermata da sassi e cristalli che di certo non mi avrebbero lasciato la vita.
In quella grotta non ci ho mai più messo piede.
Biagio è sempre il mio grande amico.
Pier Ugo Acerbi