Un pellegrinaggio non finisce nel momento del ritorno a casa. Finiscono in quel momento le grandi emozioni e le eventuali grandi fatiche - innegabili se il pellegrinaggio di cui si parla è un viaggio di 800 km a piedi, da Saint Jean Pied de Port a Santiago di Compostela, una delle più antiche e suggestive vie sacre alla religione cattolica - ma non finisce lo spirito che i pellegrini portano con sé e che vogliono/devono condividere con chi è rimasto a casa. Una condivisione che si è concretizzata venerdì scorso nella Sala Parrocchiale grazie al racconto del gruppo “casolano” (lo definiamo così - pur se fra i sette pellegrini due casolani non sono - perché l’idea e l’avvio dell’impresa nascono nel nostro paese) che ha raggiunto Santiago quest’estate, dopo quasi un mese di cammino sotto il sole cocente della Spagna, con l’appoggio di un pulmino guidato dall’ottavo pellegrino (a detta di alcuni quello che ha fatto più fatica, non quella fisica ma quella psicologica di farsi un percorso così lungo a tappe di 30 km, con lunghi periodi di inattività totale nell’attesa dei camminatori).
Non facciamo appositamente i nomi dei pellegrini, potete trovarli in altre pagine di questo sito e/o del giornale, perché uno dei messaggi più forti usciti dalla serata è stata proprio la coralità dell’avventura, la necessità di creare un gruppo in cui trovare l’appoggio, l’aiuto psicologico necessario a superare le difficoltà, i dolori, le vesciche nei piedi e le titubanze nella testa. Una coesione che si è notata anche nella gestione della serata, ben organizzata e molto piacevole.
La cronaca racconta di un incontro diviso in tre parti, apertosi con una riflessione sul significato religioso del pellegrinaggio, che ha inserito questa particolare “avventura” all’interno di un più ampio contesto di ragionamento teologico, storico e sociale, per scongiurare subito il pericolo di leggere questo racconto come un trekking, una scampagnata particolarmente faticosa o un’impresa da superuomini pronti a gloriarsi del traguardo raggiunto. Un pellegrinaggio va molto oltre e il seguito della serata ha confermato tutti i significati anticipati in questa prima parte, aggiungendone altri più intimi e personali. Anche la proiezione delle foto veicolava il messaggio che non ci si doveva fermare alla qualità delle immagini e del montaggio, pur ottima. Il diario illustrato infatti è stato punteggiato da momenti di riflessione e approfondimento sui temi religiosi e sociali che impregnano il Cammino di Santiago, partendo spesso dagli elementi concreti incontrati dai pellegrini: le croci viarie naturalmente - poste “a guardia” dei crocicchi, in cui tradizionalmente è possibile incontrare il Maligno, pronto a indirizzarci sulla strada sbagliata - le frecce gialle che indicano la strada giusta in mezzo alle città come nel pieno della brulla campagna del Nord della Spagna. Ma anche i ponti, numerosissimi lungo la via tradizionale, simbolo di superamento delle difficoltà e di unione, di congiunzione fra due elementi a volte in contrapposizione fra loro (ricordate l’emozione suscitata durante la guerra nella ex Jugoslavia dalla distruzione del ponte di Mostar, che univa la parte cristiana e quella musulmana della città?).
Ma sulla strada si incontrano anche persone, tante persone che hanno tutte la stessa meta, che mettono i piedi l’una sulle orme dell’altra. Persone come Raphael, figura enigmatica che i pellegrini hanno più volte incontrato lungo il cammino, che li ha accompagnati fino a Santiago apparendo e scomparendo misteriosamente. Raphael che non aveva altro che i propri vestiti e una bottiglietta d’acqua, che dormiva all’aperto e parlava con gli occhi bassi. L’unico da cui gli uccellini si facessero accarezzare. Non bisogna chiedere chi era Raphael, dicono i pellegrini, bisogna accettarlo per quello che ha offerto di sé.
Questo e altri racconti hanno accompagnato la proiezione, aneddoti presi dalla Storia più che millenaria del Cammino e dalla storia quasi-mensile del cammino, episodi simpatici, addirittura comici, accostati a suggestioni emozionanti e profonde. A chiudere, le parole dei pellegrini, ognuno dei quali ha cercato di raccontare come ha vissuto quel mese. Un’esperienza privilegiata, dicono tutti, non tanto perché per farla bisogna, prosaicamente e tautologicamente, avere il tempo di farla, ma perché quel tempo diventa qualcosa di completamente diverso da tutto ciò che si può vivere rimanendo a casa come andando in vacanza. Il mese si dilata, l’attività fisica ripetuta e monotona concede la possibilità di riflettere su tutto ciò che troppo spesso la vita quotidiana sommerge. Il paesaggio diventa l’emanazione di qualcosa di più alto, il contatto col divino acquista una concretezza inaspettata, tutte le scorie accumulate vengono espulse. A sentirli parlare ho provato la netta, precisa sensazione di starmi perdendo qualcosa, di stare tralasciando quella che dovrebbe essere la parte più importante del nostro vivere. La convinzione che “Prima o poi lo voglio fare anch’io” credo si sia insinuata nel cuore e nella testa di tutti i presenti, superando le remore e le paure suscitate dalle foto di vesciche tremende e purulente e, ancora di più, di infinite strade rettilinee che si perdono all’orizzonte, senza un arbusto che possa offrire un centimetro quadrato di ombra, circondate solo da terra arsa dal sole. Un rettilineo - su una strada di origine romana, del senso di dilatazione del tempo è parte integrante anche la dimensione storica, lo stratificarsi delle epoche percepibile sulla strada - di 12 Km, senza neanche un accenno di curva, senza ripari dai 30 gradi abbondanti del luglio spagnolo. Ci pensate cosa possa significare trovarsi davanti un paesaggio del genere e sapere di doversela fare tutta a piedi? Io una cosa simile l’ho vista nel deserto dell’Arizona e mi impressionava pur essendo in macchina… Poi ascolti le parole dei pellegrini e capisci... anzi non capisci, senti che tutto è stato superato, non dimenticato ma oltrepassato da ciò che trovi alla fine di quel rettilineo.
Per concludere niente di meglio che sfruttare le parola con cui don Euterio ha chiuso la serata (chiacchiere di buffet a parte…). La vita del cristiano, dice don Euterio, non deve essere una pallina che rimbalza, che solo nel momento in cui tocca terra sprigiona energia, emozioni, voglia di fare. Deve essere una palla che rotola, che in ogni momento tocca terra. Fuor di metafora: il pellegrinaggio è una splendida esperienza, ricca di emozioni, che può essere ripetuta tante volte quanti sono i rimbalzi di una pallina. Ma poi bisogna riempire gli “spazi di mezzo”, far sì che le emozioni non rimangano tali ma diventino atti concreti, impegno quotidiano nella propria comunità.
Che Santiago sia non solo la meta, ma anche il punto di partenza.
Michele Righini
La cronaca racconta di un incontro diviso in tre parti, apertosi con una riflessione sul significato religioso del pellegrinaggio, che ha inserito questa particolare “avventura” all’interno di un più ampio contesto di ragionamento teologico, storico e sociale, per scongiurare subito il pericolo di leggere questo racconto come un trekking, una scampagnata particolarmente faticosa o un’impresa da superuomini pronti a gloriarsi del traguardo raggiunto. Un pellegrinaggio va molto oltre e il seguito della serata ha confermato tutti i significati anticipati in questa prima parte, aggiungendone altri più intimi e personali. Anche la proiezione delle foto veicolava il messaggio che non ci si doveva fermare alla qualità delle immagini e del montaggio, pur ottima. Il diario illustrato infatti è stato punteggiato da momenti di riflessione e approfondimento sui temi religiosi e sociali che impregnano il Cammino di Santiago, partendo spesso dagli elementi concreti incontrati dai pellegrini: le croci viarie naturalmente - poste “a guardia” dei crocicchi, in cui tradizionalmente è possibile incontrare il Maligno, pronto a indirizzarci sulla strada sbagliata - le frecce gialle che indicano la strada giusta in mezzo alle città come nel pieno della brulla campagna del Nord della Spagna. Ma anche i ponti, numerosissimi lungo la via tradizionale, simbolo di superamento delle difficoltà e di unione, di congiunzione fra due elementi a volte in contrapposizione fra loro (ricordate l’emozione suscitata durante la guerra nella ex Jugoslavia dalla distruzione del ponte di Mostar, che univa la parte cristiana e quella musulmana della città?).
Ma sulla strada si incontrano anche persone, tante persone che hanno tutte la stessa meta, che mettono i piedi l’una sulle orme dell’altra. Persone come Raphael, figura enigmatica che i pellegrini hanno più volte incontrato lungo il cammino, che li ha accompagnati fino a Santiago apparendo e scomparendo misteriosamente. Raphael che non aveva altro che i propri vestiti e una bottiglietta d’acqua, che dormiva all’aperto e parlava con gli occhi bassi. L’unico da cui gli uccellini si facessero accarezzare. Non bisogna chiedere chi era Raphael, dicono i pellegrini, bisogna accettarlo per quello che ha offerto di sé.
Questo e altri racconti hanno accompagnato la proiezione, aneddoti presi dalla Storia più che millenaria del Cammino e dalla storia quasi-mensile del cammino, episodi simpatici, addirittura comici, accostati a suggestioni emozionanti e profonde. A chiudere, le parole dei pellegrini, ognuno dei quali ha cercato di raccontare come ha vissuto quel mese. Un’esperienza privilegiata, dicono tutti, non tanto perché per farla bisogna, prosaicamente e tautologicamente, avere il tempo di farla, ma perché quel tempo diventa qualcosa di completamente diverso da tutto ciò che si può vivere rimanendo a casa come andando in vacanza. Il mese si dilata, l’attività fisica ripetuta e monotona concede la possibilità di riflettere su tutto ciò che troppo spesso la vita quotidiana sommerge. Il paesaggio diventa l’emanazione di qualcosa di più alto, il contatto col divino acquista una concretezza inaspettata, tutte le scorie accumulate vengono espulse. A sentirli parlare ho provato la netta, precisa sensazione di starmi perdendo qualcosa, di stare tralasciando quella che dovrebbe essere la parte più importante del nostro vivere. La convinzione che “Prima o poi lo voglio fare anch’io” credo si sia insinuata nel cuore e nella testa di tutti i presenti, superando le remore e le paure suscitate dalle foto di vesciche tremende e purulente e, ancora di più, di infinite strade rettilinee che si perdono all’orizzonte, senza un arbusto che possa offrire un centimetro quadrato di ombra, circondate solo da terra arsa dal sole. Un rettilineo - su una strada di origine romana, del senso di dilatazione del tempo è parte integrante anche la dimensione storica, lo stratificarsi delle epoche percepibile sulla strada - di 12 Km, senza neanche un accenno di curva, senza ripari dai 30 gradi abbondanti del luglio spagnolo. Ci pensate cosa possa significare trovarsi davanti un paesaggio del genere e sapere di doversela fare tutta a piedi? Io una cosa simile l’ho vista nel deserto dell’Arizona e mi impressionava pur essendo in macchina… Poi ascolti le parole dei pellegrini e capisci... anzi non capisci, senti che tutto è stato superato, non dimenticato ma oltrepassato da ciò che trovi alla fine di quel rettilineo.
Per concludere niente di meglio che sfruttare le parola con cui don Euterio ha chiuso la serata (chiacchiere di buffet a parte…). La vita del cristiano, dice don Euterio, non deve essere una pallina che rimbalza, che solo nel momento in cui tocca terra sprigiona energia, emozioni, voglia di fare. Deve essere una palla che rotola, che in ogni momento tocca terra. Fuor di metafora: il pellegrinaggio è una splendida esperienza, ricca di emozioni, che può essere ripetuta tante volte quanti sono i rimbalzi di una pallina. Ma poi bisogna riempire gli “spazi di mezzo”, far sì che le emozioni non rimangano tali ma diventino atti concreti, impegno quotidiano nella propria comunità.
Che Santiago sia non solo la meta, ma anche il punto di partenza.
Michele Righini