In tempi di classi-ponte e impronte digitali per i bambini rom, parlare di immigrazione, accoglienza degli stranieri, convivenza fra culture è cosa allo stesso tempo assai banale e difficile. Banale perché se ne sente parlare a ogni minuto in ogni luogo, difficile perché si rischia di cadere (oltre che nella banalità appunto) in estremismi che sempre mal si sposano con gli aspetti della vita di tutti i giorni. Perché l’altro aspetto di banalità della questione (e se vogliamo anche di difficoltà) è che - al di là delle teorizzazioni, delle dichiarazioni di intenti, delle leggi e delle chiacchiere da TV - la convivenza con persone provenienti da paesi e culture distanti dalla nostra la saggiamo ogni giorno, in ogni luogo, nel privato come nel pubblico, nel bene e nel male.


Ogni persona sta sperimentando un tipo di società nuovo, diverso da quello a cui siamo stati abituati (non a caso i bambini, che non hanno condizionamenti del passato, la vivono in maniera decisamente migliore) e credo che ognuno nel proprio piccolo abbia la capacità di trovare, creare, mettere in piedi, il miglior rapporto possibile nel quotidiano, se solo quel minimo di impegno che serve arriva da entrambe le parti coinvolte. Poi ci sono i grandi numeri, le generalizzazioni di cui deve tenere conto la politica, chi fa le leggi, ecc. e le cose si complicano.
Ma non voglio fare discorsi fumosi e generalisti, proprio per evitare a un tempo, se mi sarà possibile, molte difficoltà e un po’ di banalità. Voglio raccontare un episodio, anzi la sensazione personale provata di fronte a un episodio, minimo ma che rende bene l’idea del clima che si respira su questo tema in Italia, in particolare grazie a molti mezzi di informazione Così affrontiamo anche questo altro discorso, i media e chi ci lavora dentro, che mamma mia quante ce ne sarebbero da dire.
Il fatto è un servizio di Studio Aperto, il TG di Italia 1, sulla rivolta violenta della comunità nigeriana a Castelvolturno. Prevengo ogni obiezione sul fatto che Studio Aperto è proprio il peggio che ci sia, la questione è che Studio Aperto c’è e se c’è e sopravvive vuol dire che un certo numero di spettatori (fra l’altro molti dei quali gggiovani, a quel che si dice) li fa ogni giorno. Quindi un certo numero di spettatori ascolta quello che viene detto a Studio Aperto non solo quando si racconta la calda estate di Claudiano di “Uomini e donne”, ma anche quando si parla di immigrazione o scuola o economia o politica o cultura (vabbè no in effetti di cultura proprio non ne parlano e mai silenzio fu più apprezzato).
Dicevamo, Studio Aperto parla della rivolta violenta della nigeriana di Castelvolturno. Ho già ripetuto due volte questa frase e mi rendo conto che se continuo a ripeterla in questa forma molti dei lettori si convinceranno che a Castelvolturno c’è stata SOLO una pericolosa e crudele ribellione di qualche spaventoso uomo nero. Potere della parola, anzi in questo caso delle parole taciute, del non detto. Se poi è la TV che ripete (o tace) queste parole, l’effetto è ancora più dirompente, perché per leggere serve una volontà, l’audio TV invece ti entra dentro anche se non sei lì, concentrato ad ascoltare, ti si radica in testa in maniera inconscia anche se stai facendo tutt’altro o sonnecchi sul divano. Negli anni ’80 ci volevano fare credere che per imparare le cose bastava andare a letto col walkman e ascoltare durante il sonno la lezione registrata. Non è vero, però la TV ha raggiunto una tale capacità di penetrazione ipnotica e inconscia nel cervello dell’uomo moderno che si avvicina molto a quell’antica promessa che ha portato tanti studenti svogliati a insufficienze irrimediabili.
Il servizio di Studio Aperto non solo praticamente sorvolava sul fatto che la rivolta era stata scatenata dall’uccisione, avvenuta il giorno prima, di sei nigeriani da parte della camorra. Ma il messaggio che il servizio passava era più o meno questo: “Ma guarda questi negri incivili che importano in Italia una guerriglia urbana da Africa Nera”. Ve lo giuro, il problema non era che stavano distruggendo tutto (perché effettivamente stavano distruggendo tutto), ma che queste scene ricordavano sanguinarie lotte tribali tipicamente africane. Il giornalista ha detto a un certo punto: “Guardate, sembra di essere a Mogadiscio”. A parte il fatto che ancora mi chiedo cosa c’entri Mogadiscio con la Nigeria, paese d’origine dei pericolosi facinorosi in rivolta, in realtà sembrava tdi stare fuori da uno stadio italiano in un pre-durante-post (a scelta) partita di calcio, altro che Mogadiscio, la Nigeria e l’Africa tutta.
Ma soprattutto: la guerriglia urbana è episodio più “incivile” e deplorevole dell’uccisione a sangue freddo di sei persone? Beh, cin insegna Studio Aperto, di sicuro è meno “italiana”. Noi siamo abituati agli agguati, al mordi e fuggi di un paio di criminali che fanno secchi quelli della gang rivale in maniera precisa e chirurgica, non a tutto quel casino di cartelli divelti, cassonetti bruciati, auto ammaccate. Una sgasata di moto, una sventagliata di mitra, qualche cadavere che serva da monito e via. Per il resto profilo basso, farsi notare e farne parlare il meno possibile. Il crimine buono, quello che “in fondo dà anche il lavoro a tante persone”, che ha un suo ruolo ben preciso nel funzionamento sociale, anche se è meglio non dirlo troppo in giro. Non la ribellione, l’insurrezione, l’attacco frontale alla società, no, quella è roba da “negri incivili”. Capito? Ormai lo “scontro di civiltà” si è trasferito in campo criminale, noi abbiamo i nostri codici malavitosi, le nostre regole mafiose e questi arrivano qua e credono di poterle sconvolgere. Un po’ alla Gangs of New York, immigrati italiani contro immigrati irlandesi contro nativi, giusto per ricordarci che anche noi ai nostri tempi siamo stati non solo migranti ma anche esportatori di codici criminali nostrani in terre molto lontane.
Tutto questo detto, o meglio subdolamente instillato nella mente di spettatori narcotizzati e distratti, da un telegiornale nazionale.
Sia chiaro, non si tratta di giustificare le violenze della comunità nigeriana, reazione non accettabile e che deve essere punita come prevedono le leggi. Non punita e condannata più duramente perché in fondo “loro” sono ospiti, come si è sentito dire in giro. Si tratta però di aggiungere che questa reazione è senza dubbio meno grave dell’omicidio plurimo che l’ha generata. Si tratta di aggiungere (e chissà se Studio Aperto in seguito l’ha fatto, non è che lo guardo sempre, giuro) che nei giorni successivi - come testimoniato da Roberto Saviano l’altra sera a Matrix - la comunità nigeriana si è impegnata per risistemare le cose che aveva distrutto in quell’accesso di rabbia folle. E in seguitosi è anche saputo che i sei nigeriani erano innocenti, non facevano parte della criminalità nigeriana - che c’è ed è molto forte, ancora parole di Saviano, in quelle zone. Quindi la loro morte era un avvertimento per altri che non si potevano colpire direttamente. Questo sì, tipicamente mafio-camorristico, quindi italico.
Ultima riflessione ancora ispirata da parole di Saviano che, piaccia o non piaccia, quella situazione la conosce bene. L’insurrezione violenta della comunità nigeriana si contrappone non solo al subdolo e vigliacco agguato assassino, ma anche alla consueta reazione di molti cittadini italiani dopo stragi di camorra (o di ’ndrangheta, Sacra Corona Unita, mafia siciliana, del Brenta e di ogni altro luogo in Italia): l’omertà. Casino, rumore, invadiamo le strade contro silenzio, bocche cucite e tiriamo giù le tapparelle.
Prima di rischiare di farci convincere che la nostra bella e civilissima Italia è invasa da un branco di invasati e pericolosi “uomini neri” che non conosce ogni regola di convivenza civile, spegniamo la TV e usciamo a fare due chiacchiere con Mohamed (Svetlana, Jing Lin, Pablo, Mirela, Dejan, Keertana, ecc.), il nostro nuovo vicino (collega, compagno.di banco, amico, fruttivendolo, datore di lavoro, ecc.).

Michele Righini

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