(ovvero come evitare di rimanere con il naso nel piatto)
Cammino sul filo di un crinale “corollato” di ginestre fiorite che fa da spartiacque fra due vallate profonde.
Ogni tanto mi fermo a contemplare incantato (non c’è nessuna esagerazione, incantato è la parola giusta) il giro dell’orizzonte.
Ha piovuto, ma ora è tornato il sereno e sbuffi di nuvole bianchissime si stagliano sull’azzurro intenso del cielo ripulito dalla pioggia.
Il verde smeraldo dei boschi, ravvivato dal sole dopo l’acquazzone, ricopre tutto l’arco dei monti con le tonalità, ora scure, ora luminose e brillanti di una coltre di vegetazione folta, vellutata e variegata, appena interrotta qua e là dalle striature grigio-azzurre dell’ arenaria di qualche emergenza rocciosa.

Nella parte bassa delle colline le coltivazioni a frutteto, ordinate come giardini, si colorano di rosa, di bianco, di giallo, a seconda dei fiori delle loro piante e si susseguono alternate ai tappeti dei prati ed a campi di grano, che al momento in cui scrivo sono ancora verdissimi, ma che ben presto vireranno verso il giallo dorato, macchiati qua e là del rosso vivo delle “bollate” dei papaveri.
Sotto di me le pareti declinanti del crinale precipitano nel mistero del fosso profondo di un rio e, ad un tratto, da una macchietta di carpino, rapido come il lampo e preceduto da un fruscio improvviso, balza fuggendo impaurito un capriolo.
Per un attimo scorgo per intero la sua figura elegante e leggera, poi rimane solo il ciuffetto bianco della coda che si dilegua nel fitto della vegetazione.
Il crinale, ad un certo punto, si inerpica formando un’alta cresta rocciosa orlata di vegetazione i cui strati di arenaria grigia, messi a nudo dall’erosione delle acque e dalle subsidenze tettoniche, scandiscono le ere del suo lento e millenario formarsi.
Il sentiero la evita aggirandola, risparmiando così al solitario viandante un impervio saliscendi.
Sto ancora ringraziando in cuor mio la saggezza dello sconosciuto che ha tracciato il percorso, quand’ecco che dall’alto del picco si leva con volo elegante e potente un falco che con il suo grido acuto e ripetuto rivendica il proprio dominio territoriale ed il proprio diritto di caccia.
Mi fermo poi alcuni minuti a riposare su un fazzoletto di prato coperto da un morbido tappeto verde formato da un numero imprecisato e variegato di erbe e piantine e su cui spiccano ciuffi di cinque o sei tipi di fiori diversi.
Fiori di forma diversa, di colore diverso: chi con i petali lisci a corolla, chi con le inflorescenze un po’ pelose disposte a pannocchia, a volte piccolissimi ed armoniosamente policromi, a volte grandi e monocromi, sempre comunque straordinariamente eleganti.
Affino lo sguardo ed ecco spuntare anche le molteplici e curiose varietà degli insetti che l’abitano: chi strisciando, chi zampettando, chi saltando, chi sorvolandolo, anch’essi di forme assai eterogenee: a volte pelosi, a volte lisci, a volte variamente colorati, a volte di un solo bellissimo color nero lucido dai riflessi argentati o dorati, a volte con le corna, a volte con il capo tondo, a volte con le antenne, a volte corazzati come antichi guerrieri, a volte e affusolati, a volte rotondi come una pallina.
Un silenzio profondo mi avvolge, amplificato dal contrappunto del canto ripetuto e rilassante dei grilli.
Ogni volta che vivo momenti di grazia come questi mi viene naturale riflettere sul senso dell’esperienza che sto vivendo e delle sensazioni che l’accompagnano. Accade tuttavia che ogni volta che mi soffermo ad osservare e a pensare in questi frangenti, il mio stupore incantato si incagli inesorabilmente su un perché: perché tutta questa affascinante, svariatissima, polimorfa, esagerata bellezza, e a favore di chi?
E’ così che la riflessone si sposta sull’altro strabiliante e straordinario soggetto del paesaggio: io stesso che, fermo sul ciglio dello strapiombo, me ne sto lì a guardare e a riflettere incantato.
Non tanto io, come Alessandro Righini in particolare, ma io come uomo , come essere umano dotato di ragione e di intelligenza, in grado di percepire con sufficiente consapevolezza la meraviglia e la complessità di ciò che mi sta davanti e di gioire per il piacere o la grazia che mi è concessa nell’osservarla. Prerogative queste che, per quanto ne so, sono proprie nelle loro forme più complete e compiute solo dell’uomo.
E’ chiaro allora che se la bellezza che ci circonda ha un destinatario o un referente privilegiato questi non possa essere altri che l’uomo, ovvero colui che, almeno potenzialmente, ha la facoltà di riuscire a percepirla ed apprezzarla compiutamente.
Ora però, dato per scontato che noi uomini, chi più chi meno, questa facoltà la possediamo, mi chiedo:- Fino a che punto ed in quale misura riusciamo a collocare tutto questo nel giusto contesto? In quale contesto si colloca la bellezza?-
Questo interrogativo poi ne richiama inevitabilmente un altro: - In quale contesto si colloca l’uomo?
Noi ce ne stiamo lì, seduti sul ciglio di un monte, intenti ad osservare le meraviglie di un fazzoletto di prato, poi alziamo gli occhi ed il nostro sguardo, pian piano, partendo dalla profondità del fosso e risalendone le pareti, si allarga sul ben più vasto giro dell’orizzonte. Potremmo decidere che questo ci basti. C’è di che sentirsi sufficientemente appagati, ma siamo sicuri di avere sollevato veramente il naso dal piatto?
Non corriamo, per caso, il rischio di comportarci come un commensale che, invitato a partecipare ad un pranzo di gala, se ne resta per tutto il tempo solo intento a gustare i suoi tortellini, l’arrosto, i contorni ed i dolci fino a giungere al termine del pranzo senza aver mai alzato il naso dal piatto, senza aver percepito niente del contorno, niente dei preziosi arredi e della tavola imbandita, niente degli ospiti suoi commensali, niente del salone splendidamente decorato dove il pranzo si svolge, niente dell’organizzazione del servizio, niente del volto del suo munifico anfitrione, e soprattutto niente del motivo per cui è stato invitato?
A me invece, in casi come questo, viene in mente un particolare tipo di ripresa cinematografica, che potremmo definire “effetto zoom inverso” , che talvolta mi è accaduto di vedere applicato in qualche filmato e che potrebbe offrirci l’esempio e lo spunto per adottare un atteggiamento opposto a quello del “naso nel piatto” ed evitare così l’ alienazione e la pochezza del nostro ingrato commensale .
Nell’effetto zoom inverso la cinepresa parte da una inquadratura assai ristretta su di un particolare minimo, appunto un piatto, tanto per restare nell’ambito dell’esempio di cui sopra.
Poi l’obiettivo si allontana lentamente allargando il campo di ripresa. Compare dapprima la figura del commensale, poi, man mano che la visuale si amplifica, quella degli altri commensali, poi dell’intera tavola, poi dell’intera sala da pranzo. A questo punto l’obbiettivo esce dalla finestra e nella scena compare la facciata della casa, poi la casa intera, poi il giardino e l’abitato che la circondano, poi l’intera città, poi l’intera regione, poi il continente, poi la terra intera, questa gemma dai riflessi azzurri, così singolare e viva nel buio della notte. Poi gli altri pianeti, poi il sole, poi gli altri astri poi l’intera vastità dell’universo.
A questo punto la terra stessa non si vede più, perduta e confusa fra le miriadi delle stelle, delle costellazioni e delle galassie che punteggiano l’immensità del cielo.
La terra non si scorge più, tanto meno si vedono coloro che la abitano, ma la terra esiste e percorre gli spazi siderei con un suo singolare, preziosissimo e forse unico (nell’universo) carico: la vita.
Percorre l’immensità come una navicella apparentemente alla deriva verso una meta non conosciuta, con un carico imbarcato chi sa dove, ed anch’ io, tanto per tornare alla mia riflessione, sono su questo minuscolo e straordinario vascello dalle vele verdi e azzurre e vivo, faccio parte del carico e, seduto sul ciglio di crinale, incantato da ciò che mi sta intorno, mi pongo dei perché.
Questo è dunque il contesto in cui si colloca la bellezza, questo il contesto in cui si colloca l’uomo, ed è in questo contesto che va cercata la risposta al profondo mistero che ci circonda e ci sovrasta.
Alcuni (e parrebbero essere in aumento, almeno stando agli esiti di un certo pensiero, di certe affermazioni e di un certo atteggiarsi), sull’onda della scoperta del meccanismo di qualche legge fisica, ( e glissando pervicacemente e sdegnosamente sulla domanda cruciale: ma chi le ha poi stabilite e fissate nell’universo queste leggi?) sono arrivati a sentenziare che tutta la realtà ed il contesto in cui ci muoviamo è frutto del caso, anzi, più esattamente, di una serie caotica e casuale di eventi fisici, dunque del “caos”.
Mi viene in mente a questo proposito come il prof. Enrico Medi, uno dei più illustri ed appassionati docenti di geofisica che la nostra prestigiosa tradizione in materia abbia annoverato nel recente passato ( è deceduto nel 1974), reagì, riferendosi ad una ipotesi del genere ed a chi la sosteneva, nel corso di una memorabile e vivace lezione, tenuta ad un folto gruppo di studenti e di cui si conserva la registrazione radiofonica.
- Del caos ? –
Si chiese, ironico ed esterrefatto l’illustre geofisico e, sciorinando una per una, tutte le connessioni, le complesse relazioni, le interazioni, le combinazioni e le condizioni che sovrintendono al realizzarsi di un solo particolare evento fisico- spaziale –
- Del caos? – ripeté impietoso- il caos questi signori lo hanno nelle loro teste!
Alessandro Righini
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