Provo anch’io ad aggiungere qualche considerazione al dibattito sulla laicità che si è aperto sullo Spekkietto dopo la vicenda della contestazione al Papa e della sua mancata partecipazione alla cerimonia di apertura dell’anno accademico alla “Sapienza” di Roma…
Uno “Stato laico” o, come preferisco definirlo, uno “Stato non confessionale e non ideologico”, che in Italia trova fondamento nella Costituzione Repubblicana del 1 gennaio 1948, non impone per legge i principi morali di una parte dei suoi cittadini ma salvaguarda il diritto di tutti di professare e promuovere le proprie convinzioni religiose e ideologiche, e afferma e promuove i diritti di libertà e autodeterminazione di ogni individuo.


E’ in questo contesto che la Chiesa cattolica – come altre confessioni religiose, cristiane e non cristiane – deve poter assolvere la propria funzione, sviluppare il proprio ruolo nella società e sollecitare, richiamare le persone e le comunità a vivere e operare in coerenza con i principi e i precetti della religione. Lo Stato ha il dovere di assicurare e garantire queste condizioni.

E’ per questo che giudico sbagliata l’iniziativa di chi – all’Università “La Sapienza” – ha contestato la partecipazione del Papa all’inaugurazione dell’anno accademico.

Ma lo Stato ha anche il dovere di agire e di legiferare in coerenza non a questa o quella confessione religiosa, ma alla sua legge fondamentale che è la Costituzione repubblicana.

In altre parole, penso che la Chiesa cattolica, e così ogni altra confessione religiosa, non possa affermare il rispetto dei propri principi e precetti attraverso le leggi dello Stato né chiedere e esigere che lo Stato imponga per legge quel credo, quei principi e quei precetti.

C’è stato un lungo periodo, nel nostro Paese, in cui la religione cattolica era religione di Stato, in cui l’adulterio era considerato reato penale, in cui il matrimonio era considerato indissolubile dalla legge, in cui era proibito ricorrere a metodi anticoncezionali che non fossero “naturali”, e questo perché si riteneva che la legge dovesse uniformarsi ai precetti della religione cattolica.

Io penso che quella condizione del nostro paese non fosse rispettosa né dei cattolici, né dei non cattolici, né dei laici: era una condizione che negava i diritti della persona e che pretendeva di imporre per legge scelte che invece devono essere affidate alla libera decisione di ogni individuo.

Oggi (dal 1968) per la legislazione italiana l’adulterio e il concubinato non sono più un reato penale, è riconosciuto il diritto all’uso di mezzi contraccettivi (1971 e 1976) e dal 1970 è possibile sciogliere il vincolo matrimoniale con il divorzio: si tratta di diritti, riconosciuti a chi voglia avvalersene liberamente e responsabilmente. E sono diritti perché non ledono la libertà altrui.

Nessuna persona è costretta a divorziare perché esiste la legge e, men che meno, è costretto a divorziare chi, cattolico o appartenente a qualunque altra confessione religiosa, creda nella indissolubilità del matrimonio.

Nel 1974 ci fu una parte del mondo cattolico che promosse e sostenne un referendum popolare per abolire la legge sul divorzio, approvata nel 1970 da una maggioranza parlamentare trasversale che comprendeva partiti di maggioranza e di opposizione. Se in quel referendum avesse vinto il sì all’abrogazione della legge sul divorzio, nello Stato italiano si sarebbe tornati a una situazione che imponeva per legge il principio dell’indissolubilità del matrimonio.

Gli italiani invece, con una larga maggioranza (59,3%), respinsero il tentativo abrogazionista e non sarebbe stato possibile quel risultato se tanti cattolici non si fossero pubblicamente schierati a sostegno del no all’abrogazione della legge: una posizione assunta non contro le proprie convinzioni ma in nome del principio che rifiuta di imporre per legge a altri le proprie convinzioni.
Con quel voto l’Italia fece un passo avanti per la piena attuazione della sua Costituzione e ognuno, cattolico e non cattolico, poteva considerarsi più libero di prima.

A distanza di qualche anno il parlamento approvò la Legge 194, la legge che – in situazioni e circostanze particolari e regolate dalla legge – riconosce il diritto della donna all’interruzione volontaria della gravidanza (aborto). Anche in questo caso il referendum promosso nel 1981 per l’abrogazione della legge venne respinto, con una maggioranza (68,0%) ancora più ampia di quella che decise il mantenimento della legge sul divorzio. E come nel 1974 molti cattolici si schierarono a difesa della legge, con pubbliche prese di posizione e votando no all’abrogazione.

Sulla 194 si sviluppa periodicamente un dibattito e una iniziativa che punta alla sua abolizione o, come nel caso delle polemiche di questi giorni, a una “moratoria” che non è ben chiaro cosa sia, come debba realizzarsi e con quali conseguenze per le donne.

Quella dell’aborto, dell’interruzione volontaria della gravidanza, è materia delicata e complessa, con profonde implicazioni etiche e scientifiche oltre che religiose, ma che è stata affrontata e risolta con l’introduzione di soluzioni legislative sostanzialmente analoghe in gran parte dei paesi dell’Unione Europea, che rispondono non a finalità contraccettive ma di contrasto della piaga drammatica e devastante dell’aborto clandestino, largamente diffuso anche nel nostro Paese prima della legge 194. Perché, è bene sottolinearlo, l’aborto non è un portato della legge 194, esisteva ben prima della legge e non è certo l’abolizione della legge 194 che lo farà scomparire. Si può affermare invece, come dimostrano tutte le statistiche, che la legge è servita a ridurre massicciamente il numero degli aborti in Italia.

Ben venga, quindi il dibattito e la riflessione sulla legge 194, sugli effetti che ha prodotto, sull’attività dei consultori, sulla contraccezione e la prevenzione, ma non si deve e non si può metterla in discussione. Segnalo che la Corte Costituzionale nel 1978 dichiarò inammissibile il secondo dei referendum proposto dal Movimento per la Vita ché proponeva l’abolizione totale della legge.

Io credo che sia un dovere dello Stato promuovere la conoscenza e il ricorso ai metodi contraccettivi, per affermare sempre più il diritto delle donne e degli uomini a una maternità e a una paternità libera e consapevole e per contrastare e prevenire sempre più efficacemente il ricorso all’aborto.

Può essere questo un punto di incontro con la sensibilità e le convinzioni dei cattolici? Credo proprio di sì, come tante esperienze e situazioni dimostrano.

L’aspetto più preoccupante delle polemiche di queste settimane è proprio quello di fare apparire inevitabile lo scontro, il contrasto, l’inconciliabilità, la contraddizione tra sensibilità e cultura cattolica e laica. Bisogna invece affermare e praticare il dialogo, il confronto, la possibilità di affermare soluzioni condivise. Se accettassimo la deriva dello scontro e della contrapposizione tra opposti fondamentalismi, quello laicista e quello confessionale, faremmo tornare indietro la storia del nostro Paese, a prima della Costituzione del 1948.

Una Costituzione, come vollero i costituenti che tra il 1946 e il 1947 ne elaborarono il testo, che fosse il risultato e l’espressione non del prevalere di una cultura sull’altra ma dell’incontro di diverse culture che insieme hanno condiviso e promosso – a garanzia delle convinzioni culturali, politiche e religiose di ciascuno – la natura laica e non confessionale della Repubblica italiana, delle sue istituzioni e della sua funzione civile e politica.

E’ a quell’insegnamento che, ancora oggi, credo sia giusto e necessario ispirarsi.



Giorgio Sagrini

i precedenti articoli de LoSpekkietto sul tema:
- Piccolareplica (si fa per dire) su UNIVERSITA’ LAICA, NO LAIDA
- Dellaico e del laido, ovvero della lotta per la verità
- Università“LAICA”? No, Università “LAIDA”!
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