Quando uscì Nel paese di Tolintesac mi sembrò doveroso scrivere una recensione che prescindesse dall’amicizia con Cristiano, perché il libro richiedeva a mio parere un’analisi che fosse attenta agli aspetti più strettamente letterari, per non cadere nel facile e poco produttivo giochino di una lettura “paesana”. Il “distacco critico” era la chiave per rendere giustizia a un libro che palesava una ricerca narrativa di una certa complessità e che era indizio di maturità dello scrittore.
Uguale distacco, pur se per motivazioni diverse, avevo precedentemente ritenuto giusto utilizzare per leggere Alla grande, nonostante quella fosse un’opera scritta di getto (o almeno così risultasse al momento della lettura, che è poi la stessa cosa), lineare e “veloce”. Per Un’ultima stagione da esordienti rinuncio invece a questo distacco, in maniera programmatica. Perché dentro quel libro c’è il mio nome ? Forse, ma in realtà razionalmente ritengo che proprio questo dovrebbe essere un buon motivo per accrescere il distacco, non per azzerarlo, in molte condizioni. Non in questa. Il libro stesso richiede di vivere questa storia come se fosse la propria.
Nessuna architettura narrativa complessa, salti temporali minimi, facilità di lettura, consueto (e, come di consueto, in alcuni punti forse anche esagerato) scoppiettìo di metafore, similitudini e iperboli, personaggi “esemplari”, ognuno dei quali riveste una funzione ben precisa nel gruppo dei protagonisti. Siamo molto più vicini ad Alla grande che a Tolintesac, ma non si tratta di un passo indietro. Si tratta di un libro “di passaggio” nella crescita di Cristiano come scrittore. Uscito a solo un anno di distanza dal secondo, forse ha in una (giustissima!) logica editoriale la funzione di mantenere visibile l’autore al grande pubblico e di accrescere il gruppo dei fans. Il rischio in questi casi è alto, perché la fretta di tornare in libreria, di “sfruttare il successo”, ha fatto vittime illustri che sarebbe inutile nominare e che sono comparsi sugli scaffali con libri assolutamente improbabili e improponibili che hanno invece ottenuto l’effetto contrario di bruciare il nome “alla moda”. Sono discorsi troppo terra terra per una nobile arte come la letteratura? No, è il mondo entro cui ci si deve muovere con un’intelligenza che vada oltre l’abilità scrittoria. E Cristiano secondo me supera questa prova perché il libro arriva presto in libreria, si adagia nella scia dell’interesse suscitato da Tolintesac ma non dà mai l’impressione di essere un libro scritto così, tanto per cavalcare l’onda. Dà l’impressione di un libro scritto a grande velocità, con i difetti che ne possono derivare che però scompaiono dietro al sentimento di urgenza del raccontare che traspare dalle pagine. La carta vincente del libro è questa: Cristiano fa in questo libro ciò che molti, a mio parere sbagliando, hanno detto abbia fatto nei primi due: racconta la propria vicenda personale. E lo dichiara in maniera palese. Non importa quanti dettagli inventati e quanti reali (anche se potremmo qui indicarli tutti, noi che c’eravamo) siano presenti in questa storia e quanti invece ce ne fossero nei primi due libri. Importa che nei primi due dominante era la volontà romanzesca, di fiction, mentre qui è la realtà “storica” quella che conta. I ragazzi della squadra alla fine perdono il loro soprannome e diventano un nome e un cognome reali. L’autore stesso dichiara di essere quel personaggio (il condizionale è solo un vezzo, la vera cosa da notare è la comparsa del nome dell’autore al di fuori di qualunque gioco postmodernista e donchisciottesco che abbiamo spesso visto in molte opere degli ultimi anni). Quasi tutti vengono “battezzati” in realtà, e il Mister diventa tre persone, ma ciò che conta è l’intenzione di Cristiano di associare a quei personaggi delle “persone” in carne e ossa. Passare dal romanzo all’autobiografia (romanzata quanto si vuole) è stata secondo me la scelta giusta per affrontare quel momento di passaggio e di riconferme a cui si accennava prima. Scelta giusta perché l’imperfezione dell’opera perde importanza di fronte alla sincerità e all’urgenza che si avverte di volere raccontare proprio quelle vicende (complice anche una dose di divertimento puro che supera quella dei primi due libri). Sbaglio a dire autobiografia, perché un’altra scelta giusta e azzeccata è, paradossalmente, proprio quella di sottrarre importanza all’io narrante (Bastiano in Alla grande, il ragazzo e soprattutto la nonna in Tolintesac) per allargare l’osservazione a un gruppo di personaggi. Ci abbiamo vinto un mondiale con lo spirito di squadra, figuriamoci se non ha un effetto positivo all’interno di un racconto!
Finora ho mantenuto quel distacco critico che dicevo di volere abbandonare ma c’è un argomento di fronte al quale qualunque razionalità e qualunque distanza si annullano, lo stesso argomento che permette di spiegare due affermazioni apparentemente contraddittorie che ho fatto in questa paginetta. Cosa fa sì che una storia che è dichiaratamente un pezzo di vita di un gruppo di persone ben precise, addirittura identificate quasi burocraticamente dal nome e dal cognome, possa diventare una storia che migliaia di persone possono leggere come la propria? La risposta è semplice: lo sport. Ognuno può sostituire il calcio col proprio sport preferito, ma ciò che conta è quello che ci sta dietro, la passione sfrenata, appunto totalmente irrazionale e immotivata, che travolge anche le persone più insospettabili di fronte alla competizione sportiva. Soprattutto quando l’età ti concede ancora di credere che ciò che succede in quel campo sportivo sia la cosa più importante della tua vita. Così anche il ciclista o il ginnasta possono riconoscersi nel libro di Cristiano e identificarsi in quei ragazzini che vivono del calcio inteso come esperienza di vita a 360°. Anche la schiappa peggiore della terra, anche il più ciccione, sgraziato, scoordinato degli esseri umani, ha dei ricordi legati a un campo di calcio, a una pista di atletica, a una palestra, a un tavolo da ping pong. L’unico canestro segnato, l’unico muro messo a terra, o più sfigatamente la pallina da tennis che ti ha fratturato il naso, quella volta che senza l’intervento di uno dei tanti Brustolo sparsi nelle piscine di paesi e città saresti annegato. La tensione, l’acido lattico che ti blocca i pochi muscoli che normalmente ti funzionano a dovere, l’adrenalina che ti si scarica fra il cuore e lo stomaco, il dolore che ti procurano una caduta o una sconfitta, la corrente elettrica che ti collega al tuo compagno di squadra, l’unico che in quel momento ti permette di non affondare. Sono queste le sensazioni su cui il libro fa leva per rendersi “familiare” al lettore, per coinvolgerlo e per rendere “universale” una storia tanto legata a quei luoghi e quelle persone. Ogni lettore, giunto alla fine, potrebbe riscrivere la formazione, con i nomi, i cognomi e i soprannomi che sono tornati a galla nella memoria o che popolano il suo presente.
Quasi un anno fa Cristiano mi chiese il permesso di usare il mio nome e cognome nel libro. In più di un’occasione avevo ribadito su questo giornale quanto fossero stupide le arrabbiature di chi si era riconosciuto in Alla grande e non aveva gradito il trattamento riservatogli, spiegando che quella era comunque una storia inventata. Non potevo quindi certamente rifiutare il mio nome, anzi mi intrigava l’idea che fosse appioppato al personaggio di un romanzo e mi chiedevo cosa gli avrebbe fatto fare Cristiano. E’ successa invece una cosa diversa, cioè che Cristiano non ha usato il nome per un personaggio, ma ha detto che quel personaggio sono io (anche se, ahimè, non ho mai segnato quel goal a Borgo Ghibellino e delle Toccate me ne riuscivano ben meno che una ogni due settimane). E’ una differenza sottile - che se prima ho cercato di definire da un punto di vista “tecnico”, non riesco a spiegare da un punto di vista “sentimentale” - ma decisiva. Credo che leggere le ultime due pagine, la formazione degli esordienti, getti una luce diversa su tutta la storia raccontata in precedenza. Non solo per chi si trova in quell’elenco, o conosce le persone di quell’elenco, ma anche per un lettore di Canicattì. E’ come se un bambino abituato a guardare le figurine Panini all’improvviso si trovasse di fronte i calciatori in carne e ossa. Quelle due pagine danno tridimensionalità alla storia e l’asse Z è quello della realtà.
Questi meccanismi non sempre funzionano. Spesso anzi molti testi falliscono per essersi voluti avvicinare troppo alla realtà. Questa volta l’esperimento riesce perché non sottrae nulla alla magia del racconto, anzi le regala qualcosa. E’ la formula giusta per la fase che sta attraversando Cristiano, non significa che lo sia per ogni occasione. A me piacerebbe anzi che il prossimo passo della crescita di Cristiano come scrittore fosse il distacco dalla realtà vissuta in prima persona, l’applicazione di una ormai raggiunta maturità stilistica e narrativa ad altre tematiche, altri luoghi, altre storie. Cristiano dice sempre di non essere uno scrittore ma un “raccontatore di storie”, una specie di medium attraverso il quale si fissano sulla carta alcune vicende che lo hanno interessato in maniere e forme diverse. Non credo sia del tutto vero, non è vero che non inventa nulla ed è vero che in ogni caso reinvesta tutto, anche il fatto più minimale realmente accadutogli il giorno prima. Se non nel contenuto, nella forma. E queste sono le doti di uno scrittore. E uno scrittore deve provare, tentare, sperimentare, spaziare, strabordare, sorprendere. Anni fa, aveva pubblicato forse appena un paio di racconti, Cristiano mi disse che gli sarebbe piaciuto tentare la narrativa “di genere” perché lo intrigava l’idea di avere regole, schemi, modelli, tecniche su cui lavorare. Gli sarebbe piaciuto scrivere un giallo. A me piacerebbe leggere un giallo scritto da Cristiano, perché credo che saprebbe farlo. E saprebbe farlo bene, non come uno dei tanti scrittori che infilano un paio di cadaveri nel proprio libro anche se vorrebbero raccontare tutt’altro ma quello è l’unico modo in questa congiuntura editorial-letteraria-commerciale di vendere un po’ di copie del proprio libro. Ma questo è solo un desiderio personale, non certo un consiglio (che se poi mi prende sul serio e poi va a finire male mi rimane sulla coscienza). Credo che l’importante per uno scrittore (per tutti certo, per uno scrittore, un musicista, un attore, forse un po’ di più) sia il desiderio di battere strade nuove, di non fare sempre e solo quello che da lui ci si aspetta, di fare fruttare le proprie abilità ramificandole in più direzioni. Ricordate Achtung Baby degli U2? Fu uno stravolgimento per chi era abituato da quasi un decennio alla musica della band di Bono, allora – era il 1991, più o meno – si parlò di vera e propria rivoluzione che non investiva solamente i quattro irlandesi ma tutto il mondo musicale. C’è stato forse un punto più alto nella loro carriera? No, ditemi tutto quello che volete ma rimango dell’idea che né prima né dopo il gruppo abbia fatto qualcosa di altrettanto importante e, semplicemente, bello.
Il rischio, naturalmente, è alto, molto alto. Si può diventare un Ammaniti che da giovane cannibale esponente della moda letteraria del momento (10 anni fa) diventa forse il più completo e maturo dei narratori under 40 di oggi. O si può diventare un Brizzi, che dopo l’esplosione fragorosa del primo libro si spegne lentamente rincorrendo un colpo d’ala che continuamente sfugge. Credo, e ripeto, che in questo periodo si giochi una partita importante per la “carriera letteraria” di Cristiano (notate bene le virgolette, denotano la leggera ironia che sempre deve ammantare parole troppo spesso enfatizzate, la carriera e la letteratura, e credo che su queste virgolette Cristiano sia più che d’accordo con me). La sua strada, le sue strade possono percorrere mille direzioni diverse. Cristiano-scrittore si è conquistato la stessa libertà dei ragazzini di cui racconta, la libertà di potere ancora scegliere, di potere indirizzare la propria vita. Questo si avverte nelle sue pagine, soprattutto in quelle di quest’ultimo libro, nel divertimento che trasuda dalle righe. Non possiamo augurarci che tutto questo continui, qualunque sia la strada intrapresa.
Michele Righini
Nessuna architettura narrativa complessa, salti temporali minimi, facilità di lettura, consueto (e, come di consueto, in alcuni punti forse anche esagerato) scoppiettìo di metafore, similitudini e iperboli, personaggi “esemplari”, ognuno dei quali riveste una funzione ben precisa nel gruppo dei protagonisti. Siamo molto più vicini ad Alla grande che a Tolintesac, ma non si tratta di un passo indietro. Si tratta di un libro “di passaggio” nella crescita di Cristiano come scrittore. Uscito a solo un anno di distanza dal secondo, forse ha in una (giustissima!) logica editoriale la funzione di mantenere visibile l’autore al grande pubblico e di accrescere il gruppo dei fans. Il rischio in questi casi è alto, perché la fretta di tornare in libreria, di “sfruttare il successo”, ha fatto vittime illustri che sarebbe inutile nominare e che sono comparsi sugli scaffali con libri assolutamente improbabili e improponibili che hanno invece ottenuto l’effetto contrario di bruciare il nome “alla moda”. Sono discorsi troppo terra terra per una nobile arte come la letteratura? No, è il mondo entro cui ci si deve muovere con un’intelligenza che vada oltre l’abilità scrittoria. E Cristiano secondo me supera questa prova perché il libro arriva presto in libreria, si adagia nella scia dell’interesse suscitato da Tolintesac ma non dà mai l’impressione di essere un libro scritto così, tanto per cavalcare l’onda. Dà l’impressione di un libro scritto a grande velocità, con i difetti che ne possono derivare che però scompaiono dietro al sentimento di urgenza del raccontare che traspare dalle pagine. La carta vincente del libro è questa: Cristiano fa in questo libro ciò che molti, a mio parere sbagliando, hanno detto abbia fatto nei primi due: racconta la propria vicenda personale. E lo dichiara in maniera palese. Non importa quanti dettagli inventati e quanti reali (anche se potremmo qui indicarli tutti, noi che c’eravamo) siano presenti in questa storia e quanti invece ce ne fossero nei primi due libri. Importa che nei primi due dominante era la volontà romanzesca, di fiction, mentre qui è la realtà “storica” quella che conta. I ragazzi della squadra alla fine perdono il loro soprannome e diventano un nome e un cognome reali. L’autore stesso dichiara di essere quel personaggio (il condizionale è solo un vezzo, la vera cosa da notare è la comparsa del nome dell’autore al di fuori di qualunque gioco postmodernista e donchisciottesco che abbiamo spesso visto in molte opere degli ultimi anni). Quasi tutti vengono “battezzati” in realtà, e il Mister diventa tre persone, ma ciò che conta è l’intenzione di Cristiano di associare a quei personaggi delle “persone” in carne e ossa. Passare dal romanzo all’autobiografia (romanzata quanto si vuole) è stata secondo me la scelta giusta per affrontare quel momento di passaggio e di riconferme a cui si accennava prima. Scelta giusta perché l’imperfezione dell’opera perde importanza di fronte alla sincerità e all’urgenza che si avverte di volere raccontare proprio quelle vicende (complice anche una dose di divertimento puro che supera quella dei primi due libri). Sbaglio a dire autobiografia, perché un’altra scelta giusta e azzeccata è, paradossalmente, proprio quella di sottrarre importanza all’io narrante (Bastiano in Alla grande, il ragazzo e soprattutto la nonna in Tolintesac) per allargare l’osservazione a un gruppo di personaggi. Ci abbiamo vinto un mondiale con lo spirito di squadra, figuriamoci se non ha un effetto positivo all’interno di un racconto!
Finora ho mantenuto quel distacco critico che dicevo di volere abbandonare ma c’è un argomento di fronte al quale qualunque razionalità e qualunque distanza si annullano, lo stesso argomento che permette di spiegare due affermazioni apparentemente contraddittorie che ho fatto in questa paginetta. Cosa fa sì che una storia che è dichiaratamente un pezzo di vita di un gruppo di persone ben precise, addirittura identificate quasi burocraticamente dal nome e dal cognome, possa diventare una storia che migliaia di persone possono leggere come la propria? La risposta è semplice: lo sport. Ognuno può sostituire il calcio col proprio sport preferito, ma ciò che conta è quello che ci sta dietro, la passione sfrenata, appunto totalmente irrazionale e immotivata, che travolge anche le persone più insospettabili di fronte alla competizione sportiva. Soprattutto quando l’età ti concede ancora di credere che ciò che succede in quel campo sportivo sia la cosa più importante della tua vita. Così anche il ciclista o il ginnasta possono riconoscersi nel libro di Cristiano e identificarsi in quei ragazzini che vivono del calcio inteso come esperienza di vita a 360°. Anche la schiappa peggiore della terra, anche il più ciccione, sgraziato, scoordinato degli esseri umani, ha dei ricordi legati a un campo di calcio, a una pista di atletica, a una palestra, a un tavolo da ping pong. L’unico canestro segnato, l’unico muro messo a terra, o più sfigatamente la pallina da tennis che ti ha fratturato il naso, quella volta che senza l’intervento di uno dei tanti Brustolo sparsi nelle piscine di paesi e città saresti annegato. La tensione, l’acido lattico che ti blocca i pochi muscoli che normalmente ti funzionano a dovere, l’adrenalina che ti si scarica fra il cuore e lo stomaco, il dolore che ti procurano una caduta o una sconfitta, la corrente elettrica che ti collega al tuo compagno di squadra, l’unico che in quel momento ti permette di non affondare. Sono queste le sensazioni su cui il libro fa leva per rendersi “familiare” al lettore, per coinvolgerlo e per rendere “universale” una storia tanto legata a quei luoghi e quelle persone. Ogni lettore, giunto alla fine, potrebbe riscrivere la formazione, con i nomi, i cognomi e i soprannomi che sono tornati a galla nella memoria o che popolano il suo presente.
Quasi un anno fa Cristiano mi chiese il permesso di usare il mio nome e cognome nel libro. In più di un’occasione avevo ribadito su questo giornale quanto fossero stupide le arrabbiature di chi si era riconosciuto in Alla grande e non aveva gradito il trattamento riservatogli, spiegando che quella era comunque una storia inventata. Non potevo quindi certamente rifiutare il mio nome, anzi mi intrigava l’idea che fosse appioppato al personaggio di un romanzo e mi chiedevo cosa gli avrebbe fatto fare Cristiano. E’ successa invece una cosa diversa, cioè che Cristiano non ha usato il nome per un personaggio, ma ha detto che quel personaggio sono io (anche se, ahimè, non ho mai segnato quel goal a Borgo Ghibellino e delle Toccate me ne riuscivano ben meno che una ogni due settimane). E’ una differenza sottile - che se prima ho cercato di definire da un punto di vista “tecnico”, non riesco a spiegare da un punto di vista “sentimentale” - ma decisiva. Credo che leggere le ultime due pagine, la formazione degli esordienti, getti una luce diversa su tutta la storia raccontata in precedenza. Non solo per chi si trova in quell’elenco, o conosce le persone di quell’elenco, ma anche per un lettore di Canicattì. E’ come se un bambino abituato a guardare le figurine Panini all’improvviso si trovasse di fronte i calciatori in carne e ossa. Quelle due pagine danno tridimensionalità alla storia e l’asse Z è quello della realtà.
Questi meccanismi non sempre funzionano. Spesso anzi molti testi falliscono per essersi voluti avvicinare troppo alla realtà. Questa volta l’esperimento riesce perché non sottrae nulla alla magia del racconto, anzi le regala qualcosa. E’ la formula giusta per la fase che sta attraversando Cristiano, non significa che lo sia per ogni occasione. A me piacerebbe anzi che il prossimo passo della crescita di Cristiano come scrittore fosse il distacco dalla realtà vissuta in prima persona, l’applicazione di una ormai raggiunta maturità stilistica e narrativa ad altre tematiche, altri luoghi, altre storie. Cristiano dice sempre di non essere uno scrittore ma un “raccontatore di storie”, una specie di medium attraverso il quale si fissano sulla carta alcune vicende che lo hanno interessato in maniere e forme diverse. Non credo sia del tutto vero, non è vero che non inventa nulla ed è vero che in ogni caso reinvesta tutto, anche il fatto più minimale realmente accadutogli il giorno prima. Se non nel contenuto, nella forma. E queste sono le doti di uno scrittore. E uno scrittore deve provare, tentare, sperimentare, spaziare, strabordare, sorprendere. Anni fa, aveva pubblicato forse appena un paio di racconti, Cristiano mi disse che gli sarebbe piaciuto tentare la narrativa “di genere” perché lo intrigava l’idea di avere regole, schemi, modelli, tecniche su cui lavorare. Gli sarebbe piaciuto scrivere un giallo. A me piacerebbe leggere un giallo scritto da Cristiano, perché credo che saprebbe farlo. E saprebbe farlo bene, non come uno dei tanti scrittori che infilano un paio di cadaveri nel proprio libro anche se vorrebbero raccontare tutt’altro ma quello è l’unico modo in questa congiuntura editorial-letteraria-commerciale di vendere un po’ di copie del proprio libro. Ma questo è solo un desiderio personale, non certo un consiglio (che se poi mi prende sul serio e poi va a finire male mi rimane sulla coscienza). Credo che l’importante per uno scrittore (per tutti certo, per uno scrittore, un musicista, un attore, forse un po’ di più) sia il desiderio di battere strade nuove, di non fare sempre e solo quello che da lui ci si aspetta, di fare fruttare le proprie abilità ramificandole in più direzioni. Ricordate Achtung Baby degli U2? Fu uno stravolgimento per chi era abituato da quasi un decennio alla musica della band di Bono, allora – era il 1991, più o meno – si parlò di vera e propria rivoluzione che non investiva solamente i quattro irlandesi ma tutto il mondo musicale. C’è stato forse un punto più alto nella loro carriera? No, ditemi tutto quello che volete ma rimango dell’idea che né prima né dopo il gruppo abbia fatto qualcosa di altrettanto importante e, semplicemente, bello.
Il rischio, naturalmente, è alto, molto alto. Si può diventare un Ammaniti che da giovane cannibale esponente della moda letteraria del momento (10 anni fa) diventa forse il più completo e maturo dei narratori under 40 di oggi. O si può diventare un Brizzi, che dopo l’esplosione fragorosa del primo libro si spegne lentamente rincorrendo un colpo d’ala che continuamente sfugge. Credo, e ripeto, che in questo periodo si giochi una partita importante per la “carriera letteraria” di Cristiano (notate bene le virgolette, denotano la leggera ironia che sempre deve ammantare parole troppo spesso enfatizzate, la carriera e la letteratura, e credo che su queste virgolette Cristiano sia più che d’accordo con me). La sua strada, le sue strade possono percorrere mille direzioni diverse. Cristiano-scrittore si è conquistato la stessa libertà dei ragazzini di cui racconta, la libertà di potere ancora scegliere, di potere indirizzare la propria vita. Questo si avverte nelle sue pagine, soprattutto in quelle di quest’ultimo libro, nel divertimento che trasuda dalle righe. Non possiamo augurarci che tutto questo continui, qualunque sia la strada intrapresa.
Michele Righini