Questa è la piccola-grande storia di un organismo dai tratti bizzarri, una pianta che ha avuto grande fortuna nell’adattarsi alle difficili condizioni che la vita pone costantemente, durante il suo perenne movimento evolutivo. Eppure l’organismo in questione ha bisogno di presentazioni. Se stiamo alle parole di Darwin, infatti, l’incredibile varietà di specie e sottospecie, sia animali che vegetali, sarebbe prodotto non da un equilibrio provvidenziale – la Creazione della vita nel suo eterno stato d’immobile armonia – quanto semmai dal caos delle mutazioni, dal marasma dei rapporti interorganici, dalla silenziosa guerra per la sopravvivenza. Questo è uno dei punti-chiave presenti nella celebre teoria di Darwin, quella che vede l’evoluzione per «selezione naturale». Ma non fu facile per il gentlemen inglese divulgare il proprio lavoro, frutto di un’indagine duratura che lo vide protagonista di un glorioso viaggio intorno al mondo sul brigantino Beagle, durato ben 5 anni. Tornato finalmente in madrepatria, dovette aspettare altri 19 anni prima di pubblicare la sua opera magna, L’origine delle specie (1859).
Il motivo è presto detto: come si può dimostrare qualcosa che c’è ma non si vede? Se ci volgiamo alla natura e la contempliamo dal nostro punto di vista, quello di semplici osservatori, la vita ci pare quasi immutabile, fissata come in un quadro. Non siamo in grado di cogliere le disuguaglianze genetiche tra individui e generazioni di una data specie. Le nostre colline pullulano di vegetazione che sembra non variare se non al ciclo delle stagioni; così gli animali appaiono sempre gli stessi, con qualche sfumatura di nuovo nell’aspetto, ma i comportamenti sono pressoché i medesimi. In fondo, le piante sono piante, gli animali sono animali. Nessuno vive abbastanza a lungo da notare un cambiamento netto nella differenza di specie. Nessuno può oltremodo affermare come e quando ciò sia accaduto nella storia del mondo, se non avvicinandosi per verosimiglianza, facendo una stima del tempo che fu con i dati che abbiamo nel presente. All’epoca di Darwin, tra le prove scientifiche che rafforzavano la sua teoria, si annoverano le scoperte della moderna paleontologia: il ritrovamento di antichi fossili, come quelli dei grandi rettili del passato, testimoniava il lento ma costante processo di trasformazione degli organismi. Non solo: anche la geologia muoveva passi da gigante, rivelando come la Terra fosse molto più antica di quanto si credesse allora (la tradizione religiosa datava l’origine del mondo circa nel 6000 a.C., periodo in cui la Bibbia faceva coincidere l’evento del Diluvio Universale). Tutto ciò era esplicativo di un lento meccanismo di variazioni in cui gli esseri viventi sono coinvolti da sempre, dalla loro prima comparsa sul pianeta. L’evoluzione diventa così una trama sotterranea impercettibile ai sensi, poiché, per manifestarsi, necessita di tempi lunghissimi, così lunghi che è impossibile da immaginare.
Negli anni subito prossimi alla pubblicazione del suo capolavoro, l’ormai celebre naturalista si dedicò completamente allo studio delle piante, nel giardino privato di Down House. In primo luogo perché la teoria, con i suoi effetti, aveva sconvolto non solo la comunità scientifica, ma gran parte dell’opinione pubblica di tutto il mondo (non dimentichiamo le vignette satiriche pubblicate al solo scopo di porre in ridicolo le idee di Darwin). Le sue implicazioni non si ponevano solo in antitesi con l’immagine millenaria della natura – il “paradiso terrestre”, lo stato di perenne armonia tra le creature – ma portava con sé conseguenze sociali tali da giustificare – ne saranno l’esempio i futuri nazionalismi – l’ascesa di certi popoli a discapito di altri. La botanica rappresentava un campo del sapere dove poter fare ricerca senza il rischio di altri scompigli, un luogo sicuro, estraneo alla sfera pubblica e fuori portata dagli attacchi degli antievoluzionisti. In secondo luogo, proprio attraverso la sperimentazione, Darwin poteva osservare direttamente i cambiamenti che avvenivano fra le generazioni delle molteplici specie provenienti dal suo giardino (immaginiamo che, esattamente negli stessi anni, Gregor Mendel indagava sulle leggi dell’ereditarietà nell’isolato monastero di Brno).
Forse non tutti sanno che, proprio in questo periodo, Darwin pubblicò una monografia dedicata esclusivamente alle orchidee:
«Nel mio studio sulle Orchidacee nessun altro fatto forse mi ha tanto colpito quanto la indefinita varietà di struttura, — la prodigalità dei mezzi per raggiungere uno stesso ed identico scopo, vale a dire la fecondazione di un fiore col polline di un’altra pianta».
A parere dell’inglese, le piante mostravano capacità di adattamento incredibili e meccanismi di sopravvivenza che nulla avevano da invidiare alle facoltà animali o umane. In Fecondazione delle orchidee (1862) – questo è il titolo dell’opera – l’autore elenca una vasta gamma di generi e specie, descrivendo, con un misto di accuratezza e visibilio, le singolari tecniche dei fiori atte alla «dicogamia» (ossia la “fecondazione incrociata”). Con tale scritto, Darwin apriva ufficialmente una nuova stagione di studi botanici in cui centrale era il rapporto interspecifico: la conformazione dei fiori di una data pianta va compresa a partire dall’interazione col suo insetto impollinatore. Secondo Darwin, l’indagine sugli esseri viventi non poteva prescindere dai loro rapporti con altre forme di vita (fino a quel momento, le scienze naturali si limitavano alla mera classificazione e descrizione morfologica degli organismi, presi nella loro singolarità). Così, data la centralità dell’impollinazione nelle piante, Darwin si accorse che si poteva desumere l’aspetto di un insetto a partire dalla struttura di un dato fiore (e viceversa). L’esempio più memorabile riguarda l’ipotesi che proprio l’autore dell’opera fece a proposito di una falena del Madagascar all’epoca sconosciuta: prendendo in esame una specie di orchidea originaria dell’isola – l’ Angraecum sesquipedale – Darwin ipotizzò che dovesse esistere un lepidottero (farfalla o falena) in grado di fecondarla. Quarant’anni dopo quella predizione si rivelò veritiera: nel 1903 due entomologi individuarono una falena notturna, la Xanthopan morganii, che possedeva una spiritromba lunga quanto il nettario del suo fiore (25 cm). Gli studiosi affibbiarono alla falena l’epiteto «praedicta» in onore della celebre intuizione di Darwin:
«Si può domandare, a quale scopo possa servire un nettario di una lunghezza tanto sproporzionata. […] Restiamo stupiti che un insetto qualsiasi possa essere capace di raggiungere questo nettare. […] ma nel Madagascar devono esistere farfalle notturne la cui proboscide può essere allungata sino a dieci o undici pollici!»
Veniamo dunque a capo di questa lettura. Sulle nostre colline, in primavera, sbocciano i fiori di un’orchidea abbastanza comune in tutta Europa, denominata Ophrys apifera. Tuttavia, a colpo d’occhio, senza un’adeguata conoscenza, non siamo in grado di cogliere i suoi elementi più fondamentali. L’organismo, infatti, se osservato con attenzione, rivela un aspetto insolito, tant’è che pure Darwin, nella sua monografia, si domandava per esempio come mai tale pianta presentasse caratteri discordi tra loro: la presenza di organi sessuali sia maschili che femminili nei fiori indicavano la pratica dell’auto-impollinazione (come accade nei fiori ermafroditi), ma la concomitanza di altri organi peculiari riflettevano senza dubbio una fecondazione per incrocio: «Giudicando dalla struttura dei fiori di O. apifera, mi sembra quindi quasi certo che essi, in un periodo anteriore, siano stati accomodati per una fecondazione incrociata […]». In sintesi, è come se l’Ophrys apifera sia stata «costruita» – dice Darwin – per entrambi gli scopi, sebbene abbia infine favorito l’autoriproduzione, considerato che nessun insetto pronubo la visiti (infatti, non possiede nettare). Ancora una volta, dopo tanti anni, la scienza ha mostrato come i dubbi di Darwin fossero fondati: ad oggi, infatti, possiamo dire che Ophrys apifera abbia subito un’evoluzione tale che, sotto la spinta della selezione naturale, sia mutata per il venir meno del suo insetto impollinatore. Ma come ciò sia stato possibile ha dell’incredibile.
Gli ultimi studi condotti sull’orchidea fanno emergere che essa sia stata anticamente visitata da un insetto che ora è creduto estinto. Se la si guarda da vicino, infatti, si può notare che il labello presente sui fiori ricorda l’addome di alcuni insetti. Siamo di fronte a un caso di «mimesi sessuale», fenomeno per cui alcune specie emulano nell’aspetto (forma e pelosità), nel colore e nell’odore le femmine degli insetti impollinatori, al fine di attrarli sui propri fiori. La strategia di fecondazione qui descritta è unica della famiglia delle orchidee e riguarda le Ophrys del Mediterraneo, nonché pochi altri generi di orchidee australiane. Inoltre, il peculiare rapporto tra orchidee ed impollinatori è così stretto che molte specie sono fecondate da una o pochissime tipologie di insetti. Altre piante, invece, adoperano una tecnica diversa ma con lo stesso fine: moltissimi generi di orchidee, per esempio, approfittano dell’innato comportamento alimentare degli insetti per trarli in una “tresca biologica”: i colori vistosi, l’ampia forma del labello, la finta presenza di una ricompensa (come il nettare) catturano l’attenzione degli ignari visitatori che vengono così ad impollinarne i fiori (la «mimesi alimentare» si ha in Orchis, Disa, Cephalanthera). Tali orchidee fioriscono a inizio primavera poiché, essendo i loro impollinatori appena fuoriusciti dalla stagione invernale, non sono ancora capaci di distinguere le piante nettarifere da quelle ingannatrici.
Ophrys apifera, probabilmente, deve aver mutato le sue caratteristiche a seguito della scomparsa del suo insetto. Sotto la pressione della selezione naturale, si è salvata adattandosi alle nuove condizioni che la natura le aveva sottoposto. Tuttavia, l’orchidea porta nel presente i tratti del suo passato evolutivo, nonché il fantasma di un antico vissuto: con sé ha mantenuto le tracce di un organismo di cui ora abbiamo solo uno sfocato ricordo. La “teoria dell’inganno”, comprovata dagli studi più recenti, non era condivisa all’epoca da Darwin, che giustificava la coevoluzione di piante ed insetti come frutto del caso. Diversamente, Federico Delpino, suo ammiratore e corrispondente italiano, fu tra i primi sostenitori di quest’idea, immaginando una natura soggetta sì ai mutamenti accidentali, ma capace nel contempo di attuare le più brillanti e ingegnose strategie che svelano, negli organismi complessi, un’intelligenza atavica in mutamento.
Secondo il parere di chi scrive, la teoria scientifica è rimasta fossilizzata, per certi aspetti, sulla dottrina evoluzionistica classica, tanto da sottovalutare ancora molti fenomeni organici, antichi quanto la vita stessa. Come si può evincere dalla storia di una piccola orchidea, ignorando la complessità dietro a manifestazioni che riteniamo comuni o prive di significato, siamo portati a trascurare le grandi verità sul nostro presente – come la nostra completa dipendenza dall’attività fotosintetica o come la presenza di organismi eucaroitici, vecchi milioni di anni, a cui dobbiamo la nostra permanenza sulla Terra.
Nulla va dato per scontato; nulla viene per caso.
Lorenzo Sabbatani