Ho saputo solo adesso, ma il libro è datato 2008, di questo …ritorno in maggio: storie di montatori e cantieri, scritto da Pier Ugo Acerbi, semplicemente “il De” per tutti i casolani (ma leggendo viene il sospetto che il soprannome possa essere conosciuto a livello planetario!). Pur con ritardo vale la pena parlarne non per completezza “recensoria” delle fatiche letterarie dei nostri compaesani, ma perché il libro è godibile, curioso, divertente e, perché no, anche “educativo”. Non per nozioni, dati o fatti che riporta ma per lo spirito che lo percorre. Su questo torneremo.
Il titolo per chi conosce il De è chiaro, si tratta di un resoconto delle esperienze che Pier Ugo ha accumulato negli anni di lavoro all’estero per la Sacmi, in industrie ceramiche sparse per tutto il mondo in cui gli impianti Sacmi permettono la produzione. Un frammento di autobiografia quindi e d’altra parte si capisce presto che il De non aveva certo bisogno di inventare storie d’avventura per rendere interessanti i suoi racconti. Pur non conoscendo Pier Ugo personalmente, pur avendolo sempre solo visto a Casola, in Pizzeria o a passeggio nei momenti di “stasi”, mi viene da chiamarlo il De, me ne scuso con lui ma sono certo che possa accettarlo visto che nel libro dimostra di essere pienamente cosciente della potenza che può avere un soprannome appiccicato in Romagna. Confesso poi che fino a una certa età non conoscevo neanche il suo nome di battesimo, era il De e basta, personaggio circondato da una sorta di alone di mistero per me che ne sentivo parlare fra i suoi amici quando salivo sul carro della Saknussem: “Sai che il De è tornato dall’India”, “Stasera andiamo a salutare il De che parte per la Cina”. Io ero bambino, loro di poco più grandi e il De una specie di esploratore dei sette mari di cui conoscevo solo la faccia (perché una volta mi ero ritrovato in mezzo a uno degli incontri fra lui, di ritorno da chissà dove, e quegli amici, durante le prove dei vestiti per un carro) e quello strano soprannome. La lettura delle avventure di questo esploratore moderno, a 25 anni di distanza, non hanno deluso le fantasie di bambino.
Cina, India, Unione Sovietica (si chiamava ancora così), Indonesia, è verso Est che parte la maggior parte dei viaggi raccontati nel libro, ma un intermezzo nel Messico - fra ranch, mustangs e belle muchachas – merita una citazione per il senso di libertà che riesce a trasmettere e per la suggestione dei paesaggi evocati. L’Est la fa da padrone, dicevamo, e forse anche per questo l’idea che maggiormente emerge dal libro è quello di come il mondo sia cambiato in questi ultimi 25 anni (i racconti abbracciano l’arco di tempo metà anni ’80-fine anni ’90). Quel quadrante di mondo è quello che forse ha subito le maggiori rivoluzioni, dalla caduta del Muro e dell’ideologia che rappresentava alla crescita economica impetuosa e travolgente di Giappone prima e Cina e India adesso. Si ha l’idea che il De racconti di un mondo che non esiste più (e lui stesso vi accenna in alcuni casi, soprattutto parlando della Cina) e questo, oltre a rendere più preziosa la sua testimonianza, un po’ spaventa perché gli anni raccontati sono ancora molto vicini. Oppure, un po’ ci inorgoglisce, perché quella avvenuta è stata un’evoluzione tecnologica, economica e sociale? Non so, non ho una risposta, forse il futuro la darà. Sta di fatto che molte delle avventure vissute dal De, molte delle difficoltà incontrate, oggi forse non si verificherebbero più. Penso in particolare all’aspetto della comunicazione. Oggi un buon cellulare, o la planetaria copertura di Internet, rendono obsoleti i tentativi di comunicazioni con l’Italia fatti, ripetuti e spesso falliti dall’unico telefono a gettoni di tutta la fabbrica. Se negli anni raccontati suonava già antiquata la calcolatrice a manovella utilizzata dal “ragioniere dei montatori”, oggi fa sorridere pensare alla difficoltà di prenotare un biglietto aereo, quando non c’è più bisogno neanche di trovare un luogo per farlo viste le possibilità offerte dalla Rete. Che non sono infinite chiaro e ancora oggi, per fortuna, esistono zone non coperte o che per essere raggiunte richiedono sforzi non banali, ma non c’è dubbio che da questo punto di vista, quello raccontato dal De era davvero un altro mondo e un altro modo di “essere in viaggio”.
Un modo che forse permetteva una migliore conoscenza dei luoghi in cui il De, con la sua squadra di montatori, doveva vivere anche per qualche mese. Il De racconta che una volta in Cina uno dei montatori aveva portato con sé uno dei primissimi computer portatili (un 386 con 16 Mega di Ram che lavorava in Dos, fa quasi tenerezza) su cui era installato un simulatore di volo, e quello era diventato il divertimento serale di tutti i montatori italiani. Un’avvisaglia di un modo di viaggiare più “contemporaneo”, quando stai in un paese lontano mille miglia ma come una tartaruga tecnologica porti con te la tua casa racchiusa in un PC, le tue abitudini, i tuoi svaghi, la possibilità di comunicare con chi è rimasto a casa, ecc. E questo impedisce spesso di aprirsi a una reale conoscenza dell’altro. Il tutto detto senza snobismi passatisti sul tipo “si stava meglio quando si stava peggio” per carità, anzi consci dell’eterna gratitudine verso le nuove tecnologie che immaginiamo possa provare chi è costretto a stare lontano da casa per mesi e magari le sue esperienze di conoscenza dell’“altro” se le fa quotidianamente durante il lavoro. Anche perché questi lavoratori-viaggiatori capitano raramente in paradisi delle vacanze e molto più spesso in luoghi come Tianjin, in cui il De e compagnia si trovavano con quel primo portatile: “Oggi a Tianjin c’è poco o niente. Allora solo niente”, dice Pier Ugo con la simpatia e l’ironia che caratterizzano il suo sguardo e la sua scrittura.
Un’ironia che non impedisce all’autore (ma soprattutto all’uomo) di avvicinarsi con grande rispetto e curiosità verso le culture in cui si trova a vivere, così diverse dalla nostra (anche in questo caso, in epoca pre-globalizzata, ancora più lontane di quanto oggi non possa essere). Qui sta l’atteggiamento e lo spirito educativo che pervade il libro (in maniera spontanea e naturale, assolutamente non volontaristica e quindi ancora più importante), nel desiderio di conoscere, di vivere il luogo e le persone che lo abitano, senza pregiudizi, con curiosità e rispetto. E nello stesso tempo di misurare la propria cultura su quella dell’altro, di donargliela se si dimostra ricettivo, in un’ottica di scambio e arricchimento personale. Tutte belle parole che illustrano la teoria, che riempiono i libri di chi si occupa dell’incontro interculturale e che nel libro del De si trovano concretizzate in piccole storie quotidiane, nel giornaliero confronto con le abitudini di vita altrui, episodi minimi che messi uno sull’altro rendono reali le teorie (spesso prima che queste vengano pomposamente formulate). In tempi in cui per avere a che fare con un cinese o un indiano o un ucraino non abbiamo bisogno di viaggiare ma ci basta uscire di casa, beh, l’atteggiamento del De può insegnarci qualcosa.
Poi c’è il divertimento e l’avventura dei brevi racconti del De, ci sono i cinesi che intonano Bella ciao (la fede comunista come elemento di globalizzazione ante litteram, uno spunto niente male) per ringraziare gli operai Sacmi, c’è la preoccupazione per un compagno punto o morso da qualche pianta o animale sconosciuto, c’è la cerimonia degna di un teatro di posa messa in scena in Turchia per fare una foto tessera e c’è lo sgomento sensoriale di fronte a una cerimonia religiosa indiana. Ma di queste cose è inutile e dannoso che parli io, basta leggere e si parte per il giro del mondo.
Michele Righini