Giuseppe Gamberini, in occasione del centenario della morte, rievoca il su incontro postumo con lo scrittore Alfredo Oriani

COME INCONTRAI ORIANI 50 ANNI DOPO

Il mio primo incontro con Alfredo Oriani, o meglio con le sue opere (non sono così longevo!) risale ai tempi dell’adolescenza.
Frequentavo, a Bologna, la prima classe dell’Istituto Magistrale “Giuseppe Albini”. Da pochi giorni ero sceso, da Casola Valsenio, nel ventre della grande città, lasciando campi, boschi, orizzonti appenninici, mi sentivo come Renzo Tramaglino a Milano: strade che sbucano in altre strade, fino a toglierti il respiro.
La casa che mi ospitava era vuota per tutto il giorno, così, invece di approfittarne per studiare in santa pace, me ne andavo a zonzo come un cane randagio. Mi servivano tanti libri, ma i soldi erano pochi e sempre accompagnati dalla raccomandazione di non spenderli se non per assoluta necessità. Così mi fermavo spesso alla libreria Arnaldo Nanni, a due passi da San Petronio, sotto il portico di Via de’ Musei, a rovistare fra vecchie edizioni a buon mercato.
Fu lì che “incontrai” Alfredo Oriani.
Presi in mano Ombre di occaso e trovai quel prologo in forma di lettera ad una fantomatica signora (creatura di fantasia o di sogno), che si apriva col luogo e la data: Casola Valsenio, 23 ottobre 1900. Ebbi un tuffo al cuore, come se avessi incrociato qualcuno della mia famiglia.
Fu il primo acquisto voluttuario ed anche il primo contatto con una prosa che mi affascinava e pare abbia condizionato almeno in parte il mio modo di scrivere, tanto da farmi diventare il solito giornalista “con un brillante avvenire alle sue spalle”. Però l’approccio a quegli scritti avvenne nella chiave giusta: amando, cioè, l’autore prima ancora dell’opera e del suo contenuto. Lo sentivo vicino, non solo per ragioni geografiche, ma anche perché percepivo in lui l’amarezza del predicatore inascoltato e il dramma dell’uomo incompreso, rinchiuso dentro un penoso sentimento di esclusione.
Non fu facile nemmeno procurarmi le sue pubblicazioni. Il mio parroco, che aveva studiato in anni ben targati, possedeva l’opera omnia ed era disposto a prestarmela, ma a quell’epoca pre-conciliare i libri di Oriani erano all’indice e occorreva la “bolla” di autorizzazione del vescovo. La procedura fu lunga e complessa, anche se patrocinata dall’insegnante di religione, monsignor Bruno Giordani, ma finalmente arrivò il sacro documento pieno di formule solenni e di firme autorevoli.
Qualche anno più tardi, agli esami di Stato, rischiai di essere bocciato proprio in italiano, la mia materia preferita. Il professore della commissione esterna lesse il mio tema con un senso di disgusto, fin dalle prime battute, poi tracciò con mano decisa un sonoro quattro. Per mia disgrazia era di orientamento positivista e aborriva l’idealismo in tutte le sue manifestazioni. Per fortuna il professor Dionisio Dall’Osso, che fungeva da commissario interno e mi conosceva bene per essere stato il mio insegnante di lettere, contestò la severa votazione, fece presente che ero nato a Casola e avevo letto le opere del mio conterraneo. “Adesso capisco! – proruppe ancora più deciso il “pubblico ministero” – Proprio lui: quel nazionalista! Quel fascista! Il voto è quello e non si cambia”.
Con tutta la pazienza e l’energia del caso, l’avvocato difensore fece notare che l’autore del tema non era Oriani, ma un suo lontanissimo epigono, del resto l’ortografia era corretta, la sintassi a posto, il contenuto apprezzabile. Alla fine Robespierre si arrese e da quel momento in poi si dedicò ad altre occupazioni.
Alle prove orali, il professor Dall’Osso, che avevo intimamente adottato come figura paterna, mi prese in disparte e mi disse: “Ho fatto per te una battaglia durissima e alla fine ti ho portato a sette. Se eri mio figlio non la facevo così grande”. Quella frase mi colpì.
Intanto cresceva in me l’affetto postumo per il solitario del Cardello, frammisto al ricordo del paese che avevo definitivamente lasciato e alla nostalgia dell’infanzia, per quanto tribolata, tutta racchiusa dentro lo scrigno verde della valle del Senio. Con alcuni amici di scuola organizzai un viaggio al Cardello, rigorosamente in bicicletta, ma l’equipaggiamento era del tutto approssimativo. Fummo ricevuti dalla nuora dello scrittore, Luisa Pifferi, che ci squadrò da capo a piedi, mentre io, per la soggezione, non osavo nemmeno guardarla in viso. Ci colpì il fascino un po’ tetro dell’edificio, la solennità del mausoleo e la semplicità quasi dimessa dello studio.
Qualche anno dopo, munito di Cinquecento e macchina fotografica, mi appostai nei pressi della villa e riuscii a scattare un’istantanea con la signora davanti al cancello. Gliela mandai per posta e ricevetti subito un biglietto di ringraziamento munito dello stemma degli Oriani e scritto a mano con una grafia alta e spigolosa che somigliava in modo sorprendente a quella dello scrittore. Lo conservo ancora come una reliquia.
Non potevo immaginare, allora, che proprio attraverso quella piccola foto sarei entrato in comunicazione con lei e sarei stato accolto al Cardello come un amico. Camminavo in punta di piedi in quella casa-museo, nella penombra austera e suggestiva dei suoi interni, e mi aspettavo di veder spuntare da ogni porta la figura severa dello scrittore, accigliato, la barba e i capelli in disordine, vestito da ciclista.
La signora, però, era così amabile e alla mano, pronta alla risata, che mi aiutava a sciogliere quella suggestione. Io l’aggiornavo con un po’ di imbarazzo sulla mia sfortunata battaglia per dedicare una strada al suo grande suocero. C’era qualcuno che sentenziava: “Imola democratica non avrà mai una strada intitolata all’ispiratore del fascismo!” “E allora Bologna, Ravenna, Roma? – replicavo senza successo – Ma quale fascismo? Alla morte di Oriani, Mussolini era ancora socialista”. Lei sorrideva e concordava con me sul fatto che, se fosse vissuto più a lungo, sarebbe stato tutt’altro che fascista e forse sarebbe finito in carcere. Adesso la Via Oriani esiste anche a Imola ed è forse un frutto dei tempi nuovi.
A volte la signora mi mostrava le infinite precauzioni che aveva escogitato per scongiurare le intrusioni dei ladri, poi aggiungeva sconsolata: “Ma ciò che l’uomo fa, l’uomo distrugge, magari un giorno mi entrano dal tetto!” Si teneva pronta a quella evenienza dormendo col fucile al capezzale e, al più piccolo rumore, con la mano sul grilletto. Una notte rincorse con quell’arnese due furfanti che stavano svaligiando il salottino, ma quelli si misero in salvo scavalcando precipitosamente il muro di cinta oltre il quale li aspettavano i complici a bordo di un furgone.
“Certe volte me la prendo anche con mio marito – diceva fra il serio e il faceto. – E’ comodo morire all’improvviso e lasciarmi qui con questa eredità che non so proprio come destinare. Non posso certo regalarla a chi aveva trasformato questa casa in un bivacco, accendendo il fuoco coi manoscritti originali di mio suocero e sparando eroicamente al suo ritratto. Il Cardello non può diventare un giardino pubblico: ognuno porta a casa un ricordino e un po’ alla volta sparisce tutto”.
Proprio al colmo di quella incertezza si fece avanti un millantatore che aveva scovato chissà dove un giovanotto col cognome dello scrittore e voleva accreditarlo come possibile erede. “Dal momento che conosce la signora, – mi diceva – ci aiuti a convincerla e ci sarà qualcosa anche per lei”. Naturalmente misi in guardia l’interessata, ma mi accorsi subito che non ce n’era bisogno. “Sì, sì, è venuto un signore con un ragazzotto appresso a farmi strani discorsi. Io gli davo corda, così se n’è andato subito, tutto contento”. E giù una bella risata. Alla fine ebbe ben altro consigliere in Giovanni Spadolini e lasciò tutto all’Ente Casa Oriani di Ravenna.
Nessuno mi avvertì della sua malattia e della morte, avvenuta il 26 gennaio 1979, così non potei farle visita in clinica, a Faenza, e neppure riaccompagnarla per sempre al Cardello, dove ora – ne sono certo – conversa amabilmente col marito Ugo e il suocero Alfredo. Ogni volta che passo lì sotto (e accade spesso) immagino di sentire in lontananza la voce stentorea del grande oratore, il parlare pacato del figlio e la sonora risata della nuora.

Giuseppe Gamberini
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