Beh, intanto: BUON 2008 A TUTTI! La redazione augura a tutti, lettori e non, di passare un anno davvero felice. A livello personale, certo, ma l'augurio si estende anche alla serenità 'collettiva', alle grandi tragedie, che alla fine poi colpiscono persone, singoli.Oltre agli auguri, consueto regalo di inzio anno. Il racconto che Cristiano ha letto il 27 dicembre, in occasione di Serata '900. Come sapete il tema era l'informazione a Casola, e naturalmente di questo parla il racconto.Quindi, buona lettura buon divertimento!

L’odore dell’inchiostro nella sede dello Specchio, nello stanzone all’ultimo piano del convento delle Suore, quando accompagnavo mia mamma che andava a impaginarlo.
Checco Rivola avrà avuto sei anni, ma lo chiamavano già ‘vice direttore’: non so perché ma lo ricordo sempre presente, vestito a modo, tipo della cresima, con un gran ciuffo di capelli biondi sulla fronte.
Le pagine erano disposte in ordine su un lungo tavolo, e andavano impilate ruotandoci attorno: venivano consegnate alla fine a Sandra Landi, mi sembra, che le chiudeva con una puntatrice, le pagine frusciavano come foglie secche e i passi avevano qualcosa dello scalpiccio di una processione.
Quelle sere, quando mamma mi diceva ‘andiamo a fare il giornale’, me le ricordo sempre come dei giovedì immersi nella nebbia.
Chissà perché.
Probabilmente non era nemmeno quello il giorno.
Forse perché tante volte l’ho sognato così, e più invecchio, più confondo i sogni con i ricordi.
La leggendaria Rotaprint ci osservava lì di fianco, aveva tutta l’aria di un idolo pagano, scolpito nella pietra.
Fate conto di vedere una delle statue dell’Isola di Pasqua, ecco, aveva quel carisma lì.
Lo stesso sguardo.
Io quando entravo mi aspettavo sempre di vederci il Millo Montefiori inginocchiato davanti, in adorazione.
C’era questo spirito come di tribù.
Noi eravamo i Sioux delle praterie, mentre dall’altra parte di Piazza Oriani gli Apache del deserto rosso preparavano Il Senio. Era confezionato meglio del nostro giornale, patinato, oserei dire.
Tipo Playboy.
A tenerli in mano, Lo Specchio era ruvido, e Il Senio liscio.
Evidentemente gli Apache potevano contare su fondi che noi Sioux ci sognavamo.
C’era sempre qualche articolo e faccenda per cui disseppellire l’ascia da guerra.
Ci si sparavano bordate da un numero all’altro.
In realtà una delle polemiche più belle fu quella relativa alla chiusura dei bar alle due di notte.
Sarà stato il novanta o il novantuno.
Fino ad allora c’era una sorta di Far-west, con i bar che decidevano quando abbassare le saracinesche a loro piacimento.
Per la Movida casolana, che allora era nell’età dell’oro, con le notti magiche dei mondiali e il boom della Lanterna di Palazzuolo, era una pacchia.
Norrito e Tatulli chiudevano – a volte – alle quattro, una botta di straccio per terra e alle cinque riaprivano.
Non so se il sindaco o i carabinieri, sollecitati dai casolani che non riuscivano a prendere il sonno per via del rumore, decisero di far chiudere i locali alle due, tra settimana, e alle tre il venerdì e il sabato.
Stefano Mariottino, che tutti chiamavano Lopez, allora era un giovane imprenditore, proprietario - con Alfredo - di Addertronic, un negozio antenato di Mediaworld, ma più casereccio, se ne lamentò con una lettera allo Specchio.
Lui era di quelli che stavano fuori fino a tardi.
Perché, se ne aveva voglia, era il succo del suo ragionamento, non poteva bersi un caffè anche alle 4 di mattina?
Io mi sentivo parte in causa in quella vicenda, perchè davo già una mano nel bar, una mano per modo di dire, visto che proprio quell’anno stabilii un record mondiale: ne avevo così poca voglia che Tatulli mi licenziò due volte nello stesso giorno, alle undici e un quarto di mattina e alle otto e mezza di sera, dopo che mi ero ripresentato per intercessione di Norrito.
Comunque, mi sembrava strana la faccenda del caffè di Lopez.
Alle 4 di mattina non l’avevo mai visto bere un caffè, a meno che non glielo mettessero dentro alle bottiglie di Beck’s.
Però per me aveva ragione.
Non è che ci fosse poi questa grande confusione.
Vabbè, ogni tanto Fagiolo faceva un urlo, che svegliava puntualmente Bego, che se ne ricordava il giorno dopo e gli dava la maglia numero 18invece di quella numero 10, o Stefano Nannini partiva in sgommata con la 500, ma non mi sembrava questa grande tragedia.
Sandro Righini rispose chiedendosi perché mai bere un caffè alle quattro, invece di andarsi a letto, che era già ora?
Appena fu pubblicata sullo specchio, al bar incominciarono a preparare la ghigliottina, pronti per fare la rivoluzione.
Lopez era inferocito.
Rispose alla risposta.
Potremmo sintetizzarla in: gentile direttore, perché non va’ a…e consigliava un luogo che non si trova in nessuna carta geografica, ma molto conosciuto.
Poi, una birra dopo l’altra, ci si dimenticò di fare la rivoluzione e si arrivò al compromesso che bastava tenere abbassata la saracinesca a metà, e se non ti beccavano dentro a pagare, i carabinieri non potevano farti niente.
Il massimo delle legnate Lo Specchio e il Senio se le scambiarono per le elezioni comunali del ‘90, prima e dopo che la lista civica guidata da franco tronconi vincesse contro quella del partito comunista.
Io il lunedì in cui furono resi noti li scrutini ero al bar.
Al Bar Nuovo Tatulli e Norrito avevano fatto una specie di campagna elettorale tra i ragazzi maggiorenni perché votassero per Tronconi: immagino che una ventina di voti li abbia presi anche da chi alle quattro di mattina sente il bisogno di bersi un caffè dentro a una bottiglia di Beck’s.
Passò in bicicletta Palirò: ruotò la testa verso il bar, per rimproverare qualcosa a Tatulli, ma aveva un magone così grande, dal dispiacere, che non riuscì a parlare, e agitando una mano fece segno che sarebbe passato dopo…
Allora esisteva ancora la passione: eravamo gente con grandi sogni per le mani.
Erano anni d’oro.
Con diecimila lire ti facevi il sabato sera e oltre ai due giornali, Casola aveva due canali televisivi: antenna 306 e TV studio di Silvano Bernabei.
Antenna 306 era in qualche modo legata all’amministrazione comunale, mi sembra, ricordo benissimo che un giorno mi arpionò mio Zio Paolo per un braccio- solo Dio sa dove abitasse allora, a Giava o in Burundi – e mi tirò da parte ai giardini, nascondendosi dietro una siepe.
Aveva un’aria da cospiratore, e guardandosi attorno con circospezione, mi disse:
“Tieni questa”.
Sembrava dovesse consegnarmi il messaggio di una spia da oltre la cortina di ferro.
Io non capivo.
Quando c’è di mezzo mio zio Paolo, non capire è la norma.
Io mi guardai la mano.
“Te l’ho fatta prima, a tuo nome” mi disse, bisbigliando e controllando tra le foglie della siepe che nessuno ci vedesse.
Era la tessera di socio di Antenna 306.
Quando qualcuno mi chiede perché scrivo, invece di affannarmi a trovare chissà quali risposte, mi basterebbe prenderlo per un braccio,portarlo da mio zio Paolo, e lasciarlo in sua compagnia per qualche ora.
Gli diventerebbe tutto chiaro.
“E’… una tessera?” gli dissi io, deluso.
Con tutte quelle precauzioni e quel mistero come minimo mi aspettavo diamanti portati a Casola di contrabbando da Giava.
O dal Burundi.
Lui mi guardò molto seriamente, scuotendo la testa: era il suo modo per rammaricarsi di quanto fossi stupido.
Portava allora un paio di occhiali fumè, di quelli usati dalle dive di Hollywood per nascondersi dai paparazzi.
“Sgrazìè”, fu la prima cosa che disse.
A cinque o sei anni avevo il dubbio che fosse quello il mio nome.
Lui mi chiamava sempre così.
“Sgraziè” disse “tienila da conto…un giorno di sarà utile”.
Sbattei gli occhi una sola volta, e lui era già scomparso.
Come merlino dopo che ha insegnato a Re Artù come si maneggia Excalibur.
A me invece toccava farmi strada nel mondo sotto la protezione della tessera di socio annuale di Antenna 306.
Tra l’altro, lui mi aveva effettivamente registrato, ma poi scoprì che aveva lasciato da pagare.
“Passa mio nipote” aveva detto, come l’anno scorso con il mio regalo di compleanno.
“Ti ho fatto un pensiero” mi ha detto.
Era fine maggio, e io ho guardato il cielo per vedere se non nevicasse: poi sono passato da Ciata, e mi hanno detto che mio zio Paolo aveva lasciato una cosa da pagare.
“Passa mio nipote” immagino abbia detto anche quella volta.
L’informazione di Antenna 306 aveva il volto e la voce di un Giovanissimo Andrea Turrini, affiancato per lo sport da Paolo Gianelli, che allora portava un ciuffo di capelli ricci a penzoloni sulla fronte, simile a un grosso grappolo d’uva.
I suoi capelli non andavano tagliati, ma vendemmiati.
Ahimè, l’informazione di Antenna 306 non aveva solo il volto di Turro, ma anche i suoi orrendi gilet smanicati, a disegni floreali o barocchi, capaci di perforare una cornea umana a chilometri di distanza.
Io ero di quelli che guardavo il tg di Turro solo per vedere che tipo di gilet sarebbe riuscito a sfoderare quella volta.
La cosa triste, però, è che lo facevo perché quei gilet mi piacevano.

Il notiziario di TV Studio invece era condotto dalla figlia di Silvano, Cristina, e dalla Magichina, Sandra Leonardi.
Leggevano sedute dietro a una scrivania, con due pettinature che stavano alla storia delle acconciature per donna come i gilet di Turro stavano all’alta moda.
Le frangine, immense, scendevano come rastrelli sulla fronte.
Molti seguivano il notiziario solo per contare quante volte si sarebbero impappinate.
Erano molto giovani, del resto, e imbarazzate.
In televisione, allora, non è che ci andassero proprio tutti, come adesso…
Quel loro procedere a singhiozzi, tra una parola sbagliata e l’altra, era incredibile.
Riuscivano a farti venire l’agitazione per qualsiasi cosa.
A volte sembravano sull’orlo di mettersi a piangere.
E anche a te veniva un nodo alla gola.
Magari parlavano di un semplice consiglio comunale, e tu stavi aggrappato alla sedia come se ti stessero annunciando un maremoto devastante.

Tutti i numeri dello Specchio sono rilegati in una specie di enciclopedia.
Non so in quante copie fu stampata.
Ne ricordo una nella vecchia sede nel convento delle suore e una nello studio dell’Arci, Don Menetti, non l’associazione comunista.
Da piccolo la sfogliavo di continuo, soprattutto per andare a rileggere quello che considero il più grande reportage della storia del giornalismo italiano, la fuga e l’uccisione del Toro dei Bertaccini.
Mi sarò fatto raccontare mille volte da mia mamma, che c’era, ed era con tutta la mia famiglia chiusa in casa, di quando il toro è entrato di corsa nel cortile delle case popolari e si è infilato nella cantina.
Lei era incinta.
Era il settembre del 1973, otto mesi prima che nascessi, ma mi sembra di ricordare il frastuono degli zoccoli del toro abbattersi come colpi di cannone sulla pedana di legno della lavanderia.
Immagino gli sbuffi delle sue narici e le urla degli inseguitori che gli davano la caccia.
C’erano le foto del Toro che scappava per le vie di Casola, e dei Carabinieri che lo inseguivano con il mitra spianato, con favolosi pantaloni della divisa a zampa di elefante.
Il Millo Montefiori fece le fotografie, e l’articolo fu scritto dal punto di vista del toro.
L’ultima immagine era la testa dell’animale in una pozza di sangue, si intravede qualcosa nei suoi occhi, qualcosa di indefinibile e sfuggente, come una piccola preghiera esaudita.
Il Toro era destinato al macello, e si era spianato la strada verso una morte eroica e memorabile.
Pochi giorni fa mi è capitato di riguardare alcuni numeri di quell’enciclopedia, così come a volte vado sfogliare i vecchi numeri del Senio che trovo in cantina.
Rimango sempre colpito dalle pettinature e dai paltò che portavamo.
C’erano in giro certe spalline che neanche Dick Tracy le portava.
C’è una fotografia di una cresima del 91, credo, in cui di fianco al vescovo – il nostro vescovo Luigi, si diceva a messa – e tutto il clero e il popolo che tu hai redento – ecco, li di fianco, a mani giunte, con una specie di aureola intorno alla testa per via di un gioco di luci con un candelabro, c’è Michele Ferretti, il buon Gher, che sembra pronto a imboccare la strada per la santità.
Aprire quei vecchi giornali è come scendere in una miniera, con ricordi al posto delle pepite d’oro.
C’è anche un mio vaneggiante articolo contro l’incuria e l’abbandono della biblioteca comunale.
Negli anni novanta in biblioteca ci andavamo in tre, due per prendere i libri, io per far vedere che ci andavo: mi ero fissato con la storia dell’intellettuale, e mi davo certe arie, supportate da un paio di occhiali tondi di cui non avevo bisogno, rubati a mia cugina, che poi perdetti un pomeriggio nel Santerno, dove ero andato a fare il bagno con il buon Piga.
Capino e Claudio, al bar, mi odiavano a morte.
Lasciavo i libri in bella mostra, non tanto per leggerli, ma per dare a intendere che probabilmente li leggevo.
Ho impiegato anni per convincerli che non ero completamente scemo.
E non sono ancora del tutto sicuro di esserci riuscito.
L’articolo era orrendo e spocchioso, tipo: i giovani pensano solo alle ragazze e a divertirsi e non alla cultura.
Se incontrassi il Cristiano che lo scrisse mi piacerebbe tanto chiedergli: “ehi, e dov’era il problema?”.
Il fatto è che lui ci credeva davvero, mentre quello che è diventato ora quell’innocenza l’ha persa da un pezzo, ma si sforza ogni giorno per ritrovarne almeno un po’.
Ecco.
Eravamo così.
Tutta la fatica per fare quei giornali, i notiziari girati nel salotto di casa, i talk show di Biagio, le liti per un piccolo articolo di politica locale…
Visti da questi anni decaffeinati e light, sembriamo tutti ingenui inguaribili, vestiti in modo imbarazzante, oltretutto.
Probabilmente nessuno potrà far pace con quei gilet smanicati, ma c’era di buono che da svegli facevamo sogni giganteschi, e tentavamo di tradurli in realtà.
Eravamo dei sognatori ingenui e appassionati.
Eravamo un po’ più vivi.

Cristiano Cavina
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