Barbara Bambi ci racconta la sua esperienza nelle missioni del Kenya.
Nella scorsa estate, a cavallo tra agosto e settembre, Barbara Bambi ha intrapreso un’esperienza di volontariato di notevole spessore in Kenya. Barbara mi racconta che da sempre ha subito il fascino del continente africano e questo l’ha portata a organizzarvi diversi viaggi fin da quand’era molto giovane. Nel corso di questi viaggi vissuti da “turista”, ha maturato la decisione di voler impegnarsi in un progetto che potesse consentirle una più profonda conoscenza delle comunità locali e della loro terra. Certi che un resoconto di tale esperienza possa interessare molti lettori, abbiamo posto qualche domanda a Barbara.
Nella scorsa estate, a cavallo tra agosto e settembre, Barbara Bambi ha intrapreso un’esperienza di volontariato di notevole spessore in Kenya. Barbara mi racconta che da sempre ha subito il fascino del continente africano e questo l’ha portata a organizzarvi diversi viaggi fin da quand’era molto giovane. Nel corso di questi viaggi vissuti da “turista”, ha maturato la decisione di voler impegnarsi in un progetto che potesse consentirle una più profonda conoscenza delle comunità locali e della loro terra. Certi che un resoconto di tale esperienza possa interessare molti lettori, abbiamo posto qualche domanda a Barbara.
D: In che modo sei riuscita a concretizzare questo tuo proposito?
R: Sono venuta a conoscenza dell’Associazione Interparrocchiale Missionaria Croce Coperta di Imola. Si tratta di una Onlus il cui obbiettivo è quello di sostenere, attraverso la raccolta di fondi, l’attività missionaria delle Piccole Suore di Santa Teresa di Gesù Bambino in Brasile, Kenya e Messico. Mi sono rivolta a loro, che mi hanno proposto un programma di appoggio all’attività di recupero sociale e di assistenza sanitaria che le suore conducono in alcune strutture dell’entroterra keniota.
D: Come si è articolato il tuo servizio?
R: Sono atterrata nella capitale Nairobi, dove ha sede la casa madre con le novizie, e qui con altri volontari, ci attendeva un pulmino della missione che ci avrebbe accompagnati verso nord in direzione Kiirua per oltre 450 km. A Kiirua l’ordine gestisce il St.Theresa Kiirua Hospital, un ospedale all’avanguardia che accoglie pazienti da tutto il Kenya. Non lontano da Kiirua invece il villaggio di Machaka ospita un orfanotrofio che accoglie bambini e ragazzi di entrambe i sessi. Ho poi prestato servizio nella clinica odontoiatrica di Timau sempre a nord del Monte Kenya e, infine, nella Casa della speranza ad Elementaita più a sud a circa 150 km dalla capitale.
D: Puoi descrivermi queste strutture e le condizioni di vita della popolazione in cui sono allocate?
R: Il St. Theresa Kiirua Hospital è, come già detto, un ospedale dalle molte risorse che si affida alle competenze di medici che provengono perlopiù dall’Università di Nairobi, le strutture statali sono nelle mani della corruzione. L’importanza di tale servizio è commisurabile al fatto che eroga cure mediche e assistenza sanitaria a tutta la popolazione, in un contesto di povertà estrema. Gli abitanti vivono in capanne fatiscenti fatte di fango e l’assenza delle più elementari norme igieniche è la causa di innumerevoli malattie e infezioni. Purtroppo anche la collocazione geografica di queste località non aiuta: la piccola economia di sussistenza legata perlopiù alla coltivazione di piccoli orticelli e alla custodia di qualche bestia, è costantemente messa in pericolo dall’alternanza climatica tra un inverno rigido (va ricordato che siamo a più di 2000 metri di altezza!) e un’estate piovosa in cui tutto può essere travolto da fiumi di fango. Ritornando alla struttura ospedaliera, io mi occupavo di rifare i letti oppure di semplici medicazioni, nonché di assistenza alle più svariate mansioni. La tubercolosi, assieme all’Aids, è una tra le malattie più diffuse in quest’area geografica, tuttavia a noi volontari era impedito l’accesso ai reparti in cui venivano curate le patologie più gravi e trasmissibili. L’opera delle suore è visibile anche nelle borse di studio messe a disposizione dei giovani più motivati e spendibili nella formazione accademica all’Università di Nairobi.
L’orfanotrofio di Machaka accoglie invece molti bambini, e le suore hanno a cuore il recupero e l’inserimento lavorativo dei ragazzi e delle ragazze più grandi, con particolare attenzione alle ragazze madri. I loro lavori di artigianato e maglieria vengono poi venduti in Italia attraverso i mercatini. La condizione di vita per le bambine e per le donne dei villaggi è sicuramente la più preoccupante, e la presa in carico da parte delle suore è indubbiamente un’ancora di salvezza per molte di loro. La loro esistenza è infatti costellata dalla violenza fisica e carnale perpetrata dagli uomini, dai mariti e dai padri, i quali trascinano le loro vite assuefatti dall’alcol.
A Timau tre medici italiani hanno fondato una piccola clinica odontoiatrica all’interno della missione che comprende anche un servizio di pediatria, un asilo e una scuola primaria. Vi operano con continuità professionisti del luogo impegnati in otturazioni, estrazioni, protesi, ecc… Qui mi sono occupata dello smistamento dei medicinali e, non senza qualche preoccupazione, ho dovuto subire l’estrazione di un dente che mi doleva!
Ed infine voglio parlarvi del Villaggio della speranza di Elementaita, che è stata la prova che più mi ha destabilizzata e di faticosa elaborazione una volta rientrata a casa. Si tratta di una comunità che accoglie una cinquantina di bambine malate di Aids. Hanno un’età che va dai pochi mesi fino alla maggiore età. Vengono accolte qui dopo aver subito soprusi, violenze o essere state costrette a prostituirsi. Nelle attività quotidiane sono suddivise in tre sezioni in base all’età, e di ciascuna di queste sezioni si prendono cura due figure femminili: una chiamata mamma che dimora ivi stabilmente, e una “zia” che presta servizio diurno, a queste si affiancano cinque suore. Il nome attribuito al Villaggio potrebbe apparire pretenzioso, visto che l’aspettativa di vita di queste piccole donne è assai limitata, ma in esso la loro esistenza costruita attorno alle piccole cose scorre tranquilla, le loro facce sempre sorridenti infondono un senso di serenità e appagamento mai visti. Sono impegnate nello studio e le adolescenti sono accompagnate in un processo di presa di coscienza che le porti a parlare della loro malattia senza tabù, senza vergogna. E’ vero infatti che lo Stato eroga gratuitamente i medicinali che alleviano la sintomatologia della malattia, ma in molti ne rifuggono proprio per la vergogna. Qui i volontari si occupano del cambio, della distribuzione dei pasti, dell’animazione.
Barbara mi fa leggere la storia di una bambina accolta in questa struttura attraverso le parole di una suora che vi presta servizio: Madre non sposata conviveva con uomo malato di Aids che divenne padre di E. L’uomo morì lo stesso anno di nascita di E. La madre manteneva le sue tre figlie avute da un matrimonio precedente e E. da sola facendo piccoli lavoretti, era molto povera e sieropositiva. Questa malattia fu trasmessa alla figlia più piccola. Cinque anni dopo la morte del papà morì anche la mamma. La bambina rimase sola con le tre sorelle e all’età di tre anni le fu trovata anche la tubercolosi. La sorella più grande che manteneva le più piccole prostituendosi, divenne anch’essa sieropositiva. La piccola E. fu portata da noi. Con le cure e tanto affetto ora sta meglio ed è serena, e frequenta la scuola elementare con profitto. Le sorelle, tutte sieropositive a causa della prostituzione, sono ora assistite dalla parrocchia.
D: Quali competenze vengono richieste a coloro che vogliano cimentarsi in un’esperienza di volontariato di questo tipo?
R: Per i servizi che ho prestato io non occorrono particolari requisiti. Sono ben accetti tecnici che sappiano occuparsi di meccanica e elettronica, di cui vi è carenza, e medici e personale sanitario, anche tirocinante. Tuttavia occorre tenere presente che tutti sono ben accetti, ma nessuno è indispensabile. La presenza di volontari esteri può essere utile anche solamente per far compagnia alle suore, per far imparare loro la lingua italiana, addirittura si pensi, per consentire alle popolazioni locali di conoscere persone dalla carnagione bianca che non siano necessariamente usurpatori! I volontari godono della protezione del personale che opera all’interno delle missioni, nel tragitto tra una struttura e l’altra sono sempre scortati, va ricordato che in quelle zone le suore beneficiano di grande e doveroso rispetto da parte della popolazione.
D: Quali sono state le tue riflessioni a conclusione del viaggio?
R: E’ stata un’esperienza faticosa sotto certi aspetti, che ha condizionato anche i primi tempi una volta rientrata a casa, in cui devi riprendere le abitudini di un’esistenza davvero lontana da quelle vissute in quei luoghi. Però ci ritornerei anche adesso.
Barbara coglie l’occasione per ringraziare pubblicamente tutti i casolani che hanno contribuito, attraverso le offerte donate in parrocchia nei giorni precedenti la mia partenza, a finanziare i progetti delle missioni.
Fabio Bittini