Un giorno, a chi gli faceva notare che il Santo Padre deplorava le sue azioni criminali, Josef Stalin chiese sarcasticamente “Quante divisioni ha il Papa?”. Prima di replicare in modo così avventato, avrebbe dovuto ricordare che già i cesari di Roma dovettero fare i conti con i discepoli di Gesù e con i loro discendenti, i quali diffusero un ideale che, a lungo andare, fece scricchiolare non poco le fondamenta di quel fantastico impero mondiale. Di certo, però, non poteva immaginare che un suo suddito, un giovane prete polacco, trent’anni dopo, divenuto Papa, avrebbe aperto una breccia decisiva nella cortina di ferro. Karol Wojtyla, il prete polacco, assurto al rango di Vicario di Cristo, avrebbe inferto una spallata terrificante al regime comunista sovietico, accelerando forse di un decennio un processo disgregativo che, molto probabilmente avrebbe avuto luogo comunque per il verificarsi di una serie di congiunture politiche, economiche e sociali quasi inevitabili.
Giovanni Paolo II è stato il catalizzatore di una reazione irreversibile, ha dato fiducia al suo paese, la Polonia da cui è partito l’innesco decisivo, ha gridato: “Non abbiate paura”, si è esposto in prima persona fin da subito, guadagnandosi qualche pallottola da chi invece cominciava ad averne, di paura.
Molte persone nella storia hanno avuto potere, carisma, forte personalità, ma non sono molte quelle che hanno inciso così profondamente negli eventi più eclatanti del loro tempo. Meno ancora quelli che hanno lasciato dietro di sé un esempio, un insegnamento degno di essere seguito e trasmesso ai posteri. Ma sarebbe riduttivo ricordare Giovanni Paolo II solo come un grande personaggio storico, perché lui è stato più di altri il vero Sommo Pontefice, il Pontifex Maximus, il costruttore dei ponti tra l’uomo e Dio. E’ stato vicino a tutti, è stato apostolo in tutto il mondo, per ognuno ha rappresentato qualcosa di difficilmente ripetibile perché ha portato in giro l’immagine di Cristo: gioiosa e festosa con amici e bambini, conviviale anche con i diffidenti, rassicurante con i dubbiosi, minacciosa con gli oppressori, terribile con i nemici di Dio. E’ stato un profeta, talvolta isolato e troppe volte inascoltato. Un profeta coraggioso che, solo, nel deserto ha gridato, esortato, supplicato e minacciato. Io, nel mio piccolo, mi sono accorto di essere stato tante volte cieco o sordo ai suoi moniti, ai suoi insegnamenti e soprattutto al suo esempio… Forse per questo sono andato a Roma a dirgli addio, per cercare di scusarmi in modo maldestro di tanta superficialità, o forse no.
Difficile non cadere nella retorica quando si parla di una persona di tale grandezza, ma difficile per me è anche razionalizzare le motivazioni che mi hanno portato a Roma. E’ stato un gesto istintivo, naturale, una di quelle rare volte in cui sai con assoluta certezza di far la cosa giusta, nonostante i nostri poveri “se” o “ma” quotidiani. Per DNA non sono portato ad idolatrare nessuno e di solito sono scettico nei confronti delle masse inneggianti star del calcio, della musica o dell’ideologia, anche religiosa. Non sopporto chi perde la testa per una partita o si strappa i capelli e sviene quando vede gli U2, non sopporto granché i papa-boys con i loro cori e battimani, così spesso fuori luogo. Andare a S. Pietro in quei giorni, poteva sembrare superfluo oppure di moda, poteva essere un gesto dettato dall’emozione del momento o dall’incredibile risonanza data all’evento dai media. In fondo c’era da vedere una salma, di un grande, ma pur sempre una salma. Non sono cose che ti cambiano la vita, se ti limiti a vedere ciò che si può riprendere con una qualunque telecamera. Se anche questi dubbi mi si sono accavallati in testa però, li ho presto allontanati e così, martedì 5 aprile, il treno delle 2.20 da Bologna portava tra i suoi passeggeri me e altri 17 ragazzi e ragazze che, di punto in bianco, avevano deciso di partire: destinazione Roma, Piazza S. Pietro. Quasi tutta la Comunità Capi del gruppo scout di Casola con l’aggiunta di qualche ex e di qualche amico è salita sul treno quella notte, incurante dei continui appelli della Protezione Civile che, tramite TV e SMS, raccomandava di non recarsi a Roma, già ingolfata di pellegrini. Siamo partiti con entusiasmo, sordi a qualunque tipo di ammonimento, seguendo solo l’istinto che ci diceva che stavamo facendo la cosa giusta. Mai e poi mai, negli anni, ho visto la comunità capi muoversi all’unisono con tanta rapidità ed efficienza come in questa occasione, neanche per l’ostensione della Sindone o per andare a far servizio nelle zone terremotate delle Marche.
Durante il viaggio, sul treno maleodorante e sulla metropolitana sovraffollata, ci siamo spesso scambiati impressioni poco incoraggianti sulle possibilità di riuscire ad entrare nella Basilica, ma mai, neanche per un attimo, abbiamo pensato di rinunciare e desistere dal nostro intento. E’ veramente stato incredibile percepire come il nostro entusiasmo e la nostra determinazione crescessero proporzionalmente alle difficoltà incontrate. Ammetto che vedere l’interminabile coda che ci aspettava una volta giunti nell’area vaticana è stato a dir poco scoraggiante, ma solo per una frazione di secondo trascorsa la quale ci siamo fatti docilmente fagocitare da quella immensa marea umana. Un passo dopo l’altro, avanti due metri poi fermi per un quarto d’ora, via per altri dieci metri e stop ancora. Mezz’ora a guardarsi intorno cercando ognuno i propri punti di riferimento in mezzo alla folla: la fiamma del Casola Valsenio 1° che, ondeggiando sulle teste, ci indica dove è il secondo gruppetto dei nostri, lo stendardo di quella banda polacca che, in perfetta formazione ci ha preceduto fino alle soglie della Basilica, l’onnipresente cartello di una parrocchia che, coprendo la visuale, rovina tutte le fotografie. Ci sono slogan e battimani: i soliti papa boys. Un gruppone di persone vestite in giallo si intrufola spintonando tra le proteste (civilissime) della gente in coda, squassando per un attimo quell’ordinato pigia-pigia. Attenti a non cadere. I romani alle finestre ci salutano con espressioni di compassione, ma noi siamo carichi, siamo lì, siamo in ballo in un evento che, lo senti, è nato dalla gente della strada e ha proporzioni mondiali. I volontari della protezione civile gettano bottiglie d’acqua alla folla accaldata, qualche signora un po’ troppo vestita si sente male e viene soccorsa immediatamente: niente di grave. L’organizzazione è quasi perfetta. Parliamo tra noi e con i nostri vicini nella massa: scouts di Cosenza, gente da tutta l’Italia e dal Sud America. Allunghiamo il collo per cercar di capire quanto manca alla meta, ma è meglio non pensarci neppure, per ora. Ancora pochi passi e svoltiamo in via della Conciliazione. Di colpo l’atmosfera cambia: prima eri in gita, ora, al cospetto di S. Pietro laggiù in fondo, sei in processione. L’atteggiamento si fa rispettoso, il volume delle voci si abbassa istintivamente, si prega, si medita e si ammira la spettacolare vista della Chiesa di Pietro. Il tempo passa lentissimo e la marcia si arresta sempre più spesso e sempre più a lungo. Talvolta l’avanzamento si misura in centimetri. Fa lo stesso, avanti, ancora un’ora e saremo sulla soglia. Avresti voglia di correre oppure di sederti, non lo sai più perché la fatica, soprattutto mentale, comincia a logorarti i nervi. Poi, dopo ore, sei sull’immenso portone di bronzo e una volta dentro la frescura dell’immensa Basilica è una manna. Sei agli ultimi cento metri di un viaggio di quattrocento chilometri. Avanzi ancora di qualche passo poi lo vedi: Giovanni Paolo II il Grande è là, disteso con le mani incrociate sul petto, vestito con il rosso della passione, protetto dalle sue Guardie Svizzere. Ha il volto segnato dagli anni e dalla sofferenza, sembra più piccolo di quando, sei anni fa, lo incontrammo con gli scout a Roma. La sua grandezza interiore è volata via con la sua anima liberandosi di quello che in fondo è solo un sofisticato contenitore. Dieci secondi di impressioni dirette, visibili, superficiali. Quelle profonde verranno dopo, ma sono personali e non c’è modo di descriverle senza banalizzarle quindi meglio astenersi. Ognuno dei tre milioni di individui che hanno sfilato davanti a quel corpo in soli quattro giorni ha vissuto l’eperienza a modo suo, ma penso che tutti abbiano percepito la presenza forte, carismatica, incoraggiante, di un uomo che, da morto, paradossalmente puoi esserti più vicino. A noi è successo.
Dopo sei ore e mezzo di coda (a tanti pellegrini è andata molto peggio) siamo usciti nel sole di piazza S. Pietro, ognuno con i proprio bagaglio di pensieri e sensazioni da condividere nelle lunghe ore del viaggio di ritorno e con una grande certezza: avevamo risposto ad una chiamata comune ed eravamo partiti senza pensarci due volte e ne era valsa la pena. Se non altro è stato bello farlo insieme: il viaggio fino al Vaticano, la coda, la fatica, i panini, l’acqua, i pensieri…Condividere tutto, vedere la Comunità Capi che si muoveva e ragionava come un corpo solo. E questo, credetemi, già di per sé, è un mezzo miracolo.
Lorenzo Righini
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