Caro Diego,
da quando ieri sera ho saputo che non sei più tra noi ti ho pensato molto. Prima mi ha assalito la tristezza, il dolore per una perdita importante, il pensiero dei tuoi famigliari che ti sono sempre stati vicini e a cui mi sento infinitamente vicino in questi momenti. Poi la cupezza è stata addolcita dai ricordi, dal riemergere di momenti ed episodi vissuti con te sui campi di calcio e non solo. E ho capito che questa è la cosa importante, quello che rimane nella memoria può aiutare ad accettare anche di avere perso qualcosa di insostituibile. L’ultima volta in cui abbiamo avuto occasione di parlarci era ormai qualche anno fa e mi raccontavi della tenacia e della forza con cui combattevi la tua malattia. Questa partita non potevi vincerla, ma come mi hai sempre insegnato l’importante era giocarsela fino alla fine.
Tanti ricordi, ma tre li ho proprio fissi in testa perché riassumono tutto quello che voleva dire essere un tuo giocatore e continuo a vederli come tappe importanti che mi hai aiutato a percorrere per diventare grande.
Il primo ricordo riguarda gli INSEGNAMENTI che sempre ci hai dato (parlo al plurale, perché so che quello che dico vale per tanti altri). Non diagonali, schemi, come colpire la palla, come marcare un centravanti di due metri, ma gli insegnamenti che uno deve prendere a fine allenamento e portarli fuori dal campo per usarli nella vita non giocata. Avevo 8 anni circa, ero il più piccolo fra i Pulcini, più che giocare a calcio collezionavo pallonate dai ragazzi più grandi. A fine allenamento classica partitella Pulcini contro Esordienti, inutile dire che perdevamo tanto a poco. A un certo punto il nostro attaccante si trova solo davanti al portiere ma si mangia clamorosamente un gol già fatto. Io non mi trattengo, la mia mente bambina forse ha già visto troppi cattivi esempi sui campi di calcio, lo mando a quel paese. In realtà non proprio a quel paese, proprio affan… Il grido con cui mi hai zittito e imposto di chiedere scusa immediatamente ha attraversato tutto il campo e ancora mi rimbomba nella testa. Una specie di lezione numero 0: rispetto per l’altro, compagno o avversario che sia, sempre, ma soprattutto nel momento in cui è in difficoltà. Sono passati più di 25 anni, ma ancora adesso penso a quell’episodio, prima di sbraitare (o, quando proprio non sono riuscito a trattenermi, dopo avere sbraitato, vergognandomi un po’ di non averti dato retta…)
Il secondo ricordo riguarda l’AFFETTO che sempre ci hai dimostrato. Questa volta andavo per i 17 anni e ci giocavamo il campionato nella partita decisiva contro la Dinamo di Faenza. Noi primi loro secondi. Se non perdevamo era praticamente fatta. Pensavo: “Darei di tutto per non perdere questa partita”. Il buon Dio non mi ha chiesto tutto, solo la tibia destra. Rotta dal calcio del loro centravanti, un calcio non cattivo (l’arbitro, ricordi, non fischiò nemmeno fallo), solo che io avevo fatto di tutto per arrivare sulla palla, il loro centravanti aveva fatto un po’ di meno, io ero arrivato per primo sulla palla, lui per secondo sulla mia gamba. Il giorno dopo tu sei stato il primo a venirmi a trovare a casa. Mi hai portato una scatola di cioccolatini, ti sei seduto sul divano su cui stavo sdraiato con la gamba ingessata e abbiamo chiacchierato per un pezzo. Io, te e mia nonna, alla quale volevi tanto bene perché era la mamma del tuo migliore amico di gioventù.
Il terzo ricordo riguarda la STIMA che mi hai dimostrato tante volte. A poco più di 20 anni giocavo in prima squadra in terza categoria, tu non eri il nostro allenatore, un’annata travagliata, perdiamo la promozione diretta che sembrava cosa fatta, andiamo ai play-off. L’allenatore se ne va e i dirigenti chiamano te per guidarci nelle ultime, decisive partite. Io avevo mangiato un sacco di panchina quell’anno, di nuovo ero uno dei più giovani della squadra. Tu mi hai messo titolare subito e mi hai fatto giocare tutte le partite di play-off. Nella finale col Castel del Rio hai voluto che fossi io a battere il rigore che chiudeva definitivamente la partita. Eravamo già in vantaggio, non rischiavamo nulla, non è che sono stato decisivo io segnando quel rigore. Ma non è questo l’importante. L’importante è che dopo che ho segnato quel rigore mi hai sostituito subito. Sono uscito dal campo e ci siamo abbracciati, senza dire parola. Il tuo modo per dirmi che non ero più il ragazzino che poteva permettersi di andare a rimorchio dei grandi della squadra, ero uno che poteva e doveva prendersi le responsabilità. Mi piace pensare che tu mi abbia sostituito solo perché avevi voglia di abbracciarmi.
Domani purtroppo non riuscirò a partecipare al tuo funerale. Paradossalmente il motivo della mia assenza è un motivo felice: probabilmente domani dovrò assistere a una nascita. In certi momenti la ciclicità della vita non è un concetto astratto, è una cosa molto concreta, che vivi sulla tua pelle. Questa è la contraddittorietà del vivere, che poi è anche la sua bellezza. L’ultima cosa che mi sento di dirti non è più un ricordo, ma una speranza futura e riguarda proprio il ciclo della vita: spero di riuscire a passare a chi sta per arrivare qualcuno degli insegnamenti che ho ricevuto da te.
Ciao Diego e sempre grazie.
Michele