Vajont (1963), Ancona (1982), la Valtellina (1987), Sarno (1998) e ultimamente Cagliari, Messina, Ischia, sono solo tra gli esempi più eclatanti dell’elevata vulnerabilità idrogeologica a cui è sottoposta buona parte della nostra penisola. Infatti recenti studi affermano che il territorio italiano a rischio di frane è pari al 47,6% del totale, tanto che il pericolo di gravi dissesti idrogeologici interessa il 70% dei Comuni. In effetti siamo una nazione dal rischio naturale elevato, ma più per frane e alluvioni che per terremoti e attività vulcanica.
Per quanto riguarda il nostro territorio la situazione varia leggermente, infatti, fortunatamente, non siamo soggetti ad alluvioni e neppure conviviamo con un vulcano “dormiente” alle spalle. Certamente il terremoto è di gran lunga il fenomeno naturale che ci incute più timore (Casola è un Comune classificato sismico), ma le frane, in termini di probabilità, possono essere fonte di maggiore rischio. Però, a differenza del sisma, possono essere previste e in alcuni casi evitate.
Ma cosa si intende per frana? Una frana non è altro che il trasferimento di materiale roccioso o terroso dall’alto verso il basso grazie alla forza di gravità, in cui la presenza di acqua, la pendenza e l’azione dell’uomo giocano un ruolo fondamentale. Le scene quasi apocalittiche che spesso osserviamo in televisione sono generalmente il risultato di un fenomeno molto semplice: le piogge insistenti e le inondazioni provocano una elevata infiltrazione di acqua nel terreno, che riduce progressivamente la forza che lo “tiene assieme” (attrito interno), fino alla sua saturazione e al conseguente scivolamento verso il basso. E’ la stessa cosa che succede se formiamo un semplice mucchietto di terreno: se lo inumidiamo appena, gli possiamo dare varie forme, anche ripide, se lo “affoghiamo” di acqua, si liquefa tutto, ossia frana.
Oggi le frane, grazie anche alla risonanza prodotta dai mass-media, riscuotono una più diffusa presa di coscienza, anche al difuori della ristretta cerchia di addetti ai lavori. Da oltre venti anni è in atto, a livello regionale, una importante campagna di censimento di tutti i fenomeni franosi, da cui è nato un “inventario del dissesto” in continuo aggiornamento e facilmente consultabile sul sito della Regione Emilia-Romagna. Se si “zooma” sull’area faentina, si nota quanto siano diffuse le frane censite, indice della propensione al dissesto che caratterizza il nostro territorio.
Ma non importa avere un computer per rendersi conto di tale situazione, è sufficiente raggiungere un punto sufficiente panoramico lungo i nostri crinali e osservare la conformazione dei nostri versanti. E’ un continuo susseguirsi di forme morfologiche come dossi, avvallamenti, depressioni, rive, scarpate, blocchi rocciosi isolati, ecc., tutti segnali della presenza di fenomeni franosi recenti o passati. E spesso si è soliti osservare ammirati come antichi fabbricati siano ancora ben saldi sui loro promontori, mitizzando la lungimiranza tecnica con cui i nostri antenati sapevano individuare i siti idonei da edificare, tralasciando però la reale possibilità che essi possano essere i pochi rimasti, mentre tanti altri siano stati distrutti da queste calamità.
Le frane possono essere di diverso tipo, sia come genesi che come sviluppo. Nel nostro territorio una tipologia comune sono le cosiddette “grandi frane”, dovute allo scivolamento in blocco di terreno e roccia lungo piani di stratificazione profondi. Tale fenomeno si innesca in versanti in cui l’andamento della stratificazione rocciosa è pressoché parallelo alla superficie topografica (franapoggio). Nel 2005, nelle vallate di Senio, Sintria e Santerno, si sono verificate alcune frane di questo tipo (Monte Roncosole, Ozzanello, Versante di Posseggio, solo per citarne alcune in località ben raggiungibili), che fortunatamente non hanno provocato vittime, ma la cui visione rende ben chiaro come tali eventi possano provocare molti danni. Come nel 1939, anno in cui, a causa di ingenti precipitazioni, il comprensorio faentino fu falcidiato da numerosissime frane, a Casola, tra le tante, sono note quella della Peschiera, con il fango che arrivò fino in piazza Oriani, lungo Via Roma, oppure quella del Monte della Vecchia, che formò la riva ben visibile dal paese. Più antica, ma ben documentata, è la “frana della Soglia”, che provocò ingenti danni e perdite di vite umane, tale evento contribuì a fare dichiarare Casola “abitato da consolidare” nel R.D. 07/08/1919 n. 1498. Attualmente viviamo un ciclo climatico a ridotta piovosità, non caratterizzato da elevato rischio di frane con grandi capacità distruttive, ed è quindi reale il rischio di sottovalutare il problema, ma le frane verificatesi dopo le ingenti precipitazioni del 2005 devono fungere da campanello d’allarme, in quanto anche brevi ma intensissime precipitazioni possono innescare movimenti gravitativi considerevoli.
Un’altra tipologia di frana molto frequente nelle nostre valli sono i crolli di materiale lapideo dalle ripide scarpate rocciose che bordano il Senio e i suoi affluenti. In questo caso i pericoli arrivano al piede, a causa della repentinità del fenomeno, ma anche in corrispondenza del ciglio superiore, che generalmente tende ad arretrare progressivamente.
Lo studio dei fenomeni franosi non può prescindere da una assunzione fondamentale: le frane sono un “normale” fenomeno naturale che affligge i territori montani e collinari, così come le malattie colpiscono le persone, come ci sono malattie apparentemente innocue, che se non curate possono diventare mortali, così possono esserci modesti smottamenti che se non bonificati possono trasformarsi in frane di grandi dimensioni. Ci sono frane che sembrano inarrestabili, che possono essere sistemate con spese relativamente modeste, ci sono invece frane di fronte alle quali nulla si può fare se non rallentarne l’inevitabile evoluzione. Le cause dell’innesco delle frane possono essere naturali, oppure indotte o amplificate dall’azione dell’uomo (disboscamenti, sbancamenti incontrollati, cattiva regimazione delle acque, abbandono dei terreni, ecc.). Spesso però è difficile distinguerle serenamente. Nel nostro territorio la presenza dell’uomo ha spesso coinciso con un accurato presidio idrogeologico dei terreni, al contrario lo spopolamento delle campagne è stato generalmente sinonimo di riattivazione dei processi erosivi.
L’interferenza tra questi fenomeni naturali e l’attività dell’uomo origina rischio. Ma cosa si intende per rischio da frana? Esso è il risultato della combinazione di due fattori: la presenza di frane (pericolosità) e in che modo esse minacciano nuclei abitati, infrastrutture, ecc. (danno atteso). Per intenderci, se lungo un versante si sono innescate numerose frane, ma esse non minacciano abitazioni o strade, la pericolosità è elevata, ma non essendoci un danno atteso, il rischio è trascurabile. Diversamente, basta una singola frana che minaccia un nucleo densamente abitato a determinare un rischio elevato.
Il rischio da frana si affronta soprattutto con azioni di prevenzione. Essa può essere attuata sia in ambito di pianificazione territoriale, sia agendo direttamente in zone soggette a rischio. Una corretta pianificazione deve tenere conto della pericolosità che caratterizza un’area, per esempio, conoscere la propensione al dissesto di un versante consente di non costruirci in futuro. L’individuazione delle zone a rischio da frana del Comune di Casola Valsenio è stata effettuata dall’Autorità di Bacino del Reno nell’ambito della redazione del Piano Stralcio per il Bacino del Torrente Senio. Consultando il Piano si evince che Casola, attualmente, non presenta zone a rischio da frana elevato o molto elevato, ma solo zone sottoposte a rischio moderato e medio. Inoltre è disponibile una interessante cartografia che indica quali aree del nostro Comune sono idonee e quali no all’espansione edilizio-urbanistica. L’aspetto positivo è che i contenuti di tale Piano sono stati interamente recepiti dagli strumenti di pianificazione vigenti sul nostro territorio, ossia il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP) e il nascente Piano Strutturale Associato dell’area faentina (PSC).
Più difficoltoso, invece, è intervenire direttamente in aree classificate a rischio da frana. Infatti, a partire dall’inizio degli anni novanta, sono stati sempre più esigui i fondi trasferiti agli enti locali per interventi di difesa del suolo nelle zone montane. E’ quindi sempre più complicato attuare misure di mitigazione del rischio, come la realizzazione di interventi preventivi di messa in sicurezza dei versanti o sostenere in modo adeguato, attraverso l’elargizione di contributi, il presidio del territorio garantito dall’attività agricola diffusa nelle nostre campagne (regimazione delle acque superficiali, drenaggi sotterranei, opere di contenimento dei terreni, ecc.). Infatti è ormai consuetudine che l’accesso a finanziamenti pubblici per la difesa del suolo è pressoché limitato a situazioni di emergenza, ossia per la sistemazione di dissesti già avvenuti (fondi di Protezione Civile).
A Casola, nonostante l’assenza di zone classificate a rischio elevato, vanno tenute sotto controllo alcune situazioni potenzialmente critiche: le condizioni dei bacini imbriferi del rio Peschiera, del rio Casola e del rio Buratta, in quanto “scaricano” verso il centro abitato, ed il degrado della scarpata rocciosa che costeggia tutto il paese (dalla “Peschiera” alla “Buratta”), in quanto in più punti il ciglio superiore, a causa di crolli, è arretrato a ridosso dei fabbricati, non dimentichiamoci ,infatti, che il cosiddetto “muraglione” fu realizzato proprio per contrastare questo fenomeno progressivo dovuto all’alterazione/disgregazione naturale della roccia.
Infine mi preme sottolineare un’importante iniziativa che si sta svolgendo nel Comune di Casola: da un paio di anni è in atto un progetto a cura del Consorzio di Bonifica della Romagna Occidentale, in collaborazione con l’Università degli Studi di Bologna e l’Autorità di Bacino del Reno, che prevede un’attività di monitoraggio di alcuni versanti in cui sussistono le condizioni perché possano innescarsi grandi frane (il “franapoggio” descritto in precedenza). Tali studi, che si basano sulla misurazione in continuo dei movimenti del versante fino ad elevate profondità, consentiranno, nel caso si riscontrassero situazioni critiche, di intervenire preventivamente o, nella peggiore delle ipotesi, di prevedere l’evacuazione di eventuali opere o infrastrutture minacciate. Questo è un ottimo esempio di prevenzione. Infatti, per ridurre gli effetti di questi fenomeni, è necessario indagarne a fondo le cause e gli sviluppi. Solo in questo modo, ovvero con l’indagine e la ricerca, sarà possibile conservare e rendere più sicure le nostre vallate.
Alessandro Poggiali