Ovvero una segnalazione sullo stato di abbandono di uno dei più bei parchi della zona
Quando avevamo voglia di raccogliere le viole più belle decidevamo in quattro e quattr’otto di avventurarci nel posto dove, secondo noi, spuntavano le più grandi, le più profumate e le più scure. Salivamo sulle biciclette e pedalavamo veloci fino al pozzo sulla destra della statale, verso Valsenio, circa centocinquanta metri dopo il Cimitero. Lasciavamo le biciclette appoggiate al pozzo, per non lasciare tracce o indizi, qualcuno avrebbe potuto sospettare l’arrivo di intrusi se avessimo lasciato le bici troppo vicino al ponte del Cardello.
Quando avevamo voglia di raccogliere le viole più belle decidevamo in quattro e quattr’otto di avventurarci nel posto dove, secondo noi, spuntavano le più grandi, le più profumate e le più scure. Salivamo sulle biciclette e pedalavamo veloci fino al pozzo sulla destra della statale, verso Valsenio, circa centocinquanta metri dopo il Cimitero. Lasciavamo le biciclette appoggiate al pozzo, per non lasciare tracce o indizi, qualcuno avrebbe potuto sospettare l’arrivo di intrusi se avessimo lasciato le bici troppo vicino al ponte del Cardello.
Allegramente e senza far trapelare nulla della nostra agitazione percorrevamo cinquanta metri per arrivare al ponticino del Cardello, ci affacciavamo alla balaustra, guardavamo le macchie di viola che si intravedevano sulla sinistra, quasi a giustificare una volta di più che quell’impresa andava fatta, le viole più belle erano proprio lì e se non ci fossimo andati noi a raccoglierle e farne mazzetti, sarebbero inutilmente sfiorite ed appassite.
Sulla statale passava un’automobile ogni tanto, di camioncini pochissimi, motori non ne ricordo.
Approfittavamo del momento in cui la strada era deserta, da giù, cioè da Valsenio e da su, cioè da Casola, non compariva nessuno, andavamo di corsa sotto al ponticello, vi scorreva uno stretto ruscello che scendeva proprio dal parco e lo delimitava a destra.
Ci volevamo introdurre di soppiatto, di nascosto, nel parco del Cardello ed era un’avventura possibile perché avevamo scoperto nella rete, che era stata tirata per chiudere il passaggio, un bel buco e noi riuscivamo a penetrarvi senza fatica. Avevamo otto o nove anni e potevamo allontanarci da casa per qualche ora dicendo semplicemente che andavamo a raccogliere le viole. Dove? In luoghi permessi? O proibiti? Ma,…..qui vicino……..
Appena entrati dal buco nella rete, ci sembrava di respirare un’altra aria, più verde, più fresca, più magica. Ed eravamo sicuri che lì non ci avrebbe trovati nessuno: nascosti dalla strada dalla fitta vegetazione del parco e lontani dalla casa, dal Cardello, dove abitava la “ terribile” per noi, signora Pifferi, la moglie di Ugo Oriani, ci sentivamo dentro un’avventura, ma buona e promettente. E ci sentivamo alla scoperta di un luogo tanto grande, tanto segreto e tanto bello.
Però, per non rischiare troppo, proseguivamo parlando sottovoce, a passi felpati, piegandoci un po’ per rimpicciolire la nostra statura che allora si aggirava sul metro e venti.
Che aria di libertà: gli spazi si aprivano vasti e labirintici davanti a noi, che aria di avventura: eravamo in un posto proibito, se c’era una rete a chiudere quell’incanto, lo era certamente.
Non lo sapevamo, ma passare la rete sotto il ponte era come oltrepassare il mitico binario 9 3/4 di Harry Potter, entravamo in un mondo diverso, dove i babbani, gli umani, c‘erano certamente, da qualche parte, però noi li potevamo, con qualche accorgimento, evitare. Loro dovevano tenere solamente pulito e ordinato quel posto fiabesco, luogo che spontaneamente rispettavamo, osavamo infatti solamente raccogliere qualche viola, qualche ciclamino, gettare qualche sasso nel laghetto per spaventare le rane.
Probabilmente qualcuno che vi lavorava su quei sentieri ben tenuti ,sui quei viali così ben tracciati, intorno agli alberi potati, sui prati ben rasati, ci doveva essere, ma noi riuscivamo a scansarli abilmente, perché ci scoprirono una sola volta ….
Ma anche che bellezza: lì appena oltrepassata la rete c’erano due vasche addossate alla parete, costruite con rocce, in cui gocciolava acqua fresca e limpida, tutt’intorno le viole più belle. Poi il sentiero che percorrevamo passo dopo passo, cautamente, cercando di non deviare mai verso sinistra, perché c’era la casa, ci portava verso il laghetto, vicino al quale c’era pure un tempietto, nel boschetto alle spalle del mausoleo, lì crescevano ciclamini di un rosa fucsia che metteva allegria. Arrivare al laghetto era un’impresa ardita perché, se qualcuno ci avesse scoperto, non avremmo potuto scappare fino al buco nella rete, troppa strada avevamo da ripercorrere verso la salvezza. E per questa ragione non risalivamo la collina che intravedevamo oltre il bosco di cedri e il viale di cipressi, perché ci saremmo esposti troppo, avremmo veramente rischiato di farci acchiappare, come poi una volta è veramente successo….
Scorgevamo tra le fronde che c’erano altri colori su per la collina: file di alberi argentati, gli olivi, chiome allungate e verde scuro: i cipressi, larghi ombrelli di un verde più chiaro, i pini.
Tutto ci dava l’impressione, anche se eravamo bambini, che quel giardino affascinante fosse sì selvatico, ma anche fosse stato progettato, costruito, inventato per fare sorprese, chissà da chi….non era completamente selvatico….anzi ……..
Ritorno spesso a passeggiare nel Parco del Cardello, ora non entro di soppiatto dalla rete sotto al ponte, ma dalla strada di fianco al podere Mingotta…si sale sulla collina del Cardello per una strada larga, c’è una sbarra, la si oltrepassa e si inizia un largo giro intorno al colle, a destra la magia del parco con i giri concentrici degli olivi, le file di cipressi, i boschetti di pini, …a sinistra la campagna comune: un campo coltivato, frutteti, vigneti, case, altri colori e altre geometrie, più utili , meno affascinanti e magiche. Poi si scende dopo aver oltrepassato case che stanno a poco a poco indebolendosi sotto il perso degli anni e dell’abbandono.
Incontro sempre qualcuno nella passeggiata perché altri ne conoscono il fascino.
Può capitare di guardare per terra ed in venti centimetri quadrati si possono vedere piantine spontanee: un olivo, una quercia, un agrifoglio, un pino.
Eppure non mi sfugge, ogni volta più evidente, lo stato di abbandono in cui versa questo meraviglioso parco.
Gli olivi sono circondati da erbacce e cespugli di ogni tipo, i pini, pur così cresciuti, hanno i tronchi assaliti da edere che stanno attorcigliandosi fin nei rami più alti, l’ordine originario che ancora si coglie nei sentieri, nei giri concentrici delle piantate degli olivi o nei rettilinei dei viali delimitati da cipressi , viene sempre di più confuso come da una nebbia che farà scomparire in breve tempo i disegni originali di questo parco…
……disegni che erano stati studiati da Ugo Oriani negli anni ’30, quando da una collina uguale e tutte le altre ottenne un piccolo paradiso ……..
Infatti,casualmente, mentre scrivevo queste righe, sono venuta a sapere che fu Ugo Oriani, con la collaborazione della facoltà di Agraria dell’Università di Bologna, a pensare a questo “ Giardino Italico” che avrebbe dovuto raccogliere numerose varietà arboree della nostra penisola, dalla macchia mediterranea al bosco alpino.
Casualmente, mentre scrivevo queste poche righe, sono venuta a conoscenza anche di un vincolo paesaggistico che risale al 1974 che riguarda il complesso che si estende sul fianco della collina,denominato genericamente del Cardello:
……… “Attorno al Cardello nell’eccezionale parco, sorgono essenze ad alto fusto di notevolissimo pregio: pino domestico, pino marittìmo,cedro Deodara, cipresso comune, cipresso Arizonica, quercia, leccio, carpino nero ecc…….
La spontaneità della natura e l’opera dell’uomo si sommano nel dare rilevanza particolare alla zona.”……..
E mi chiedo come possa essere abbandonato a se stesso e quasi dimenticato un luogo simile………
Paola Giacometti