Nessuna donna è obbligata, nella scuola e nel pubblico impiego, ad andare in pensione a 60 anni: per le donne, come per gli uomini, la data del collocamento a riposo per raggiunti limiti di età è stabilita, infatti, al compimento dei 65 anni. Alle donne, e solo ad esse, è invece consentito lasciare il servizio, percependo la pensione, al compimento dei 60 anni, anche nel caso in cui non abbiano ancora maturato i requisiti prescritti per aver diritto alla pensione di anzianità.
Risulta francamente difficile considerarla, come sostiene il ministro Brunetta, una 'penalizzazione': si tratta infatti di un'opportunità, e non di un obbligo, che non pregiudica affatto la possibilità, per chi lo desidera, di proseguire nella propria attività lavorativa.
Sulla questione, cui dedicano largo spazio in questi giorni gli organi di informazione, proponiamo una nota di approfondimento .
In termini più generali, detto che a nostro avviso non esistono oggi ragioni che rendano necessario e urgente un ulteriore intervento sul sistema previdenziale, le cui regole sono state più volte modificate negli ultimi anni, esprimiamo ancora una volta le nostre riserve circa l'opportunità di sollevare questioni che finiscono solo per alimentare confusione e allarmismo su un tema così delicato, sul quale ragionevolezza e buon senso consiglierebbero di pronunciarsi con minor superficialità e maggior prudenza.
Si ritiene necessario fare chiarezza sulle polemiche, seguite ad alcune dichiarazioni del ministro Brunetta, in merito all'ipotesi di innalzamento dell'età pensionabile per le dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ipotesi che è stata collegata all'esigenza di ottemperare ad una recente decisione della Corte di Giustizia della Comunità Europea.
Innanzitutto è importante fornire alcune precisazioni sulle disposizioni che regolamentano, al momento attuale, il compimento dell'età anagrafica al cui compimento un dipendente pubblico è collocato a riposo d'ufficio, fatte salve alcune eccezioni di cui parleremo in seguito. Tale età è fissata dalle disposizioni vigenti in 65 anni, indistintamente per il personale maschile e femminile. E' quindi assolutamente improprio affermare che si dovrebbe uniformare l'età di cessazione dal servizio tra uomini e donne perché essa è già la medesima per entrambi i sessi.
L'unica differenza è data da quanto stabilito dall'art. 2, comma 21, della legge 335/95 (cosiddetta 'Riforma Dini')[1], che prevede la facoltà per il personale femminile di cessare dal servizio a domanda al compimento del 60° anno di età con i requisiti della pensione di vecchiaia. In sostanza, una dipendente pubblica che compia 60 anni e abbia maturato almeno venti anni di anzianità contributiva può scegliere di cessare dal servizio, avendo così diritto a percepire un trattamento di quiescenza commisurato all'anzianità posseduta. L'eventuale discriminazione, quindi, potrebbe essere riconosciuta come esistente nei confronti del personale maschile, al quale non è consentito utilizzare un'analoga facoltà. Da quanto sopra si evince chiaramente, pertanto, che non sussiste un problema di omogeneizzazione normativa dell'età di cessazione per vecchiaia.
La sentenza richiamata dal ministro Brunetta (causa C-46/07 del 13.11.2008) riguarda proprio la compatibilità di quanto stabilito dal suddetto comma 21 con gli ordinamenti comunitari: in particolare la Corte di Giustizia ha ritenuto che 'la fissazione, ai fini del pensionamento, di una condizione d'età diversa a seconda del sesso non è tale da compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile aiutando queste donne nella loro vita professionale e ponendo rimedio ai problemi che esse possono incontrare durante la loro carriera professionale' e quindi 'mantenendo in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi di cui all'art. 141 CE'.
Bisogna tenere conto, tuttavia, che dallo svolgimento del processo emerge un evidente equivoco, un vero e proprio 'cortocircuito' nell'individuazione della materia del contendere e del significato delle disposizioni in contestazione.
La Commissione, infatti, nel contestare l'operato della Repubblica Italiana, ha ritenuto che il regime pensionistico gestito dall'INPDAP costituisca un regime discriminatorio contrario all'art. 141 CE in quanto fissa l'età pensionabile a 60 anni per i dipendenti pubblici di sesso femminile, mentre la stessa è fissata a 65 anni per i dipendenti pubblici di sesso maschile. E ciò costituirebbe una condizione di sfavore per le donne, che maturerebbero in tal modo un trattamento pensionistico deteriore rispetto al personale maschile.
Ma, come abbiamo chiarito prima, la cessazione a 60 anni con diritto alla pensione di vecchiaia è una mera facoltà del personale femminile, che in via ordinaria cessa dal servizio al compimento dell'età di 65 anni, esattamente come i dipendenti di sesso maschile.
Paradossalmente questo semplice chiarimento non è stato prospettato dalla Repubblica Italiana: ciò avrebbe probabilmente evitato una condanna che, in sostanza, è dipesa dalla circostanza - ipotizzata dalla Corte - che le norme in contestazione violassero il principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore (art. 141 del Trattato della Comunità Europea).
La violazione sarebbe palese se le dipendenti pubbliche di sesso femminile fossero costrette a cessare dal servizio al compimento del 60° anno di età, mentre l'esercizio di una facoltà (e, quindi, una scelta individuale) dipende dalla volontà del lavoratore, che può ben mettere in conto la prospettiva di percepire una pensione più bassa a fronte di vantaggi di altra natura (familiare, sociale, ecc.).
La discriminazione, nel caso in questione - lo ripetiamo - dovrebbe essere considerata sotto altro profilo: i dipendenti pubblici di sesso maschile non possono utilizzare questa facoltà e quindi devono comunque attendere il 65° anno di età per cessare dal servizio per vecchiaia: ma tutto questo non costituirebbe una violazione della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso diverso.In conclusione, il Ministro Brunetta si è sbilanciato su una materia delicata senza un adeguato approfondimento della questione: è vero che la sentenza della Corte di Giustizia ha affermato che «mantenendo in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne, la Repubblica Italiana è venuta meno agli obblighi di cui all'articolo 141 CE» e che, pertanto, è necessario adeguare la normativa interna a questa decisione.
L'ipotesi di innalzare l'età pensionabile delle dipendenti pubbliche non si pone, in quanto, come già ricordato, l'ordinamento pensionistico prevede già la medesima età (65 anni) per i dipendenti di entrambi i sessi: in realtà sarebbe necessario soltanto abrogare la norma contenuta nell'art. 2, comma 21, legge 335/95, che ha consentito dal 1996 alle dipendenti di cessare dal servizio a 60 anni con i requisiti necessari a maturare la pensione di vecchiaia (e quindi, per quanto riguarda il sistema retributivo, venti anni di anzianità contributiva).
Una soluzione che forse soddisferebbe l'obbligo di rimuovere le discriminazioni, ma che non ci sembra affatto migliorativa, per le donne, rispetto all'attuale situazione.
Anzi ...
Stefania Monducci