Alla fine ce l’ha fatta Cristiano. Un lungo percorso catartico in quattro tappe, tante quanti i suoi lunghi racconti, per arrivare a pareggiare i conti con il proprio destino, con un passato che gli aveva lasciato dei nodi che andavano su e giù nella gola e di cui si è liberato un poco per volta, racconto per racconto, anzi, parendomi di dover escludere per motivi “tecnici” la definizione di “romanzo per romanzo”, starei per dire, favola per favola.
Un arco di tempo, o meglio di epoca, che si era aperto trentaquattro anni fa con l’apporto determinante di uno sconosciuto, si è concluso con la “fine” dello sconosciuto in una “piccola ma decorosa camera di ospedale”, senza “l’applauso finale” che accompagna il calare dei sipari al termine di ogni tragedia che si rispetti, ma con “il suono continuo di un segnale acustico” e, immaginiamo, il lento appiattirsi di un tracciato lasciato da un pennino sulla striscia di carta millimetrata di un elettrocardiogramma.
Un uomo, ormai anziano o comunque malandato , si imbatte in libreria in un racconto firmato Cristiano Cavina, lo legge, intuisce qualcosa ed improvvisamente si ritrova a dover fare i conti con il ricordo di un evento che aveva cercato di seppellire e cancellare nella sua memoria.
Il “frutto dimenticato” di un amore fugace, consumatosi rapidamente trentaquattro anni prima, gli si presenta ora dinnanzi per interposto “romanzo” e gli sferra un pugno nello stomaco, il pugno duro ed indigesto del rimorso, il rimorso e molto probabilmente anche la vergogna, per essere “scappato” un giorno lontano.
E’ ancora possibile rimediare? L’uomo si informa su questo Cristiano Cavina e con uno stratagemma riesce a recuperare il suo recapito ed il suo numero di telefono.
Gli telefona, si spaccia per un professore, riesce a concordare un appuntamento a Cesena e quando lo incontra: - Sono tuo padre – gli dice.
E’ questo l’incipit del nuovo racconto di Cristiano, I frutti dimenticati (editore Marcos Y Marcos) uscito qualche giorno fa e che per la prima volta è stato presentato a Faenza presso l’auditorium dell’Istituto Tecnico di Faenza il 21 novembre.
Sul dipanarsi di questo primo incontro e di quelli che lo seguono, si aprono i vari sipari a cui si affacciano i ricordi di tutta una vita e le scene di vita casolana e stra-casolana che Cristiano, con la consueta bravura ed arguzia, costruisce o ricostruisce a piacimento con grande abilità affabulatoria e (ormai) collaudata capacità di trasmettere al lettore il pathos struggente dei ricordi, anche i più semplici.
Cristiano raccoglie i propri ricordi e li riveste delle strutture del mito, ne fa dei fatti mitologici in cui i semplici gesti di persone semplici, i sentimenti ingenui, le schizofrenie, le manie, gli eventi del quotidiano, le inevitabili piccole miserie, i personaggi caratteristici del villaggio, assumono nel suo racconto una dimensione eroica, tragica, epica, omerica. Un’epica paesana ovviamente, ma pur sempre un’epica, una specie di sublimazione di quel processo che avviene con i racconti del bar quando si ricordano i tipi e gli eventi del passato e più il tempo passa e più si tramanda, il racconto si arricchisce di sempre nuovi particolari, l’epopea dilata, diventa infine leggenda. Ti ricordi...?
Casola come Troia, per così dire. Ho sempre pensato che la guerra di Troia nella realtà non sia mai stato altro che una scaramuccia fra due clan tribali antagonisti, magari uno di qua ed uno di là di un canale, che per una storia di corna se la sono date di santa ragione per qualche giorno e che Omero abbia poi raccolto l’eco di quelle scazzottate e ci abbia lavorato sopra con grande fantasia e grande senso del racconto.
Cavina come Omero dunque?... Beh, fatte le debite proporzioni!
E’ chiaro che non siamo assolutamente nel campo della biografia, così come pure in tutti gli altri tre precedenti racconti. Questa consapevolezza e puntualizzazione potrà servire a smorzare alcune polemiche sorte negli anni passati con qualche cittadino indispettito per essersi sentito indebitamente e strumentalmente tirato in ballo.
Cristiano opera sui ricordi e sui personaggi come fossero le tessere sparse di un mosaico. Le raccoglie e le assembla secondo l’estro, la fantasia e l’economia della sua “favola” e ne tira fori un racconto piacevole, collocato in un passato che solo apparentemente è datato ma che in effetti è atemporale ed in cui presente e passato si sovrappongono e si mischiano liberamente. Un racconto a volte melanconico, a volte esilarante, punteggiato di trovate e definizioni fulminanti e di scenette a volte paradossali ed allucinate. La scena del funerale alla “rovescia” di sua nonna Cristina è assolutamente geniale.
Le tessere del mosaico sono tutte vere, o quasi, ma è il loro assemblaggio che è del tutto libero o... quasi.
Il “quasi” infatti è d’obbligo in questo suo ultimo racconto perchè due degli eventi descritti, anche se non conosco esattamente i dettagli del loro svolgimento, credo rispettino abbastanza fedelmente la realtà.
Mi riferisco alla morte del piccolo Franceschino Morara ed alla nascita del piccolo Giovanni, suo figlio ed ai suoi difficili rapporti con la sua compagna Anna. Anzi per le vicende legate alla nascita del figlio credo che la realtà sia quasi perfettamente rispettata, in ogni caso quelle che descrivono entrambi i due eventi sono pagine di grande umanità e commozione.
Cristiano qui non bleffa, o, più precisamente, per quanto riguarda il figlio Giovanni e la compagna Anna, bleffa in modo assai sofisticato ed intelligente (ma qui non è più il recensore che parla bensì il severo amico Gabriele, quello incontrato nelle prime pagine del libro, l’annunciatore tanto per capirci). Cristiano non cerca giustificazioni, scappatoie, attenuanti si assume tutta la responsabilità delle sue fughe, delle sue pietose bugie, dei disastri che combina, ammette tutto ma poi, ed è qui che sta la finezza, glissa sul punto focale del problema e lo esorcizza con un candido “Che cosa volete farci, io sono fatto così” che intenerisce il cuore ed il giudizio degli ingenui, comuni, mortali lettori, che naturalmente finiscono per sorridere indulgenti e compiacenti e per assolvere senza condizioni o “penitenze”. Eh no, caro Cristiano! La farai agli altri ma non al severo e disincantato Gabriele che, per il posto che occupa, è noto per saperne una più del diavolo.
Gli incontri di Cristiano con il padre sconosciuto si sviluppano drammaticamente in una tensione continua fra la rivendicazione, il rinfaccio, l’apparente disprezzo e la gran voglia interiore, continuamente repressa e negata, di sciogliere tutti i magoni del passato in un abbraccio, ora che il frutto, avendo scoperto la pianta che l’ha originato, non è più dimenticato ma ritrovato.
Ma la vita è dura ed i finali consolatori e sdolcinati valgono solo per i racconti edulcorati, riservati alle femminucce. La storia con il padre sconosciuto e ritrovato è invece una storia “vera” e naturalmente finisce, come è inevitabile e naturale che finisca: Cristiano ammazza suo babbo. Ovviamente in modo metaforico e letterario, ma bisognava poi chiuderla questa partita! E francamente non vediamo come potesse finire altrimenti.
Leggetela, vi commuoverete e anche vi divertirete, ma non..., ma sì, fatevi pure anche piacevolmente imbarloccare!
Ora Cristiano finalmente, pareggiati tutti i conti con il passato, potrà dedicarsi all’invenzione pura, all’avventura letteraria per eccellenza ed anche al futuro che per il momento, ne siamo sicuri, certamente si intreccierà con quello di un bimbetto di nome Giovanni che un giorno alla settimana sgambetta con lui “per le vie del paese”, come solennemente si dice quando sfilano i carri di primavera.
Gabriele... l’arcangelo naturalmente!
Alessandro Righini