Ancora una volta vogliamo inaugurare l'anno nuovo con un regalo e ancora una volta vi (e ci) regaleremo un racconto di Cristiano, letto per la prima volta l'altra sera in occasione di Serata '900. Dopo lo sport, il tema di quest'anno era la musica. Un viaggio nella memoria di quando Casola brulicava di gruppi rock di ogni genere, di quando le uniche grandi dispute erano quelle fra Beatlesiani e Stoniani, o se i Led Zeppelin erano meglio dei Deep Purple (che Beatles e Zeppelin, stravincano le due sfide è papale, ma non tutti ne sono convinti e non capisco perchè!). Buona lettura!


Incominciai ad ascoltare musica durante gli anni d’oro dei mangiadischi.
Oddio, a pensarci bene erano più gli anni dell’ottone, ma probabilmente il tipo di riflesso avrebbe ingannato qualsiasi altro bambino.Avevo un mangiadischi in comproprietà con mia cugina, di colore Aranciò, come dicevamo allora, e una caterva di 45 giri, pesanti come lastroni di cemento armato.
I pezzi pregiati della collezione erano la Hit del Tempo delle Mele, “Carletto Carletto” di Pippo Franco e un grande successo internazionale, “Word Don Camisi”, che pensavo parlasse di un Arciprete e solo parecchi anni dopo scoprii essere una canzone d’amore.
Poi, i mangiadischi furono soppiantati da un nuovo strabiliante supporto tecnologico, le musicassette, e sprofondarono nel tumulto dei tempi, pesanti e silenziosi come i fossili dei dinosauri.
Nell’82 feci la mia prima apparizione nel mondo dei fans sfegatati, quelli che ritagliano gli articoli di giornale e cercano di imitare in tutto e per tutto i loro beniamini.
Presi una sbandata tremenda per colpa di “e la goccia è nel mare” un lento Doroteo per voce e chitarra acustica con cui Frate Cionfoli aveva sbancato al festival di Sanremo di quell’anno.Se l’Italia pochi mesi dopo non avesse vinto il Mundial, riazzerando la lista delle priorità nel mio cervello, probabilmente oggi andrei in giro con il saio addosso e una chierica in testa larga come un eliporto.
Oltre che a sostenere accanitamente Frate Cionfoli, ero abbonato al Piccolo Missionario e non perdevo un numero del Giornalino.
Cercai pure di pettinarmi come lui, con i capelli diligentemente piegati in avanti, sulla fronte, ma i miei riccioli erano talmente indomabili che il buon Pierugo riuscì a tirarci fuori solo una strana tettoia a forma di banana, che proteggeva la fronte dalla pioggia e la manteneva ombreggiata nelle giornate di sole.
Il mio primo concerto live lo vidi alla Pista.Per chi non lo sa, la pista era uno spiazzo che sorgeva dove ora ci sono le Poste.
Quando per la Festa di Primavera venivano le giostre, li ci mettevano quella con le navicelle volanti, dove bisognava spararsi a vicenda e trionfava chi rimaneva sospeso in aria.
Non ero un esperto di fantascienza, allora, ma non riuscivo a capire perché mai quelle navicelle spaziali avessero il volante, come le Ritmo, invece che le manopole, come le astronavi.
Il ritardo dell’Italia nella tecnologia spaziale doveva essere mostruoso, pensavo.
Non mi fidavo, della Pista.
Aveva una pavimentazione di piastrelle, aranciò come il mio vecchio mangiadischi, ed era perfetta per giocarci a porte piccole.
Lungo il muro che la separava da via Paolo Volta era appoggiato un palco.
I più grandi ne facevano un uso particolare.Erano riusciti a trasformarlo in uno strumento da tortura medioevale.
A pochi giorni dal mio primo concerto, tre di loro avevano compiuto una razzia per le vie di Casola e avevano radunato alcuni di noi proprio su quel palco, sistemandoci come i birilli del biliardo, con le spalle al muro.
A me mi aveva beccato il leggendario Galera, che possedeva un radar particolare, in grado di rilevare la mia presenza con una precisione millimetrica, in qualsiasi ora del giorno.
C’è da dire che gli bastava aspettare sul pianerottolo, per acciuffarmi.
Altri due o tre li aveva pescati Spa-pada. Se non ricordo male, c’era anche Spartaco.Ci avevano sistemati lungo il muro, e cercavano di colpirci a pallonate.
Si divertivano così.
Forse è per quello che non faccio Bungee jumping e mi tengo lontano dalle escursioni in grotta della Sacknussen, ho già dato il meglio di me, negli sport estremi, a nove anni.
Fui molto sollevato, quando presero a bersagliarci con il pallone.
Per un attimo, mi ero convinto che sarebbe arrivato per direttissima dalla Storta o da Piazza Sasselli un plotone di esecuzione.
Una settimana dopo, su quel palco, davanti a quel muro, vidi esibirsi i Genitals.
Credo che allora si chiamassero ancora così.Non riuscii a restare concentrato sulla musica, non so perché, ma mi ero convinto che da un momento all’altro Galera sarebbe spuntato tra il pubblico e avrebbe cercato di centrare i musicisti a pallonate.Lentamente, crescendo, scivolai nell’universo incantato dei metallari.
I mitici gemelli Lamas avevano una collezione sterminata di cassette pirata.
Arredava la loro camera da letto, ed era così imponente che sembrava sostenere il soffitto. I Lamas potevano contare su un prestigiosissimo cugino di Modena, inafferrabile come l’Uomo Ombra, stando ai loro racconti, era intimo degli Iron Maiden e durante un Master of Rock a Monza era stato centrato in fronte da una bacchetta lanciata dal batterista dei Metallica.Doveva avere una forza mostruosa, quel batterista, perché il Cugino dei Lama, che io pensavo si chiamasse tipo Luca di nome e Cugino dei Lama di cognome, si trovava in fondo alla spianata dell’autodromo.
La bacchetta aveva viaggiato per tre o quattrocento metri, prima di colpirlo in testa.In ogni caso, se fossimo stati nei paraggi, avremmo venerato il bernoccolo di Luca Cugino dei Lama come una reliquia.
A Casola, gli spacciatori di cassette Heavy Metal erano Lele e Cristian Dardi.
Facevano la seconda superiore e a noi, alle medie, ci sembravano dei titani.
Voglio dire.
Indossavano il chiodo, e portavano i jeans strappati al ginocchio, lunghi fin sotto al tacco degli anfibi consumati.
Frusciavano, quando ti venivano incontro.
Avanguardia pura.
Noi vestivamo ancora con i Best Company a metà polpaccio, con ampi risvolti come i reduci di una tragica inondazione, e chi non poteva permettersi le Timberland, viaggiava nel mondo con le Worksteps.
Le Worksteps erano l’ideale per le altezze vertiginose raggiunte dagli orli dei nostri pantaloni, perchè dopo una settimana si sformavano e prendevano la forma delle chiatte da trasporto fluviale.
Avevamo lo sguardo spaurito dei turisti che capitano a Venezia in un giorno di acqua alta.Il grande Simone Lama fu il primo a tentare il salto di qualità. Si presentò un sabato al cinema senza il solito il montgomery di ordinanza, con un indumento più adatto ai nostri nuovi gusti musicali. Sbagliò di poco.
Il chiodo che era riuscito a procurarsi era felpato dentro, e addosso gli stava gonfio come un montoncino da sessantenne.
Sembrava un materasso.
Però lo spirito era quello giusto.
La musica era una crociata, e ognuno portava avanti le sue cause.
Nel Bar, Luca Tozzi predicava l’underground new yorkese di fine anni sessanta, sostenendo che i Velvet Underground erano più grandi dei Beatles. Non aveva tutti i torti, per certi versi.Ma a tredici anni ci riusciva più semplice immedesimarci nel ragazzino di Love me Do che cerca di far colpo su una compagna di classe a una festa, che nel travestito con l’esaurimento nervoso di Candy Says.
Altri, dopo l’ascolto del greatest Hits dei Doors, si trasformavano piano piano in piccoli Jim Morrison.Li beccavi subito, perché era come se andassero a male: iniziavano ad avere uno strano odore, come quando te la svignavi troppe volte dall’allenamento senza fare la doccia, e non perdevano occasione per girare con una bottiglia di whiskj in mano.Ma il più delle volte procurarsi il wiskj non era così facile, e si scendeva a miseri compromessi.
Dubito, però, che Jim Morrison si sia mai ubriacato con un pacco di Prinz tiepide.
Il buon Venturi viveva in un mondo musicale parallelo.
Ascoltava un gruppo che aveva prodotto gli stessi dischi degli Eagles, con le stesse identiche canzoni, come gli Eagles i loro successi erano Hotel California e Take it Easy, ma a sentire lui si chiamavano Gli Inglish.
Il suo pezzo preferito veniva riproposto senza posa alla radio, si intitolava Zombie, ed era cantato da una magrissima ragazza irlandese con la testa grossa, però non era suonato dai Cranberries, ma da certi Ciambers.
Devo dire che alla fine aveva ragione Venturi.Il bello della musica, quando ti piace, è che dopo un po’ non è di chi l’ha composta.
Diventa la tua, con significati ogni volta diversi, e ti accompagna, mentre percorri le strade della tua vita.

Quando incominciai a suonare con i Mirrors, Casola era la succursale romagnola di Seattle.C’erano gli Eh?, un po’ i nostri Pink Floyd e i Diavoli di Romagna, che animavano le feste alle case bruciate, sulla strada che portava a Zattaglia.Gude, alle percussioni, aveva un fascino da Fachiro.Ipnotizzava.
I Lesty ma con cautela, poi solamente Lesti, erano animali da palcoscenico, e ricordo le loro performance nei locali di Faenza.
Se ne parlava al bar, il giorno dopo, e sembravano racconti di incursioni piratesche, come quando Biagio, per impreziosire una sessione strumentale con un numero da mangiafuoco, fuse un pregiatissimo microfono radiocomandato e dovettero scappare di fretta e furia per non doverlo ripagare in contanti.
Avevo una grande soggezione per Paolo Marchignoli, che sembrava non avere paura di niente, e per lo stile inimitabile di Fulvio, che aveva un nome d’arte esotico, Rull’o Pazz.Dudu, semplicemente, era un essere mitologico, e anche il semplice servirgli una birra al bar mi inorgogliva.
La notte di capodanno del ‘91, con gli altri dei Mirrors, facemmo le cinque alla Lega del Suono Buono, in una infuocata Jam Session con Johnny Monducci.
Era, per noi, il Lou Reed di Casola, il talento allo stato puro.
Suonammo ‘Sweet Jane’ per ore.
Poco dopo arrivarono i Backlash, e a me fu subito chiaro di essere una schiappa come chitarra solista.In due anni non avevo imparto che l’arpeggio di Hotel California, come pezzo virtuosistico, mentre Marco dopo pochi mesi riusciva a tirare fuori dalle sue dita gli assoli degli AC/DC.
I concerti in piazza a favore dello Ior duravano giorni interi, da tanti gruppi che c’erano.
Un anno si esibirono anche Riccardino Isola, Checco e Mauro Turrini. Non ricordo il nome del gruppo, credo fossero il primo embrione degli Skizzout.
Riuscimmo a convincere Riccardino ad esibirsi con addosso un lenzuolo con i buchi per gli occhi. Gli assicurammo che i grandi frontmen lo facevano spesso.
Si presentò davanti a una platea di genitori, parenti e cugini di secondo grado come un fantasma, saltando da tutte le parti, e le signore nelle prime file, tirarono la testa all’indietro, spaesate.
Erano già frastornate dal livello inclemente della musica, e le cotonature azzurrognole fresche di messa in piega ondeggiarono paurosamente, come torri sul punto di crollare.
Era lo stesso movimento frastornato che avevo visto un giorno di molti anni prima, mentre servivo una delle mie duecentomila Via Crucis in chiesa, e al buon Piter Tozzi era stato accordato l’onore di leggere le scritture.
Tutto era filato liscio, ma poi si era un po’ montato la testa, e sul più bello, impostando una voce tonante, quella che doveva avere Ponzio Pilato, aveva chiesto ai fedeli: “Chi volete libero, Gesù o Barbara?”
E noi, in coro, “ Barbara! Barbara! Assolutamente”A distanza di anni, il brusio che passò di bocca in bocca tra il pubblico era lo stesso.
Solo il nome era cambiato.
“E’ il figlio di Guerrino” si bisbigliarono allora le vecchiette inginocchiate davanti all’altare, scioccate dalla liberazione di Barbara. “E’ il figlio di Roberto” dicevano i presenti al concerto dello Ior, fissando sconsolate il lenzuolo che si agitava sul palco.
C’era anche un sano spirito di competizione, fra le band del paese.
I Mirrors e i Lesty, per esempio, facevano un mucchio di concerti, ma avevano radici e stili di vita completamente differenti.
Agli inizi, noi quattro, Michelino, Rigo, Isola e il sottoscritto, conducevamo una vita morigerata. Eravamo il prodotto del vivaio della parrocchia, probabilmente il primo gruppo rock democristiano nella storia dell’Emilia Romagna e non era un caso se la nostra prima esibizione live fu fatta davanti ad una platea di scout di via, nella sala dell’asilo delle suore.
Suonammo il ‘Pescatore’ di De Andrè.Da quel che mi ricordo, lo suonammo come minimo dieci volte, perchè era l’unica canzone che sapevamo fare, oltre a ‘Viva la mamma’ di Bennato.
Non avrei mai potuto immaginare Dudu, Marchignoli e Fulvio che suonavano ‘Viva la mamma’ nell’asilo delle suore.
Erano il lato selvaggio della musica casolana, e un po’ li invidiavo.
Poi, con il tempo, anche noi ci siamo lasciati andare, ma qui ci sono i nostri genitori, ed è meglio lasciar perdere.
Per chi ha orecchie, dico solo una cosa: “Sexy shop Malizia, Ravenna”.
Un’altra rivalità sorse tra noi e i Lupus in Fabula, quando ancora non facevamo pezzi nostri e suonavamo cover di gruppi anglo americani.Con i Lupus condividevamo il retroterra, ma loro avevano una scaletta più invitante, perché eseguivano grandi successi italiani, soprattutto di Vasco.
Un po’ mi dispiaceva, non esserci io a cantare il loro cavallo di battaglia.
Avrei dato un braccio per intonare ‘La nostra relazione’, che nella lingua dei Lupus si pronunciava ‘la nostra Relaziòne’.
I Mirrors, i Lupus in fabula, i Backlash avevano un punto in comune, imponente come un faro: Daniele Faziani.
Non solo ci insegnò a trattare gli strumenti come esseri dotati di vita propria, organizzò tutti i nostri primi concerti e fu durante un’esibizione in piscina, con lui che ci accompagnava alle tastiere, che per la prima volta in vita mia, circondato dalle note di Penny Lane che si incastravano perfettamente, pensai: “Cavolo, ma sono un musicista!”.
E’ una delle cose di cui vado più fiero, ed è stato un onore condividere il palco con lui.
Molti di noi non avrebbero mai suonato, senza il suo interessamento costante e la sua passione invincibile.

Ho smesso di suonare a vent’anni.
Da tempo, la mia fedele chitarra elettrica è un relitto arenato in cima all’armadio.
La paletta del manico, con le chiavette delle corde, esce dal bordo, e ogni tanto la sbircio di nascosto, come se mi vergognassi.
A volte mi sembra di vedere le chiavette scintillare, e mi ricordo di quando stavamo sempre abbracciati, io e lei, e di tutte le serate perfette che abbiamo passato insieme.
Visto da qua, quel tempo era l’apice di un’età dell’oro.
Non è più stato così.
Forse, semplicemente, ci si perde di vista.La vita è piena di cose difficili da impugnare.Ti sfuggono, e non puoi farci più niente.Ma una cosa mi consola, e gliene sono grato.Per quanto potessimo essere inadeguati, allora, per quanto difficilmente azzeccassimo un’esibizione pulita, i nostri strumenti e la musica che nasceva da quegli abbracci non ci ha mai tradito una sola volta.
Dalle casse usciva un’energia che era una promessa mantenuta.
Capita che la riprenda tra le mani, la mia vecchia Custom bianca, e che accarezzi le corde.
Raramente, ma capita.
E a quel suono mi sembra per un attimo di poter ritornare a quei giorni perfetti e riacciuffare al volo i miei diciott’anni, cavalcando a ritroso la sua melodia, sinuosa e dolce come un arcobaleno.

Cristiano Cavina
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