“Alti volteggeran nel vento, d'abilissimi alfieri, gli stendardi”. Così, riporta parte del bando del Palio di Faenza.
Certo è, che gli occhi di un bambino, riescono a sconvolgere il nostro accomodamento con il mondo. Anche dall'altra parte dell'emisfero, sottosopra, in un piccolo puntino dell'Australia, Ingham e dintorni. Nel Queensland, una regione gigantesca.Un enorme distesa di campi di canna da zucchero. Non una zona infarcita di palmizi e immaginari turistici. Piuttosto, un centro rurale fuori dal mondo. Lontano, lontanissimo.
E così, nell'epoca delle testimonianze digitali, un gruppo di avventurieri è partito all'arrembaggio per questa destinazione. Un fantomatico ordine di una ventina di persone tra sbandieratori (provenienza Faenza/Reggio Emilia), musici (provenienza Faenza/Lugo/Bologna) e affini (provenienza Faenza). Sbarcati all'aurora di una fine di luglio, dopo aver attraversato mezzo mondo, per portare la propria tradizione, i propri colori, il proprio spettacolo. Apprezzato, emozionante, applaudito. Una valida collisione di culture.
Base Ingham. Un paese piccolo, molto vasto. Nato all'interno di enormi distese di campi di canna da zucchero. Tagliato dai binari dei treni che lo attraversano per la raccolta. Costruito a lato della strada che gira tutt'attorno all'Australia. Guardato a vista dalla notte, dal silenzio, dalla solitudine. Preso in ostaggio dalla natura, dai fondali dell'inconscio, da ciò che per noi non è abituale. Un piccolo paese, il cui armamento più potente, è rappresentato dalle storie delle persone che hanno scelto di fermarsi qua. Parole, sguardi, strette di mano, abbracci che rimodellano ed elaborano la versione di noi stessi. Spiazzandola, spostandone i confini. Da fiaba, l'esistenza di una scuola con due alunni, fratello e sorella, più sette insegnanti.
Dintorni. Townsville la città importante più vicina. Il resto, paesaggi estremi, selvaggi, aborigeni. Troppo forti per essere qualcosa di realmente accaduto. Un breve, ma alto contatto con un ambiente naturale che ha la proprietà di modificare la percezione di noi stessi. Che tira su il viso, in un tema quotidiano che ci vede sempre più soli, egoisti, affondati per la maggior parte del tempo in schermi blu. Il segno umano è quasi assente, bandito. Cascate, sentieri, isole, piante, animali, alberi, spiagge nascoste, acque limpide. E i nostri avventurieri, che con lo sventolare delle bandiere e il suono di chiarine e tamburi, inconsapevoli o coscienti, hanno trovato qualcosa di prezioso e sepolto. Un breve viaggio, al di fuori della nostra abitudine di marmo, che ha attraversato il nostro baricentro rendendolo meno fermo e più ricco.
Nelle immagini si confondono persone, colori, tradizioni, cibi, cartelli. Su tutto regnano incontrastati la distanza, il paesaggio selvaggio, la luce, l'isolamento, la bellezza, il tempo sospeso, il cielo, la presenza a se stessi. Tutto questo non pretende di essere 'dine dell'universo, troppa la sua potenza per i nostri piccoli cuori.
Questo, è quello che ti dico una domenica mattina. Anche se quello da raccontare è molto di più, ma il tempo sta andando via. In giro tra le tempeste del cielo e il sole sopra il mare. Questo è quello che dovrebbe essere, questo è quello che è. Sulla finestra si dipingono luoghi lontani. Ciò che non dovremmo dimenticare, ciò a cui dovremmo concedere un po' di tempo. Questo l'abbiamo imparato dal calore che sanno dare le persone. In tempi in cui il calore, lo vorremmo uccidere. Possiamo sentire le onde del mare, parlare e andare. Immergere la testa sott'acqua, quando sembra tutto sbagliato. C'è qualcosa che ci gira intorno, lungo il corso di una giornata. Sappiamo che c'è qualcosa che ci appartiene, non lasciamolo andare via. Qualcosa che è scomparso, ma che sa farci vivere. Questo è quello che penso. Anche se è molto di più. Una domenica mattina, prima che vada via.
r.l.