Pubblicato in “spela bollen, jag ar fri!” malmo 2007

Nei fatti fu lei che mi lasciò. Quel giovedì piovoso, quando aprii la porta, respirai che lei non c’era. Rimasi nel buio per un po’, seduto sulla poltrona. Poi mi cucinai due uova per cena. Quanto l’avessi amata non è scritto, però, sembrava molto. Per diversi anni facemmo tutto dell’amore. Come donna era perfetta...
Facevo il rappresentante di abbigliamento. Messa via quella laurea, avevo iniziato con un tale, guidavo una vecchia Polar e consegnavo i vestiti ai negozi. Poi mi misi in proprio. Ora andavo alle collezioni a Firenze, Roma, Milano, e sebbene non avessi talento, con gli anni avevo accumulato la mia esperienza.
Lavoravo sempre di più e guadagnavo bene. Ristoranti, Mercedes, appartamento in centro di 120 metri. Belle scarpe. E la mia donna amava cucinare per me, e se non c’ero, mi scriveva frasi d’amore incancellabili.
A trentatré anni iniziavo a sentirmi un po’ stanco: La mia segretaria diceva:
- E’ lo stress…
- Il tempo, signora Carla, è la ricchezza insostituibile… Le rispondevo. Suonava il telefonino. In un secondo ero pronto per un ordinativo, una collezione, una fiera… Guai non squillasse a tutte le ore, anche solo per la pila scarica.
La prima cosa che non mi interessava più furono gli aperitivi. Scorrevo il giornale in cerca di un film, e mai ne trovavo. Lasciai perdere le discussioni sul calcio, cambiavo canale, scivolando più in basso nel mio divano, mentre lei, vestita per uscire, si era addormentata appoggiata al mio petto… Trascuravo il collo delle mie camicie.
A un certo punto mi accorsi di non avere novità. Rallentai il parlare.
- Non mi racconti niente, amore? Lei diceva.
Poi, quell’inverno piovoso smisi di giocare a calcio a otto, il giovedì.
Quando lavori in proprio succede che non puoi nasconderti. Non esiste equilibrio e chi si ferma è perduto. Devi tenere il piede, costante, sull’acceleratore. Avevo tre venditori, adesso. Ma il mercato cambia rapidamente, e il lunedì scopri concorrenti agguerriti, incontri clienti nuovi, e ne perdi due fra i migliori, ed uno, due, tre, quattro insoluti, e la cartella delle tasse… E i grandi gruppi nella crisi cercano anche la tua aria: come rubare le caramelle a un bambino. Ti dici: domani vado da loro, col mio curriculum…
Ci sono nelle piccole città, specialmente in estate quelle sfilate di moda. La gente accorre, più che a teatro, a guardare da vicino le gambe asciutte delle modelle.
Fu in una di queste occasioni che avevo incontrato il dottor Tempesta. In prima fila, col sindaco e il maresciallo, la direttrice della scuola e il presidente dell’Avis comunale, questo vecchio con la camicia a quadri, che si beveva a lunghi sguardi le modelle, le braccia incrociate sul petto.
Poi me lo presentarono.
- Gran belle figliole… Disse, le ha provinate lei?
- No, io ho messo solo i vestiti.
Mi guardava.
- Che c’è? Dissi.
Scambiammo qualche frase ancora. Non era altro che umana simpatia. l’indomani se ne sarebbe ritornato in Africa, al suo villaggio, alla sua clinica…
L’avevo scambiato per un prete, ma era un medico.
- Posso fare qualcosa?
- Si, certo. Vestiti alla moda? Sarà un successo...
- Manderò quelli della passata stagione…
Mi scrisse l’indirizzo su un foglietto.
Il lunedì incaricai di occuparsene la mia segretaria.

In pochi mesi la mia barca affondò. Dai margini insostenibili a quell’affare sbagliato, quei pagamenti mai arrivati, e quella truffa: sette maledetti assegni scoperti… Rimane il mutuo da pagare.

- E’ lo stress, finirà per perdere i capelli… Diceva la Carla.
- Dei capelli mi importa, è del resto che in generale non me ne frega granché …
Così quando lei se ne andò, era quello che, straniero, avevo voluto.
Mischiai whisky e birra e vomitai pancreas e polmoni. Cadendo a terra lacerai il cappotto.
Al pronto soccorso, mi chiesero il nome:
- Lucio Maltese …
Età, professione, etc…
Parlare, e dire sempre le stesse cose…Come una ruota all’aria…
- …Detto Parpàjò… Ala destra… Farfugliai.

Adesso era tempo di levare le tende.
Ora con i moderni aerei in meno di dodici ore puoi essere in Africa.
Odore di uomini e legno duro. Odore di nafta.
Terra rossa abbagliante. Terra cotta nel tempo. Donne avvolte in tessuti colorati, i più colorati del mondo.
Allontanandomi da Nairobi, dal pulmino dei bianchi guardavo fuori festosi i bambini dell’umanità.
Dopo tre giorni di viaggio, ed altri due, arrivai a Coijnd Dadanda.
- Sono qui per il dottor Tempesta…
- Arriva tardi, il dottore è morto sei mesi fa…
Le pale del ventilatore affettavano lente il silenzio sulle nostre teste. Padre Benjiamin era un giovane africano dal collo lungo e il mento alto. Adesso era lui il direttore dell’ospedale.
- Allora lei è un medico? Un infermiere?
- Veramente, no… Sibiliai…
- Un ingegnere? Un geometra? Un muratore? Un falegname? Un idraulico? Un meccanico?
- No, no, no, no…
- Ma perché Tempesta l’ha chiamata?
- Non mi ha chiamato lui.
- Dovevo immaginarlo signor Maltese, con quella ridicola giacca e quegli occhiali da film, lei è un turista… Terminò padre Benjiamin: …
- Io ho studiato storia dell’arte… Dissi alla fine.
La mia stanza era di tre metri per due. Un letto di ferro sotto una zanzariera, una vecchia sedia di quelle da bar. Benjiamin non mi disse se sarei potuto rimanere. Mi stesi. Dalla scuola o dalla chiesa arrivavano le voci dei bambini che cantavano.
Quella sera cenai con Benjiamin e il suo staff. Nicole e Shamantà, le infermiere, il signor Renoir, una specie di tecnico tuttofare, e Suor Laura l’insegnante. Laura aveva ventun’anni ed era bellissima. Padre Benjiamin era intelligente, intransigente e pieno di sé. Il tipo di santo, per intenderci.
Intanto davo una mano a Renoir.
- Perché questo nome?
- Quando arrivai qui, più di quarant’anni fa, avevo circa dodici anni, i miei erano scomparsi in una di quelle guerre. Così bianco com’era credevo lui fosse un fantasma, o la morte stessa, ma Tempesta mi diede secchio e pennello, per ricoprire di calce quelle macchie amaranto. Ma io pretesi alla fine di disegnare anche degli animali sui muri. La giraffa, il leone, l’elefante, la gazzella e la zebra.

Incontrai padre Benjiamin. Lo seguii nei locali dell’ospedale: un lungo stanzone sotto un tetto di lamiera.
- Era il deposito delle banane… Disse. Poi aggiunse: Ho studiato medicina, ma non mi sono mai laureato… In quanto alla teologia, ero molto bravo… Ora ho dimenticato tutto, salvo che il mondo è sacro, compresa questa terra antica ed esausta… Il deserto avanza e fa tutto arancione… Non piove da quando Tempesta ci ha lasciato… Fu un acquazzone di mezz’ora, niente di più, ma questo fa pensare alle donne che non sia una coincidenza. Che differenza c’è fra un medico ed uno stregone? In fondo sono entrambi umanisti …
- Perché non emigrare?
Benjiamin replicò:
- Se ci fosse un Moshè fra questi bambini nudi… Perché io sono solo un prete come vede… Una terra promessa raggiungibile a piedi…
Poi sorrise leggero aggiungendo: - Malindi sarebbe stata perfetta…
Mentre padre Benjiamin mi parlava, sudavo freddo e mi girava la testa. Ero lì da pochi giorni ed ero già ammalato.
Febbre, dissenteria, male alle ossa, dopo tre giorni ero esausto.
- Padre Benjiamin, sono grave?
Benjiamin rispose di no.
Mi passò dopo una decina di giorni. Andai da Benjiamin:
- Potrei fare l’insegnante.
- A questi bambini non servono Giotto e Caravaggio e neppure la sua bella lingua italiana.

- Come si sente signor Lucio, oggi?
- Madre Laura… Grazie, sto meglio, il peggio è passato.
- Sorella… Mi chiami sorella. La sono venuta a trovare, ricorda?
- Sì, certo, mi ha fatto molto piacere… Non lo ricordavo affatto.
Laura era riservata e un po’ timida, Io non sapevo cos’altro dirle mentre non resistevo a guardarla. Le dissi così:
- Sarà per il velo che indossa, ma lei mi ricorda un quadro di Antonello da Messina.
Non replicò.

Si levò un vento da nord. La sabbia pungeva la pelle e penetrava in ogni fessura. Le nuvole apparvero tre giorni dopo, in tarda mattinata ed alle tre del pomeriggio iniziò la pioggia: gocce molli, grosse come cavallette… E Dio, se piovve… La gente del villaggio rideva e danzava lasciandosi bagnare, la lingua protesa alla pioggia.
In un avvallamento del terreno si era creato un piccolo lago, quando capii che era stato concepito apposta, le donne e i ragazzi correvano e vi si gettarono dentro, si lavavano e si rinfrescavano con questa acqua color sangue. Poi arrivarono di corsa, nudi i bambini della scuola, che vocianti si tuffarono anche loro. E dalla chiesa uscì Laura, la riconobbi dal passo, indossava solo le mutande ed una maglietta bianca, già bagnata, le si vedevano i seni. Si gettò nell’acqua fra i suoi alunni, senza neppure vedermi. Alcune ragazze più grandi mi presero per mano e ridendo mi trascinarono nel lago melmoso. Gettai via i miei abiti e mi immersi completamente, mentre queste ragazzine e i loro amici si spruzzavano, e le donne più grandi sedute in cerchio nell’acqua, cantavano lavando i bambini. Arrivarono anche i pastori… Quanta pioggia cadeva… A un certo punto mi venne da gridare:
- Mi chiamo Parpajo! Io mi chiamo Parpajo!!!…

Sulle voci degli altri sentii una risata. Era padre Benjiamin:
- L’ho capita, lei è un piccolo re!

Sotto le fronde del grande albero accanto alla chiesetta, venne suor Laura da me.
Mi mostrò un vecchio libro di scuola cui mancavano delle pagine.
- E’ questo il quadro, quello di Antonello?
- Questa madonna è la più bella della storia dell’arte…
Allora Laura si sedette sulla panca vicino a me:
- Se lo vuole sapere, la purezza dell’amore a volte ci fa gioire, come nell’acqua rossa ieri, e a volte ci addolora, Lucio. Lei certamente ignora che non esiste parola simile nel dialetto della mia tribù, le donne si possiedono come le vacche e le capre… e come si può amare chi è destinato a morire? Mi riferisco ai figli…
Perciò non si usa da noi mischiare spirito e corpo ed alle bambine, me compresa, viene praticata l’infibulazione. Allora? Ciò che per lei è sublime astrazione, per me che sono cattolica e battezzata e consacrata, le dirò che l’amore è pietà…
- Come disegniamo animali alle pareti,- Replicai, -inventiamo le parole per dire ciò che ci piace. E’ forse per istinto che seguo con lo sguardo il suo profilo e non posso accettare che sia tutto qui… Terminai osservandola col capo obliquo.
Poi lei si alzò e camminò via.

Arrivarono degli scatoloni dall’Italia, a nome dottor Tempesta, ospedale di Coijnd Dadanda. Sotto lo sguardo dei bambini, aiutavo il signor Renoir ad aprirli e ordinare le cose. Da una di queste scatole, estrassi un pallone di cuoio a pentagoni bianchi e neri, nuovo di fabbrica e già gonfio. I bambini rimasero meravigliati.
- Signor Renoir, Guardi, gridai ed iniziai a palleggiare di destro di sinistro e di testa.
- Ah, mai stato capace, io, sempre lavorato… Replicò Renoir.
I bambini attorno a noi fremevano per toccare quella palla, che quando sembrava cadermi, arpionavo o col tacco o con la punta del piede.
- E bravo Parpàjò! Qualcuno gridò.
Era padre Benjiamin che mi osservava e rideva.


Claudio Menni
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