Breve introduzione
Quando si discute, si ragiona, si vaglia una creazione artistica è sempre opportuno farlo cercando in primis di carpire il linguaggio e i codici attraverso i quali essa ci parla. Solo cogliendo il vocabolario di un genere di creazioni possiamo permetterci di misurare la sua attendibilità artistica e di apprezzare, con coerenza, il suo impatto emozionale.
Io non conosco a menadito il vocabolario dei carri allegorici e non so se essi possano essere ritenuti opere d’arte, ma di certo so che essi hanno l’onere di rappresentare, a suon di legno e gesso, i concetti racchiusi nelle profetiche “relazioni”.
Quando si discute, si ragiona, si vaglia una creazione artistica è sempre opportuno farlo cercando in primis di carpire il linguaggio e i codici attraverso i quali essa ci parla. Solo cogliendo il vocabolario di un genere di creazioni possiamo permetterci di misurare la sua attendibilità artistica e di apprezzare, con coerenza, il suo impatto emozionale.
Io non conosco a menadito il vocabolario dei carri allegorici e non so se essi possano essere ritenuti opere d’arte, ma di certo so che essi hanno l’onere di rappresentare, a suon di legno e gesso, i concetti racchiusi nelle profetiche “relazioni”.
I carri sono dunque simboli, o allegorie, di idee, opinioni e giudizi. E in quanto tali, dal mio umile punto di vista, dovranno aderire il più fedelmente possibile allo stimolo argomentativo presente nella suddetta relazione. La creatività ha un senso solo viene colta e condivisa, tutto il resto è elitarismo artistico a tratti inopportuno.
Dunque, come spesso accade, quello che conta sono le emozioni e la coerenza tra forme e contenuti. Anche se, come in questo caso, dolcemente trainate da un trattore.
Società SISMA: E=mc²
La teoria della relatività ristretta, pubblicata da Albert Einstein nel 1905, dimostra, in parole povere, che spazio e tempo sono due concetti puramente relativi, e che l’energia di un corpo (E) è uguale alla sua massa (m) per la velocità della luce al quadrato (c²). Ora, non è questa la sede per approfondire le speculazioni del relativismo di Einstein e proprio per questo ci accontentiamo di dire che l’energia e la massa di un corpo, secondo la relatività, non sono più due entità propriamente indipendenti, ma possono, ad altissime velocità, trasformarsi l’una nell’altra.
Apparentemente però, non sono queste complessità elettromagnetiche ad interessare la Società SISMA, che pare affascinata e stimolata da un’interpretazione molto più umanista e speranzosa della famosa formula fisica, un’interpretazione più grezza e spontanea che mira, in una baraonda cromatica profondamente astrattista, a scorgere nel concetto di energia (E) un inaspettato vitalismo filantropico.
Ed è immediato avvistare il vitalismo fin dalle prime righe della relazione, non tanto nella citazione al Cherubini, ma soprattutto in quel fiume sintattico, a tratti dannunziano, che scorre verboso dal primo all’ultimo capoverso, dove i punti di sospensione cercano di non dare tregua al lettore, coinvolgendolo e trascinandolo in una discesa libera di ottimismo, secondo la SISMA, dunque, m e c² non sono più rispettivamente massa e velocità della luce, non sono più due valori fisici all’interno di un sistema ordinato, non sono più pesi matematici che ci permettono di calcolare l’energia scatenata da un oggetto, ma divengono, e cito la relazione, “le tue variabili” e, in quanto tali, “sta a te e solo a te deciderle, l’importante è che il risultato sia sempre E, energia”.
Ma rappresentare l’energia, fidatevi, non è affare da tutti i giorni, studiarla sarà complicato, ma metterla su un carro, per giunta allegorico, lo è ancora di più. Io, che non me ne intendo, avrei pensato ad una pila enorme, magari con una bella ragazza seduta sul polo positivo, la SISMA ha invece preferito astrarre il tutto, dare un taglio organico e tutt’altro che concettuale alla rappresentazione, sfoggiare l’energia sottoforma di un amalgama tecno-muscolare che mescola richiami cyber-punk (sia nelle forme che nei costumi) a gradazioni di colore vagamente “freak”. Ne risulta, forse non a torto, una struttura plasticamente interessante, caratterizzata da uno slancio asimmetrico fortemente irrazionale che rimembra graffiti e culture metropolitane. Di certo, una forma nel complesso molto libera, anche giocosa, che appare rigida e cedevole allo stesso tempo.
Ma, e mi permetto di ripeterlo, rappresentare l’energia non è affare da tutti i giorni, e rappresentarla per giunta come energia positiva che dovrebbe esaltare e coinvolgere tutti gli esseri umani è affare, a pensarci, decisamente ostico. La scelta organica e a-simbolica può essere ottimale, ma si rischia di perdere, come probabilmente è accaduto, quella esplosione filantropica tanto acclamata nella relazione, quella fusione di energie umane che abbatte le mura e accende le oscurità. E, di conseguenza, l’ azzardo è quello di emozionare con le forme perdendo però l’indispensabile coerenza di alcuni dei contenuti.
E=mc² risulta forse un carro a-simbolico, composto in maniera diretta, sottovalutando l’efficienza scenografica e costumistica delle rappresentazioni concorrenti, ma di sicuro, attraversando il boulevard casolano, ha suscitato sorrisi e spensieratezze, curiosità e suggestioni da street parade.
Sarebbe stato propizio strisciarlo ad una velocità più elevata, magari da una roulotte musicante o da una decina di motori da cross e sarebbe stato favorevole sostituire il ritmo bandistico con sonorità più congrue e giovanili, tipo “What is love?” o “Cos’è l’amore?” di Cher. Ma, evidentemente, queste sono le regole, e, in quanto tali, è opportuno e ideale rispettarle.
Di certo, se la SISMA ha peccato un po’ d’inesperienza, ha dimostrato che anche senza mezzi eccelsi e con un gruppo decisamente giovane si possono ottenere risultati intriganti e dare vita, con impulso imprevedibile, a geometrie inattese e scompigliate. Scompigliate come gli atomi che sobbalzano o come i palpiti di un cuore eccitato. E se anche l’ottimismo SISMA può apparire scontato, vi garantisco che può fare del buono, a volte, lasciarsi un poco andare e trasformarsi in una pila Duracell che carica e autoricarica procedendo avanti e indietro per Via Roma. E, tutto sommato, non serve procedere alla velocità della luce, basta un trattore.
Società INPUT: Un passo dopo l’altro
Se c’è una questione che il mio animo sopporta a stento, che fatica da sempre a fare, è il volgersi indietro a memorie e ricordi. Frugare le reminescenze, osservare le vecchie foto, mi provoca, spesso, un balordo disagio. Cerco dunque di farlo il meno possibile, evitando tentennamenti e disagi nostalgici. Ma è chiaro che le cose, molto spesso, meno le vuoi fare e più ti trovi costretto a farle: avevo gettato la VHS di “Amarcòrd” nel fuoco anni addietro, ma a Natale dell’anno scorso mi hanno regalato il DVD. E come se non bastasse c’erano pure dei contenuti speciali.
La società INPUT, beata lei, non ha questo terribile complesso. Ha la sensibilità e la maturità di vedere tutte le vecchie foto come una miriade di minuscoli tasselli del grande Mosaico, e di attraversare il cavalcavia della memoria con passo nostalgico ma tutto sommato sicuro: “Senza rimpianti” sussurra l’introduzione alla relazione, “senza rimorsi […] perché il passato è lì che aspetta e sorride, perché il passato è memoria e la memoria è la nostra vita”. Di certo il passo è sicuro e il dono del procedere senza rimpianti, “varcando il ponte dei ricordi” è un dono che merita rispetto.
Ma un po’ meno rispetto, forse, merita l’andatura della relazione che, con accenni puntuali ma vagamente disordinati, finisce con il raccontarci alcune storie sgranandole tra eccessivi sillogismi, tra sopravvalutati luoghi comuni. Guai a toccare i luoghi comuni, Dio me ne scampi e liberi, ma in alcune circostanze, credo, è sufficiente lasciar parlare gli accadimenti, i ricordi, le fòle di paese (Gancio, Rotella figlio di Panza, il tenore Ugoletti e la vecchia Rosmina), senza condirle di didasclismi e di specificazioni chiarificatrici. Chi ha orecchie per intendere, solitamente, intende. Certo, voi direte, è però anche opportuno spiegare alcune metafore, soffermarsi sui simboli, sulle allegorie, districare alcuni enigmi, ed io sono d’accordo, ci mancherebbe, ma allora bisognerebbe lavorare sulla lingua, sulla simmetria narrativa, sulla puntualità retorica, e non lasciar cadere parole, reminescenze e elucubrazioni in un unico indistinto paiolo.
Ne risente, e questo è un peccato, l’eleganza crepuscolare del carro, l’atmosfera arrugginita e nostalgica che immediatamente propone, gli intrecci di ferro battuto che raccontano più di mille sentenze sontuose (“A volte la vita è solo un piccolo giardino ai confini della storia, e a volte è un grande palcoscenico”). Il carro INPUT risulta così un importante mostra d’antiquariato, puntuale, ordinata, che mescola una struttura piuttosto imponente e metafisica a una cura scenografica sensibile e azzeccata. La motoretta sul viadotto dei ricordi rampa che è un piacere, il macinacaffé rivisitato in rame è un feticcio inesorabile della nostra infanzia, e il tentativo di fermare il tempo (la figura che blocca le lancette dell’orologio), forse un po’ prevedibile, è comunque gestito con accuratezza. Ma in tutto questo clima passatista e seppiato, a tratti, si finisce con il perdere il gusto del minuscolo tassello del Mosaico, della vicenda perduta, dell’accadimento di paese, degli umbratili personaggi che farciscono la piccola memoria storica di una comunità.
E quello che resta, secondo il mio ragionamento, è una foto diligentemente scolorita e ben fatta, attentamente sfumata, fine e ricercata, ma che rischia, nel suo estetismo del crepuscolo, di non emozionare a sufficienza, di svelarsi troppo, perdendo il gusto della narrazione, dell’intreccio, dell’episodio mitico.
Ma rimane, questo sicuro, la stima per chi riesce a vedere il passato come un sorriso che ci accompagna e incoraggia, senza complessi, senza rimpianti, perché forse è la maniera più pratica ed efficiente per rapportarsi con la propria storia. Magari ci proverò pure io, non si sa mai che riesca a guardarmi quei benedetti contenuti speciali di “Amarcòrd”.
Nuova società Peschiera: “La cruna dell’ago”
Il suo nome in codice era Die Nadel"