Non sono guide turistiche, non sono descrizioni di un luogo, non sono racconti di viaggio, non sono neanche semplicemente racconti. Sono una serie di libretti in cui uno scrittore parla del luogo in cui vive, o in cui è vissuto a lungo, o con cui ha un legame particolare, e lo fa nella modalità che meglio si confà non solo a lui ma al luogo stesso. Questi libretti sono una sorta di filone interno alla collana Contromano della storica e importante casa editrice Laterza.
Brizzi ha raccontato (non è come abbiamo accennato prima, il verbo più esatto, ma ce lo teniamo per comodità) La vita quotidiana a Bologna ai tempi di Vasco, Carofiglio invece una notte barese (e qui sì, ha veramente raccontato), Aldo Nove ha messo nella centrifuga Milano (in questo caso dire “ha raccontato Milano” sarebbe riduttivo e scorretto. Non foss'altro perché il libro di Nove si intitola Milano non è Milano e su questa idea di una città senza identità – o meglio, dalle mille identità perennemente mutevoli – gioca in continuazione, tanto che le prime pagine, fuorviato da una ricerca fatta in Google, Nove le dedica a Alyssa Milano, attrice certamente non da Oscar ma che si è ritagliata il suo spazio nel mondo della TV – e credo anche nelle fantasie di chi era adolescente 10 anni fa – grazie all'interpretazione di una delle sorelle di Streghe – ormai è chiaro, la più carina, né la pallosa sorella maggiore né la ex Brenda di Beverly Hills 90210, quell'altra. Ma questa, come nel libro di Nove, è appunto un'altra storia).
Partita da alcune fra le maggiori città italiane, questa serie di libretti ha pian piano esplorato anche luoghi più remoti, ha raddoppiato i punti di vista su alcune di quelle stesse città, ha toccato spazi che hanno un nome comune e non prorpio: le periferie, le panchine, ecc. Non poteva quindi non approdare in Romagna e oggi come oggi ci viene da dire che per raccontare la nostra terra non poteva che chiedere la “consulenza” di Cristiano Cavina. Ma anche fossimo un po' fuorviati dal campanilismo, rimane il fatto che così è andata e a Cristiano è toccato il piacere di entrare in una delle serie editoriali a mio avviso più interessanti degli ultimi anni.
Romagna mia! è il titolo con cui il libro di Cristiano è appena uscito, il 5 luglio, titolo non certo originale ma che in effetti, se ne fosse stato scelto un altro qualsiasi, avremmo detto : “Ma perché non l'hanno chiamato Romagna mia?”. O forse il titolo non è poi così banale, anche solo per il fatto che il ritratto che Cristiano dà della nostra terra è decisamente molto personale e soggettivo. Spiegheremo più tardi le motivazione di quanto appena affermato, va prima aggiunta una considerazione sul fatto che proprio a Cristiano sia stato affidato il racconto. O meglio, che sia stato affidato a un casolano. Basta che prendiate una mappa della Romagna (cosa forse non semplice da recuperare in tempi moderni, ma se non la trovate andate in libreria, comprate il libro di Cristiano e lì c'è, magari non precisissima ma rende l'idea). Ecco, adesso guardate in che posizione si trova il nostro paese. Non è proprio centrale, così spostato com'è verso il confine toscano. E non è neanche collocato in un punto di rilievo da un punto di vista economico, come potrebbe essere se si trovasse in riva al mare. E' alla periferia di un impero (la Romagna appunto) che già di per sé è periferia, piatto di contorno gustoso ma che mai sarà prima portata (come le patatine fritte, dice Cristiano, parlando di sé ma, lo vedremo, non cambia molto) in una regione che ha il suo centro direzionale in Emilia. Che siano venuti proprio fin qua da noi a cercare uno che raccontasse la Romagna intera lascia sorpresi ma, di nuovo per le ragioni campanilistiche di cui sopra, fa anche tanto orgoglio. Ma a parte ciò, credo che questa perifericità al quadrato stia in parte alla base del modo in cui Cristiano spariglia le carte delle aspettative, in un certo senso “deluda” le attese. Cerco di spiegarmi. Ho la sensazione che uno, che ne so, di Rimini, o di Ravenna, leggendo il libro potrebbe rimanerci decisamente male. Perché Rimini o Ravenna praticamente non ci entrano in questo libro. Ma come, due città così importanti, storicamente, artisticamente, economicamente, veri centri di potere e guida della Romagna, possono essere fatte scomparire così, senza lasciare traccia? Possono, se la Romagna è quella di Cristiano. Che, alla fine, coincide con Casola. Certo, c'è qualche puntata in “terra straniera”, ma intanto, se notate bene, si tratta di aneddoti, episodi del passato. E la cosa ha una sua coerenza, come spero di chiarire fra poco. Per il resto Cristiano in questo libro ripropone quanto ha già fatto nei suoi romanzi precedenti: il suo obiettivo zooma al massimo, focalizza tutta l'attenzione, in maniera progressiva, su Casola. Anzi, andiamo oltre: sulle case popolari. Se non sul suo appartamento. Niente di sconvolgente in sé per sè, Cristiano lo ha già fatto. Ma quelli di prima erano romanzi, dichiaratamente romanzi, in fondo la sua libertà di scelta era più ampia, erano storie sue, inventate da lui (al di là della percentuale più o meno alta di (auto)biografia, che non cambia lo statuto romanzesco, quindi finzionale, di quei libri). Questo libro è diverso, programmaticamente diverso, non un romanzo, qualcosa che deve raccontare un territorio. E il fatto che quel territorio quasi scompaia per il 95%...
Dunque, tutto sbagliato? Un inganno per il lettore? Certo che no, per vari motivi.
Il primo è che un lettore un minimo avveduto sul tipo di collana dentro cui sta il libro sa cosa aspettarsi: come si diceva, non romanzi ma neanche guide al territorio, o saggi storici, ma una visione molto personale e soggettiva, filtrata attraverso le lenti della costruzione artistica e non documentaria.
Poi, naturalmente, potremmo dire che la scelta di Cristiano ha valore esemplificativo. Casola, le sue vicende, i suoi personaggi, sono in fondo specchio di tutta la Romagna, tante di quelle storie potrebbero essere ambientate a Porto Corsini, a Conselice, o in qualunque altro paesino. Vero, almeno in parte. In fondo siamo tutti romagnoli, no?
Però non basta. Cristiano stesso racconta nel libro della sua difficoltà a raccontare la vita di Milano Marittima, quando un giornale gli chiede di farlo. Perché, suvvia, è un altro mondo. E, questa è la mia impressione, a Cristiano in fondo quel mondo interessa poco. Quello che gli interessa è quel piccolo microcosmo che possiamo provvisoriamente continuare a definire Casola. E che però non coincide col nostro paese. Non so se riesco a spiegarmi. Proprio oggi però ho letto su «Repubblica» un articolo che può aiutarmi a farlo. Parla di Bruce Springsteen e dice che The Boss ha un successo planetario nonostante racconti un mondo estremamente “locale”, geograficamente caratterizzato, che il 95% dei suoi fans non ha mai visto e mai vedrà. L'articolista, David Brooks, dice che l'operazione di Springsteen assomiglia a quella dei bambini che inventano «dettagliati mondi paralleli, quelli che gli psicologi dell'infanzia chiamano “paracosmi”. Questi paesaggi ci aiutano a orientarci nella realtà. Sono mentalità strutturate che ci aiutano a comprendere il vasto mondo». Ora, fatte le debite proporzioni fra il Boss e Cristiano, credo che ciò che lui fa nei suoi libri sia proprio questo. La costruzione di un “paracosmo” parallelo che lo aiuti – e di conseguenza aiuti il lettore – a orientarsi in un mondo in cui cadono i punti di riferimento, in cui la globalizzazione è stata prima messa sugli altari, poi contestata, poi è diventata, mio dio!, glocalizzazione. Un mondo in cui è molto facile perdersi. Invece perdersi a Casola è difficile, non c'è dubbio.
Quindi Cristiano racconta un luogo inventato che lo accompagna fin da quando era bambino? Ancora di più credo. Racconta non un luogo, uno spazio, ma un tempo. Un tempo ben specifico, che si situa nel passato (per questo prima dicevo della coerenza del narrare aneddoti antichi in relazione agli sconfinamenti extra-casolani) ma mantiene un filo col presente. Quel filo è proprio lui, Cristiano, che cerca di mantenere in vita con le parole un mondo che sta svanendo. Ed ecco il punto centrale, quello che interessa Cristiano, quel momento che attrae la sua attenzione: la sua infanzia, ma non semplicemente perché era bambino, viveva i suoi sogni , tutto diventava un'avventura, e altre banalità. Ma perché quando lui era bambino si stava consumando un passaggio fondamentale, uno snodo critico da un punto di vista “sociale”. Quelli sono stati gli ultimi anni in cui due mondi molto diversi sono entrati a contatto. Lo dice Cristiano stesso, la sua (la mia, forse per questa ragione questo aspetto attrae anche la mia attenzione) è stata l'ultima generazione che ha sentito parlare correntemente, quotidianamente il dialetto, e allo stesso tempo la prima a considerare del tutto normale, indispensabile e necessario, andare a studiare a Faenza, pensare a un futuro lontano da Casola (che non fosse quello misero dell'emigrazione), connettersi col mondo attraverso i media, a partire dai cartoni giapponesi. L'immagine più bella e allo stesso tempo chiarificatrice per descrivere tutto ciò è quella che Cristiano prende a prestito da Sangue romagnolo, celeberrimo e melodrammatico episodio del Cuore deamicisiano, alla fine del quale il giovane nipote scapestrato trova la morte chiedendo perdono alla nonna. Come quel ragazzo, che muore accovacciato ai piedi dell'anziana donna seduta sulla sua poltrona, chi è stato bambino negli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso, vive in un mondo ipermoderno, ma ha «la testa adagiata nel passato».
Michele Righini
P.S.: Un ultimo pensiero molto personale. Avrei molte altre riflessioni che mi sono state suscitate da Romagna mia! ma che coinvolgerebbero anche gli altri scritti di Cristiano, ma mi sono dilungato anche troppo. Chissà che non ci siano in futuro altre occasioni per parlarne, magari con lo stesso Cristiano. Inoltre, non solo mi sono dilungato troppo, ma magari a voi neanche frega molto delle cose che sono saltate in mente a me leggendo il libro e ripensandoci su in questi giorni. Però io sono contento di avere così tante cose da dire, interessanti o no che siano, perché significa che il libro ha ottenuto lo scopo di ogni libro, quello di spingere a pensare, di suscitare domande, di stimolare la mente (senza dimenticare che fa anche divertire e ridere non poco, lo stavo dando per scontato e invece è un aspetto fondamentale della riuscita del lavoro). Degli ultimi due romanzi di Cristiano, Frutti dimenticati e Scavare una buca, avevo deciso di non scrivere una recensione sullo «Spekki(ett)o» come avevo fatto per i tre precedenti, proprio perché sentivo di non avere molto da dire. Non so se fosse colpa mia, della mia scarsa ricettività di quel momento, o forse i libri erano meno riusciti, di sicuro io non avevo sentito il click che deve scattare durante la lettura per avere poi voglia di parlare con altri di quello che hai letto. Questa volta sì, quello scatto l'ho sentito, e non solo avrei voglia di parlare ancora di questo ultimo libro, ma mi piacerebbe anche tornare, dopo queste ultime riflessioni, su quelli precedenti, compresi i due che mi avevano convinto meno. Ma non preoccupatevi, ho detto che ve lo avrei risparmiato e mantengo la promessa. Almeno per un po'.