Finalmente, dopo infinite anticipazioni retrospettive, è uscito l’apripista dei nuovi kolossal cinematografici. Il nuovo esponente della cultura dei mattoni storico – mitologici, Troy.
Il genere non è nuovo, tutti gli anni ’50 e ’60 sono ben pieni di trasposizioni di passati classici più o meno storiografici per il grande schermo, genere che ha sicuramente contribuito a trasmettere l’immagine di massa dell’antica Roma, agli stessi romani, ben più dei suoi monumenti e dei suoi musei.
Le dettagliate scenografie di Ben Hur, di Cleopatra e di tutto il bagaglio filmico collegato, hanno rappresentato un’epoca di immaginario, di riferimento per l’arte cinematografica, quanto per la società, per l’Italia in ricostruzione che guardava agli americani liberatori con tensione ed immagini tanto ben rappresentate nei mille volti di Alberto Sordi, ironica e cinica coscienza di tutti i miti degli italiani. Tale genere ben si legava in parte ai gusti già addomesticati dalla produzione filmica del fascismo che nel baule della filologia classica tanto aveva attinto, quanto aveva deposto, sentendo anche il bisogno di creare a sua immagine il mito di Maciste come eroe totalmente fascista. Dopo quegli anni di profonde incertezze internazionali, di confini e trattati ancora freschi ed incerti, il genere sembrò scemare, la filmografia americana sembrò disinteressarsi dell’antica
Roma imperiale e di tutti i classici con radici troppo europee. Produsse ed inondò i nostri circuiti (anche in ragione di accordi di guerra sulle percentuali di produzione di provenienze americana da distribuire in Italia) di immagini di stili di vita, problemi sociali e tendenze che inevitabilmente sarebbero divenute profezie della nostra società, “Il laureato” o “Kramer contro Kramer”, per citarne qualcuno. L’oceano atlantico sembrava allora, ed in parte ad alcuni ancora oggi, diventato per oscura alchimia, una magica macchina del tempo. Attraversarlo, in aereo, in nave, o semplicemente a cavallo di una pellicola, equivaleva ad un meraviglioso viaggio nel futuro. Un futuro certo perché già in atto, già dato. Un futuro remoto preventivo. L’unica variabile era nell’entità del salto temporale, chi diceva dieci anni, chi cinque, chi venti, ma il risultato era che noi in quel futuro anteriore ci saremmo dovuti passare per forza. Oggi che il l’aspirazione all’Europa ed il tempo forse ci ha donato un maggiore spirito critico, oggi che forse cominciamo a vedere qualche risultato nell’elaborazione vera e reale dei nostri infiniti lutti, oggi che i morti europei cominciano a trovare pace, nel momento che il sangue ha trovato la sua voce, e la memoria il suo posto nella storia, forse oggi potremo cominciare a smontare quella magica macchina del tempo, ricominciando a guardare quel mare, ormai stretto, solo come uno spazio che separa ed unisce uomini, vite storia, identità e modelli di sviluppo. In tutto questo forse potremo quindi trovare nuovi occhi per giudicare ed apprezzare la visione di una delle più antiche guerre che la nostra storia ci racconti. Forse potremo rispedire al mittente una visione della guerra che fa del poema Omerico, non tanto sfregio filologico, quanto interpretativo tout court. Una visione che cancella il tempo infinito, le vicende, le premesse e le conseguenze, nel nome di una perfetta logistica militare. Una avvincente operazione di sbarco ed invasione di massa, che se ne fa un baffo della morale ambigua del poema, dove gli dei sono l’immagine distorta e perversa degli uomini, dove Ulisse non paga nella sua carne la vittoria, ma diviene solo abile generale, dove tutto si fa momento emotivo e presente. Se valori ancora attuali possono trasmettere le opere di Omero, sono sicuramente l’imprevedibilità degli effetti, le cascate di effetti che originano da qualcosa di inaspettato, oltre lo stesso volere degli Dei, l’ambiguità delle azioni, il rischio che tutto si ribalti contro noi stessi all’ultimo momento. Tutto questo sembra essere estraneo alla nuova guerra di Troia made in USA, come è estranea nel film The Passion di Mel Gibson. Tutto avviene nel presente, non solo l’azione, ma sotto forma di messaggio più sottile, anche la conchiusità degli effetti, che si possono bloccare a comando, alla fine delle riprese.
Se per un film come per gli spettatori è un’esigenza materiale la finitezza della rappresentazioni, non altrettanto lo è per il messaggio, che può benissimo essere veicolo di quel inquietante carattere della realtà che è la sua infinitezza. L’inverso della stessa irrealtà che ci permette di capire che abbiamo ascoltato una favola, nel momento in cui questa termina con un ‘vissero felici e contenti’. Fermare il tempo, la catena di cause ed effetti è l’espediente del narrare, ma non è la realtà. Un film è una narrazione, non è la realtà, la guerra di troia non sappiamo neanche cosa sia stata, ma la guerra in se stessa non è una finzione, è realtà. La guerra di Troia non è finita con la morte di Priamo, anzi come archetipo di tutte le guerre prive di fondamento, ancora la stiamo combattendo. In Europa la guerra tra vincitori e vinti sta finendo oggi, non all’indomani dello sbarco in Normandia, e non solo grazie alla magica macchina del tempo. Le guerre lampo non esistono, e lo hanno imparato molto bene gli Israeliani all’indomani della famosa guerra dei sei giorni. Come Europei dovremmo forse ripudiare tutti i mezzi ed i veicoli che oggi sembrano volerci convincere che mezzi e tattiche fanno la pace. Che la vittoria è segno di catarsi ed ordalia certa, che le memorie si possano lavare senza dare voce ai morti. Un ripudio che può passare anche attraverso il rifiuto di un film che sembra voler addomesticare il nostro passato per giustificare il presente.
Andrea Benassi