Cominciamo dall’inizio. Da pochi giorni è uscito in libreria il quinto romanzo di Cristiano Cavina, come sempre edito da Marcos Y Marcos, dal titolo “Scavare una buca”.
Anzi, andiamo prima ancora dell’inizio. La copertina e il titolo. Entrambi molto belli. Della copertina a me piace - più che l’immagine comunque simpatica e centrata come in tradizione Marcos Y Marcos – il colore. Nero molto elegante. Un’oscurità che del romanzo è uno dei simboli, in contrapposizione all’abbacinante bagliore degli scavi di gesso all’aria aperta sotto il sole d’agosto. Un’opposizione che è anche il simbolo di un cambiamento nell’estrazione del gesso dalle nostre colline: dalle buie gallerie in cui si addentravano i minatori negli anni passati, all’apertura di veri e propri anfiteatri sui fianchi della montagna.
Il titolo ha invece il suo valore nell’uso dell’infinito. Nel rinunciare quindi a una definizione temporale, per dare al gesto dello scavare un senso di continuità che va ben oltre i cambiamenti e le evoluzioni tecniche.
Se pensate che copertina e titolo non abbiano niente a che fare con la valutazione-interpretazione del romanzo che “contengono”, non dovete fidarvi delle mie poche parole per cambiare idea, visto che un grande studioso come Gerard Genette ha dedicato un intero, interessantissimo e documentatissimo libro a questi elementi, tecnicamente definiti “paratesto” e dallo studioso più evocativamente chiamati “soglie”. Perché è proprio attraverso questi elementi che il lettore si avvicina al testo letterario, fino a entrarci dentro. Perché al di là dell’aspetto commerciale - nell’affollamento delle moderne librerie una bella copertina e un titolo accattivante sono fondamentali quanto una buona recensione di un apprezzato critico - questi elementi possono fondersi col testo e contribuire alla sua valutazione e interpretazione.
Non so se sia giusto iniziare a parlare di un libro dicendo quello che non è, però faccio una cosa simile.
Se vi aspettate di trovare un romanzo divertente, con brani in cui si ride con le lacrime agli occhi, cosa a cui ci aveva abituato Cristiano, beh, potreste rimanere delusi. Non si ride molto in “Scavare una buca”, in entrambi i sensi: non ridono molto i personaggi del libro e non ride molto neanche il lettore. Prevale invece la riflessione e, man mano che si scorrono le pagine, l’amarezza, che diventa - insieme a una rabbia crescente - la vera nota dominante della seconda parte (a mio parere quella decisamente più riuscita). Perché il tema prevalente del romanzo è il lavoro nella cava dei gessi e di questo lavoro sono parte integrante non solo la fatica e la polvere che ti si attacca alla pelle, ma anche i rischi e gli incidenti. Siamo dunque ancora a Casola, ma il racconto si distacca dalle atmosfere autobiografiche di incanto infantile che caratterizzavano buona parte delle precedenti prove di Cristiano, per avvicinarsi a temi più “adulti”, portando a compimento un processo già iniziato in “Frutti dimenticati”, già diviso a metà fra l’attualità di un ragazzo ultratrentenne e il passato magico di un dodicenne. Continuo a parlare di questo libro per differenza rispetto agli altri, dicendo di cosa “non parla”, mi viene istintivo. La mia lettura è appena terminata, le sensazioni e le idee sono molto “fresche” e non ragionate, forse dipende da questo, fra qualche giorno andrebbe diversamente immagino, dopo una seconda lettura poi il testo acquisterebbe maggiore “identità” e autonomia. Ma credo anche che questo interpretare “Scavare una buca” paragonandolo agli altri romanzi di Cristiano derivi proprio dalle differenze fra quelli e questo, da un’innegabile virata del tono e dei temi affrontati oggi rispetto a qualche anno fa. Un cambiamento, possiamo dire un’evoluzione, secondo me giusta e necessaria per il percorso di crescita dell’autore, una mutazione che spero - e credo - possa incontrare anche il favore dei lettori (perché se il parere mio vale zero, alla fine un libro si scrive perché in tanti lo leggano, per condividere delle idee e un messaggio).
Quindi un vero e proprio “romanzo di lavoro”, nel solco di una tradizione letteraria, quella italiana, in cui il tema del lavoro ha spesso avuto importanza e ricevuto attenzione, tanto da dare vita a una sorta di “quasi genere letterario” come il “romanzo di fabbrica” degli anni Cinquanta-Settanta. In questo caso invece “racconto di miniera”, pur se come già detto con la novità dell’estrazione a cielo aperto, di cui Cristiano richiama uno degli esempi più alti, Verga, nella citazione iniziale, ma che annovera fra i frequentatori anche Pirandello che una miniera, di zolfo, la possedeva anche.
Il lavoro è il vero protagonista del romanzo, non solo quello nella cava di gesso ma anche quello nei campi in cui ormai una sola casolana si spacca la schiena a fianco di albanesi e rumeni che hanno sostituito schizzinosi ragazzi italici troppo viziati per sporcarsi le mani. Perchè il lavoro oggi, ai tempi della crisi, non si trova, ma quando c’è lo si fa diventare il campo di stupide battaglie fra “noi” italiani e gli “invasori” stranieri, che “rubano” il lavoro accettando il “nero”, che però, ci vuol poco a capirlo, gli viene offerto da “padroni” italianissimi che su quell’accettazione guadagnano e speculano.
Da qui a parlare degli incidenti sul lavoro il passo è breve, non è un caso che oggi il tema sia tornato a farsi presente di prepotenza nei testi letterari. La tragedia quindi incombe nel romanzo di Cristiano, fino al suo inevitabile concretizzarsi. E’ il tributo di sangue, muscoli, nervi strappati e ossa frantumate che, in cambio dei denari che hanno contribuito a fare crescere il paese, Casola ha dovuto pagare. Ma nonostante questo non esiste condanna di un lavoro “pericoloso” nelle pagine di “Scavare una buca”, perché con un abile ribaltamento, proprio colui che rimane vittima dell’incidente, risulta alla fine un personaggio spregevole che si approfitta della propria disgrazia in nome della ricchezza, a costo di mettere in pericolo altre vite. Tanto meno esiste la critica alla specificità del lavoro in cava, anzi uno dei passi più riusciti è l’elogio del lavoro fatto dal Necci, il più esperto addetto all’estrazione del gesso. Una vera e propria teorizzazione di una “religione” del lavoro ben fatto, curato, amato e rispettato anche quando ti mette in pericolo di vita. Solo chi affronta ogni giorno la cava con l’attenzione che deriva dal rispetto e dall’amore per quell’attività può sperare di non rimanere vittima della montagna, perché capisce che non si tratta di materia inerte ma di organismo vivo e come tale da trattare con le necessarie cautele. Il Necci parla pochissimo, solo in queste pagine si lascia andare col protagonista perchè riconosce in lui lo stesso amore per il lavoro ben fatto, per l’oscurità delle gallerie e per il brillare dei cristalli del gesso negli anfiteatri a cielo aperto. Sono le persone come loro che, per quanto possibile, devono “proteggere” i giovani che invece non vogliono “lavorare” ma semplicemente “portare a casa uno stipendio”, pronti ad abbandonare la cava alla prima occasione.
Dicevamo della migliore riuscita della seconda parte del romanzo, che contiene non solo il brano a cui si è appena accennato ma anche un’altra scena particolarmente coinvolgente e di forte impatto emotivo: la visita dei tre compagni di lavoro alla moglie di Edmeo, che tanti anni prima è stato vittima di un incidente nella cava. Non entro nei dettagli per non svelare troppo, per lasciare il gusto della lettura, ma in questo episodio si sprigiona tutta la sofferenza della donna, la sua ribellione a una vita di prepotenze, un’esplosione di vendicativa crudeltà che trasforma il marito nel mostro famigliare recluso, uno dei topoi letterari che sempre hanno goduto di maggiore fascinazione orrorifica.
Abbiamo parlato di un cambiamento rispetto ai precedenti romanzi di Cavina, un mutamento coraggioso e necessario, ben riuscito nel modo non banale in cui si affrontano tematiche impegnative, anche di rilevanza sociale e civile (pur se ricondotte sempre in un alveo di individualità e riflessione che va oltre il dato spicciolo della cronaca). Mi sembra però che nel processo di mutazione sia rimasto “indietro” lo “stile”, la forma della scrittura. In parte anche la costruzione della storia - perchè secondo me avrebbe giovato una trama più corposa e ricca, giudizio comunque molto legato al mio gusto personale di amante di libri in cui “accadono” molte cose – ma soprattutto le scelte stilistiche sono rimaste ancorate alle tematiche precedenti. Già una volta, parlando forse di “Un’ultima stagione”, avevo espresso perplessità di fronte a certe metafore e similitudini proprie della scrittura di Cristiano, che mi sembravano (e continuano a sembrarmi) eccessive sia nel volere stupire con accostamenti improbabili, sia (soprattutto) nella frequenza con cui si presentano fra le righe. Ma la riflessione critica che più mi viene da fare è sull’estrema semplicità e frammentazione delle frasi, sulla prevalenza pressoché incontrastata della paratassi, sulla mancanza di frasi più costruite, articolate, complesse. Se questo stile era uno dei pregi della visione “con gli occhi di un bambino” che caratterizzava buona parte della precedente produzione di Cavina, in “Scavare una buca”, soprattutto per le tematiche trattate e i personaggi presentati, avverto la mancanza di una maggiore “complicazione” della frase (che non significa maggiore cura, perché anche rendere lo stile frammentato e sintetico proprio di Cristiano richiede cura e attenzione), di un maggiore respiro che permetta di meglio approfondire sensazione e sentimenti, centrali nel romanzo più delle azioni, degli avvenimenti. Non è quindi un caso che io abbia apprezzato particolarmente “l’elogio del lavoro” del Necci: al di là del contenuto del discorso, la forma si avvale in quelle pagine di una maggiore distensione nello spiegare, di interventi dialogici insolitamente ampi (soprattutto in bocca al Necci). L’ampiezza recupera la profondità e insieme si sostengono, quasi a riproporre il binomio anfiteatro-miniera proprio della cava. Un esempio banale: perché andare a capo alla fine di quasi tutte le frasi, anche quando queste sono collegate dalla logica del discorso e potrebbero formare un paragrafo compatto e coeso, magari fondendosi in una frase più ampia?
Sono sensazioni quelle che ho appena provato a raccontare, dettate da una reazione alla lettura istintiva, non troppo riflessiva, “a caldo”. Da prendere con le molle, proprio per questi motivi, nei giudizi positivi come in quelli più critici, entrambi passibili di ribaltarsi a un approfondimento maggiore, a una rilettura che spero di avere occasione di fare presto. Intanto mi piaceva fissare sulla carta la prima reazione, le prime sensazioni. Magari per aprire su questo sito una discussione con chi di voi ha già letto o presto leggerà “Scavare una buca”, per raccogliere pareri.
Voglio chiudere come sempre con un in bocca al lupo e i complimenti a Cristiano per questo libro (dimenticavo, anche per la documentazione tecnico-scientifica sul lavoro della cava, molto dettagliata, dando per scontato che sia corretta vista la mia ignoranza nel campo) e per il futuro cammino, che possa continuare fino a quando, come lui dice, avrà storie da raccontare.

Michele Righini
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