4 MESI, 3 SETTIMANE, 2 GIORNI La disperazione di due donne e di un paese
Recentementesi è aperta sul sito una discussione, talora dai toni accesi, riguardante un argomento piuttosto delicato. L’aborto, ciò che lo precede e ciò che ne consegue. Mi ricollego a ciò per consigliare la visione di un film che attorno a questo tema si snoda. Il titolo è “4 mesi, 3 settimane, 2 giorni” del regista rumeno Christian Mungiu vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes del 2007. Il riferimento del titolo è all’arco di tempo trascorso dal concepimento al momento dell’interruzione della gravidanza.
Recentementesi è aperta sul sito una discussione, talora dai toni accesi, riguardante un argomento piuttosto delicato. L’aborto, ciò che lo precede e ciò che ne consegue. Mi ricollego a ciò per consigliare la visione di un film che attorno a questo tema si snoda. Il titolo è “4 mesi, 3 settimane, 2 giorni” del regista rumeno Christian Mungiu vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes del 2007. Il riferimento del titolo è all’arco di tempo trascorso dal concepimento al momento dell’interruzione della gravidanza.
La vicenda è ambientata in Romania prima della caduta del regime comunista, l’anno il 1987. L’illegalità di tale pratica comporta il ricorso alla prassi clandestina, con tutti i rischi sanitari per la donna che decide di ricorrervi. Le protagoniste sono due amiche unite dal proposito di voler porre fine alla gravidanza indesiderata della più giovane tra loro. La camera a mano registra le poche ore che trascorrono dal momento in cui la compagna si adopera per rintracciare l’uomo che eseguirà l’operazione e condurlo nella camera d’albergo in cui attende con apprensione l’amica che deve sottoporsi a tale pratica. L’epilogo è quanto mai spietato: l’inquadratura del feto abbandonato sul pavimento del bagno e la corsa infinita alla ricerca di un posto dove farlo sparire. Il regista non prende una posizione riguardo alla scelta compiuta dalla giovane. Piuttosto ci rende testimoni dello smarrimento e della immensa solitudine in cui sono imprigionate le due donne. Desolazione che si respira largamente anche dal paesaggio urbano che fa da sfondo inamovibile. E’ un’umanità dannata quella cui il regista ci costringe a guardare. Un’umanità abbandonata a se stessa e prostrata agli occhi di dio. Lasciata sola. E’ segno tangibile che il male non è individuale, ma sistemico. E’ sicuramente un film impegnato e impegnativo, entro cui le immagini scorrono lente e senza accompagnamento musicale. Del resto non c’è spazio per la musica in un tale posto.