Claudio, innanzitutto ti ringrazio per aver trovato il tempo di rispondere a queste domande.
So che sei ancora impegnato come volontario nell’ospedale di Imola, reparto Covid19, com’ è successo che, pensionato da tre anni, ti sei ritrovato a lavorare lì?
E’ stato difficile decidere di accettare?
No, non è stato difficile, non mi sono tirato indietro quando nel 2017, già in pensione da 6 mesi, mi è stato chiesto un aiuto per carenza di organico, ora a maggior ragione, vista l’emergenza sanitaria in atto, e il disperato bisogno di anestesisti rianimatori, che sono le figure strategiche nella cura dei malati Covid, mi sono sentito immediatamente di dover dare la mia disponibilità, ne ho parlato con la mia famiglia che, anche se con un po’ di paura, ha appoggiato questa decisione, conoscendomi, loro sapevano che non sarei potuto stare a guardare in questa situazione.
Come sono stati l’impatto,la preparazione, le istruzioni che hai ricevuto per entrare ad operare in questa situazione di emergenza?
Dopo aver lavorato tanti anni in rianimazione, l’emergenza ti entra nel DNA, di conseguenza non c’è stato un impatto traumatico con questa nuova situazione, ma è cambiato l’approccio, prima correvi sull’emergenza, adesso, prima di correre, devi proteggerti e per farlo devi seguire una procedura meticolosa, quasi maniacale per indossare i presidi di protezione, la stessa procedura, va poi seguita al momento della svestizione, un passaggio sbagliato in entrambe queste fasi può determinare un contagio.
Nell’ospedale dove lavori ci sono tutte le precauzioni e presidi per la sicurezza del personale sanitario?
Nell’Ospedale di Imola non mancano i presidi di protezione, mi rattrista molto quando sento che tanti colleghi, di altre strutture, abbiano dovuto lavorare con scarse misure di protezione, a rischio della loro stessa vita.
Dal tuo osservatorio del reparto di terapia intensiva come qualificheresti questo virus?
In tanti anni di lavoro mi sono trovato spessissimo ad affrontare situazioni difficili e complesse, ma avevo sempre chiaro in me le cose da fare, adesso ci troviamo ad affrontare un problema che esula da tutti gli schemi fisiopatologici conosciuti. Ogni giorno scopriamo qualcosa di nuovo su questa patologia e tutti i giorni “aggiustiamo il tiro“ su come affrontare questa nuova e devastante malattia.
I pazienti?
I pazienti che tratto generalmente sono quelli più gravi, quindi hanno bisogno di un supporto ventilatorio invasivo, nel senso che sono intubati e connessi ad un respiratore automatico, conseguentemente sono sedati.
In un primo momento, i pazienti più gravi, fanno un percorso (tentativo) di ventilazione non invasiva, che quando fallisce ti impone l’intubazione, questo è il momento peggiore, perchè vedi una persona angosciata, spaventata e tu la devi rassicurare, spiegandole cosa ti appresti a fare, e quando ti senti dire “ dottore mi aiuti“, provi a far uscire dalla maschera che hai sul viso un sorriso e gli dici “tranquillo ci sono io adesso che ti faccio respirare meglio“, mentre inietti i farmaci,che lo faranno dormire, sai che da quel momento hai a disposizione secondi e non minuti per procedere all’intubazione rapida, in questi istanti, il monitor che rileva i parametri vitali del paziente suona come impazzito, mentre tu procedi in tutta fretta a questa manovra salvavita, poi smette di suonare, guardi i parametri vitali del paziente, fanno un po’ meno schifo di prima,pensi speranzoso, forse…. ce la può fare.
Che “aria” si respira nel reparto?
Ci rendiamo conto che stiamo vivendo una strana realtà, ma siamo anche consapevoli che quello che stiamo facendo è la cosa migliore da farsi, inoltre non mancano le manifestazioni di riconoscenza da parte della cittadinanza, ogni giorno ci vengono recapitate dalle varie pizzerie, ristoranti, pasticcerie, supermercati…vari generi alimentari, sono piccole cose che ti fanno sentire la vicinanza della gente e ti scaldano il cuore, l’altro giorno poi è stato davvero emozionante il saluto delle forze dell’ordine, diverse pattuglie sono venute sotto le nostre finestre, omaggiandoci stando tutti sull’attenti e con le sirene spiegate.
Avresti mai pensato, tu medico da 40 anni, di trovarti in una situazione di questo tipo?
Mi è capitato di pensare come potesse essere il lavoro del medico durante la guerra e mi sentivo fortunato al pensiero che la mia generazione non l’avesse conosciuta, mi sono sbagliato: mi sembra di essere in guerra.
Che cosa ti sta insegnando questa esperienza?
Questa esperienza mi insegna tutti i giorni qualcosa, sia sul lavoro che nel privato.
Sul lavoro è una continua ricerca per migliorare le cose, ti confronti con altre realtà c’è un intenso scambio di informazione. Nel privato senti che ti mancano gli affetti più cari, è più di un mese che non vedo mio figlio e mia mamma, mai come in questo momento vorrei abbracciarli, ci sentiamo ogni giorno, ci vediamo anche sui social, ma non è la stessa cosa, mi mancano gli amici, mi mancano le passeggiate all’aria aperta, mi mancano le partite a Burraco, mi manca tanta roba.
Sono cambiate le cose negli ultimi giorni?
La pressione sulle Rianimazioni si è ridotta e questo è un bel segnale.
Che consigli daresti ai lettori di questa intervista?
Il virus ha bisogno di persone per vivere. Evitare i contatti è la terapia migliore in attesa di una terapia adeguata o di un vaccino.
Insieme ce la faremo. Ognuno di noi deve dare il proprio contributo e TUTTI siamo utili per raggiungere lo scopo.
A cura di Paola Giacometti