Si sente spesso parlare di Nazioni Unite, se ne parla in modo spicciolo rispetto alle guerre, al ruolo che dovrebbero avere e che non avrebbero, a presunti mandati, risoluzioni e salvacondotti per guerre giuste, se ne parla quasi che si trattasse di commentare il risultato della partita. Se ne parla spesso senza sapere minimamente la loro storia, i principi della loro carta, i campi d’azione, le risorse, gli spazi fisici o i modi di operare. Se ne parla purtroppo a sproposito, tanto da far sì che si diffonda, parallela all’ignoranza dei meccanismi, una sfiducia disfattistica negli stessi. Un po’ come purtroppo sta succedendo alla nostra costituzione.

Le Nazioni Unite sono una realtà performativa, non crederci fa solo il gioco di chi non vuole che esistano, perché d’intralcio ai propri interessi. Sono una realtà, dove problemi di estrema complessità sono affrontati con una disponibilità di risorse inversamente proporzionale, nonostante questo sono la vetta più alta della dialettica e della concertazione tra esseri umani che questo pianeta abbia messo in piedi, oltre che l’unica. Nei suoi sei organi costituenti: Assemblea Generale, Consiglio Economico e Sociale, Corte Internazionale di giustizia, Consiglio di sicurezza, Amministrazione fiduciaria e Segretariato, il sistema delle NU si configura come una smisurata piazza planetaria. Uno spazio dove nella rappresentanza della quasi totalità degli stati nazione quali membri, è potenzialmente data voce e possibilità di confronto a tutte le problematiche attuali. In questa somma contrastante di ritualità, processi democratici, alchimie diplomatiche ed onnipresenti interessi, il ruolo centrale lo gioca, per complessità, l’ECOSOC, (consiglio economico sociale e culturale) a cui fanno capo un’incredibile quantità di campi d’azione: sanità, condizioni climatiche, diritti umani, proprietà intellettuale, minoranze, agricoltura, patrimoni, ed un’infinità d’altre questioni sono di casa in questa sigla. In questo processo di dialogo infinito l’obiettivo, ancora prima che risolvere i problemi, è riconoscerli, dando voce ai diretti interessati, dare uno spazio franco, ufficiale ed autorevole. Purtroppo, nella prospettiva che fonda il sistema sui rappresentanti degli stati nazione, quali uniche entità riconosciute, sono restati esclusi per molto tempo proprio quelle entità che sebbene Popoli, non erano Stato. Oltre 5000 gruppi umani, 350 milioni di persone, l’equivalente dell’attuale Europa, tra i più oppressi e privati d’ogni forma di tutela o diritto ad entrare nella storia, sono rimasti al margine del mondo fino agli anni ’80. Discendenti di popolazioni prime proprietarie d’enormi territori, sottoposti in passato come nel presente alle più perverse forme di sfruttamento e colonialismo, i Popoli Indigeni hanno conquistato solo in questi ultimi anni il diritto ad autorappresentarsi, ed a lottare per il possesso delle loro risorse e per la promozione e la tutela dei loro modelli di sviluppo. Il Gruppo di lavoro per i Popoli Indigeni opera da venti anni in questo senso riunendosi presso l’ONU di Ginevra, e rappresenta l’unico spazio politico internazionale dove è possibile per i rappresentanti di tutti i popoli indigeni del mondo, riunirsi e denunciare le violazioni dei loro diritti da parte degli stati di cui sono parte. Il gruppo di lavoro opera quindi come organo di pressione affinché i governi siano obbligati a tenere conto del problema, tramite la Commissione e la Sub-commissione dei diritti umani. All’indomani delle celebrazioni per i 500 anni della scoperta dell’America, i movimenti internazionali di denuncia di quello che nella prospettiva delle organizzazioni indigene del nuovo mondo era la celebrazione del più grande processo di genocidio della storia umana, hanno portato dopo la conferenza di Rio, alla formulazione della decade per il mondo indigeno nel periodo 1994-2004. In questo decennio si sarebbe dovuto affrontare il problema di una reale tutela dei diritti, della restituzione delle risorse, del rapporto tra stato e gruppo indigeno, della libertà dei modelli educativi, ecc. La prima realtà evidente fu l’inadeguatezza della stessa dichiarazione dei diritti umani, giacché non direttamente rispondenti a modelli sociali differenti dalla società occidentale che l’aveva pensata. Venne quindi elaborata in tal senso una bozza della Dichiarazione dei Diritti dei Popoli Indigeni, come espressione del confronto tra i diretti interessati. Questo documento, approvato come bozza dalla Sub-commissione nel 1995, è rimasto da allora in attesa di passare attraverso la Commissione, per essere quindi approvato dall’Assemblea Generale. Questa approvazione vincolerebbe gli stati al suo rispetto almeno formale, fornendo alle organizzazioni indigene un potente strumento di diritto internazionale. Purtroppo se da un lato nel corso di questi dieci anni il gruppo di lavoro ha portato alla creazione di un Forum Permanente dei popoli indigeni, all’affinamento di strumenti di lotta e rappresentanza politica, alla coscienza della possibilità di lottare per i propri diritti, portando migliaia di popoli a parlare di propria bocca dagli scranni di Ginevra, d’altro lato, l’ostilità dichiarata degli stati nazione a riconoscere i popoli indigeni quali soggetti politici, ha fatto sì che la Dichiarazione non sia stata ancora approvata. Lo scadere della decade nel dicembre 2004 è l’obiettivo degli stati nazionali. Se la dichiarazione non verrà approvata per la fine dell’anno, o se non si riuscirà ad ottenere una proroga, tutto il lavoro di questi anni andrà perduto, un fondamentale strumento di lotta verrà disinnescato diventando carta straccia, l’intera questione indigena assumerà in ambito internazionale i contorni di una macchietta. Pensare di trovare altre piazze internazionali o altri strumenti nei quali questi popoli possano sperare è pura demagogia, se cadrà quest’esperimento di includere gli esclusi nell’unico spazio di rappresentanza planetaria, i governi avranno mano libera nella più feroce repressione. Se gli interessi dei gruppi nazionali dovessero anche questa volta avere la meglio, dovremo assumerci la responsabilità di aver dato l’avvallo al potenziale genocidio di 350 milioni di persone nel più completo silenzio. Come nel completo silenzio sono già avvolte da decenni tutte le guerre combattute nei quattro angoli del mondo: dai Naga dell’India, ai Papuani della Nuova Guinea indonesiana, ai Mapuche del Cile, ai Kuna dell’Ecuador, ai popoli del Pacifico, ai Karen della Thailandia, a tutti i popoli nomadi del mondo, nei deserti, nelle steppe, nelle foreste, insieme a milioni d’altri nostri simili.

Andrea Benassi

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