È l’1 settembre, venerdì. Palazzuolo sul Senio. L’anno, quello corrente: 2023.

Il vicolo è uno di quelli più antichi del borgo.
In piazzetta sotto casa stanno allestendo una serata con dj set improvvisato, quattro candele, tre tavoli, una cassa che batte sopra una finestra, una stanza dove servono da bere, fine. Di solito è il luogo dove si danno appuntamento i gatti nelle ore notturne: un rettangolo di dieci metri per cinque; attorno, alcune delle case storiche del quartiere con i loro giardini rialzati.
Decidiamo di uscire sulle 21:00, ma la musica rimbomba già da qualche ora. Scendiamo le scale e voltiamo l’angolo. Di fronte, venti persone, forse trenta, che riempivano quel misero vuoto. Nessuno ballava, si dialogava perlopiù, tutto sommato c’era buonumore. Certo, non che fosse una festa tipica della Contea di Hobbiville, in fin dei conti era sempre un modo per salutare un’altra estate che stava passando.
Prendo una birra, così fingo di essere a mio agio. La mia ragazza non beve; mio figlio, beh neppure, ha dieci mesi dopotutto. Scambiamo due chiacchiere con un tipo alticcio, poi ci appartiamo per non rimanere stretti nella bolgia (si fa per dire). A guardar bene, la gente se la passa: si sono già formate le isole delle confidenze, dove ciclicamente qualcuno cede il posto a qualcun altro per scambiarsi parola con quelli più in là, come accade per gli elettroni con gli atomi.
L’ideatore della festa – oggi il concept director – è un mio vicino di casa, un tipo folle. Per usare il linguaggio dei pischelli del pomeriggio al bar, mio fratello. Un idolo insomma. Mentre la gente sotto si scambia energia elettrochimica, lui se ne sta alla finestra del primo piano, con la musica a manetta, e muove la testa al ritmo dei bassi che sussultano l’aria. Felicissimo.
Anch’io mi rendo conto di sentirmi ok, adesso. Eravamo in compagnia di gente che voleva solo stare insieme, tutto qui. Basta anche solo un po’ si musica per dire che c’è vita, no?
E pensare che stasera devo finire Leopardi, dopo aver ripetuto tutto il giorno, cheppalle. Così mi dico. L’esame di letteratura è fissato a martedì. Chissà se Leopardi se l’è mai presa una pausa; chissà se s’è accontentato, anche di poco.
Bello accontentarsi, penso. Se ho deciso di vivere quassù, evidentemente è perché mi piace la piccola vita, l’umiltà delle cose, le facce di paese. Detta così, per poco non sembro io Leopardi. Diciamo che sì, sto bene con poco, mi accontento.
Poi però mi scende un’ombra di presa di coscienza dalla testa allo stomaco: ma accontentarsi non è mica tanto bello. Vuol dire che mi faccio andar bene tutto, anche quando tutto non va bene. Significa: non volgermi mai al meglio. No, così non va. Il primo furbo che passa mi abbindolerebbe come uno scemo (ed io non mi reputo uno scemo).
Il mio pensiero corre a stamattina, mentre guardavo mio figlio gattonare come un pazzo tra la camera e il salotto. Come fa ad essere così curioso di tutto, mi dicevo. Mio figlio è un magnete, come tutti i bimbi piccoli: si attacca a qualsiasi cosa; lesto anche di fronte al pericolo, non teme nulla – ecco spiegato il motivo per cui dovevo stargli addosso. Avessi anche solo la metà della sua grinta, avrei già affrontato la maggior parte dei miei problemi (specialmente quelli che mi creo nella testa). In breve, mi stavo domandando ciò che scrisse quel predicatore turco sugli uccelli, di cui non saprei pronunciare il nome*. Perché scelgo di rimanere in un posto quando posso volarmene altrove? In poche parole: perché accontentarsi? Io mi accontento troppo. Torno con la mente alla festa; devo andarmene e rimettermi a studiare, sennò non passo quell’esame, mi dico.

Poi però ci ripenso, immaginando che forse

a Leopardi sarebbe piaciuto restare, anche se il suo precettore lo stava aspettando nel suo studio per la lezione di latino. Mi spiace pensare che si sia trascurato, dando priorità al devo. Forse non avrebbe scritto le Operette morali, però concedersi una sera ogni tanto gli avrebbe giovato. Facciamone una questione di principio. Giacomo, lo faccio anche per te.
Morale della favola, ci fermiamo a contemplare la situazione per circa un’oretta, poi intorno alle 22:30 decidiamo di rincasare, siccome il pupo ha sonno – tradotto, siamo stanchi. Mi metto a letto per tenerlo d’occhio, senza però dormire. Per via della musica alta non riesco a concentrarmi. Guardo il libro, lui mi guarda: stasera è andata così, amico.
Tra l’altro, ora la musica sta degenerando coi bassi, tipo “Disco Inferno”. Mi lamento e rifletto su quanto sia strano il relativismo, a cosa pensavo prima e a cosa penso invece ora. Per qualche strano motivo, tuttavia, sentire che fuori le persone si divertono mi mette di buon umore. Ognuno ha ottenuto qualcosa stasera. Mi fa piacere sapere che Giacomo se la stia spassando; magari sulla via del ritorno incontrerà Fanny, il suo platonico amore. Se poi gli dovesse andare male, pazienza. Ci scriverà qualcosa di melodrammatico come suo solito. Il ciclo di Aspasia, per esempio (vedi che qualcosa ho studiato?)

Insomma, forse accontentarsi di tanto in tanto non è poi così male. L’importante è conoscerne i rischi. Magari sì, meglio evitare di starsene appollaiati sullo stesso ramo tutto il tempo, a guardare il flusso che passa. Voglio dire: possiamo batterci per stravolgere l’ordinario senza andare chissà dove, rimanendo nel medesimo posto. Possiamo stimolare la nostra curiosità quotidiana, imparando qualcosa di nuovo un po’ tutti i giorni (come succede a gattonare: prima poi scopriamo di saperci drizzare sui piedi). Si può ravvivare il vicolo buio con la gente giusta, come la festa di questa sera. Basta poco, in fondo.
Ora che ho accettato il rischio, soddisfatto del mio pensiero, mi sento un po’ meglio. Forse faccio altro stasera, butto giù due righe. Domani è un altro giorno, farò i conti con Leopardi domani. Dovesse interrogarmi su Leopardi all’esame, lo stendo il professore. Ecco, Manzoni magari no. Ma se chiede Leopardi… glielo faccio vedere io il “pessimismo”.

Lorenzo Sabbatani

* NEL TITOLO: Con Idilli Leopardi intendeva “esperimenti, situazioni, affezioni, avventure storiche dell’animo”, ossia scritture liriche legate a particolari momenti interiori.
* L’aforisma è: “Mi chiedo sempre perché gli uccelli scelgano di rimanere in un posto quando possono volare ovunque sulla terra, poi faccio la stessa domanda a me stesso” - Harun Yahya.

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