I COLORI accoglienza e crescita a Casola Valsenio
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- Scritto da Benedetta Landi
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Non tutti sanno che nel nostro paese è presente una casa famiglia. Io stessa sono venuta a conoscenza della sua esistenza solo poco tempo fa, e parlandone con amici e parenti mi sono resa conto del fatto che molti ignorassero la presenza di questa realtà a Casola Valsenio. La casa famiglia, per definizione, è una struttura destinata all'accoglienza di minorenni, disabili, anziani, adulti in difficoltà e/o a persone con problematiche psicosociali, e si configura come una comunità di tipo familiare con sede in un’abitazione civile. Mi sono quindi ripromessa di approfondire la conoscenza di questa struttura, e di farla conoscere il più possibile anche a tutti i miei concittadini. Ho incontrato Marcella Marzioni, colei che ha dato vita alla Comunità familiare “I colori”, per capire quando è nata e quale tipo di attività si svolge al suo interno.
Ci siamo incontrate in un pomeriggio di inizio aprile, e non appena sono entrata in casa sua sono stata accolta dai sorrisi di cinque meravigliosi ragazzi: uno stava lavando i piatti, mentre un altro stava sparecchiando la tavola. Gli altri, dopo avermi salutata ed essersi presentati, sono usciti in cortile a giocare con il cane e a terminare il lavoro di raccolta dell’erba appena tagliata nel prato, armati di forcale.
Io e Marcella abbiamo parlato a lungo, e grazie ai suoi racconti sono riuscita ad entrare un po’ all’interno del loro mondo.
La Comunità familiare, situata alla Calgheria, è nata poco prima del Covid: è in quel periodo che Marcella, originaria del Friuli Venezia Giulia, si è trasferita a Casola e ha cominciato i lavori di ristrutturazione della sua nuova casa, per renderla strutturalmente adeguata ad accogliere i ragazzi. Marcella è un’educatrice professionale laureata, che ha alle spalle un passato di coordinatrice in una struttura per minori non accompagnati. È stato proprio questo suo passato lavorativo a spingerla a «cercare di fare di più e a fare meglio»: in una struttura così grande, che accoglieva oltre 80 ragazzi, sentiva molto la carenza di un rapporto individuale con loro, così come nella progettazione di un percorso di vita ad hoc per ciascuno di essi. Ha quindi scelto di mettere a frutto l’esperienza maturata negli anni a contatto con questi ragazzi, e di realizzare una struttura tutta sua, ma più piccola, nella quale il progetto di vita perseguito fosse assolutamente individualizzato e personalizzato sulle esigenze del singolo minore.
La sua comunità familiare può ospitare fino a un massimo di 5 bambini/ragazzi, di età compresa tra i 3 e i 18 anni. Attualmente vivono con lei 5 ragazzi adolescenti, due di origini italiane e tre stranieri.
Marcella sogna in futuro di potersi allargare, arrivando ad accogliere fino a 7/8 ragazzi, ma non di più: «mi piacerebbe poter aiutare più ragazzi, ma senza rinunciare a quell’atmosfera di “famiglia” e di “casa” che si è creata» e che sicuramente è resa possibile dal dover gestire piccoli numeri. Le piacerebbe anche valorizzare ulteriormente gli ampi spazi esterni, piantando alberi da frutto e creando uno spazio per galline e capre. «A contatto con il verde questi ragazzi possono tirare un sospiro di sollievo, vivere un senso di libertà e pace mai sperimentato prima. Mi piacerebbe inoltre ristrutturare il capannone di fianco alla casa, e creare degli appartamenti nei quali i ragazzi possano sperimentare una vita autonoma una volta diventati maggiorenni… una sorta di “dopo di noi”».
I ragazzi che vengono affidati a lei sono generalmente minori stranieri non accompagnati, che hanno lasciato il proprio paese e la propria famiglia in cerca di condizioni di vita migliori, nella speranza un giorno di poter portare in Italia anche la propria famiglia o comunque di garantire loro una stabilità economica, oppure ragazzi italiani allontanati dalle proprie famiglie, considerate non idonee ad occuparsi dei propri figli. «Tutti loro hanno ancora rapporti con la famiglia di origine: nel caso dei ragazzi stranieri, è un rapporto costante, si sentono praticamente ogni giorno. Nel caso dei ragazzi italiani è un po’ più complicato: essendo stati allontanati dal nucleo familiare a causa di una situazione problematica, generalmente gli incontri avvengono sotto la supervisione di un assistente sociale».
Questi ragazzi le vengono affidati da un Comune o da una ASP, dopodiché lei se ne prende cura a 360°: gestisce gli aspetti scolastici, sanitari, relazionali e affettivi, così come eventuali rapporti con il servizio psicologico e di neuropsichiatria. Li aiuta con i compiti, li accompagna nei vari spostamenti e insegna loro l’italiano: alcuni arrivano senza sapere la lingua, e necessitano quindi di una prima alfabetizzazione. All’inizio ci si può aiutare con l’inglese o con il francese… «oppure con Google traduttore!»
Anche la collaborazione con la scuola in questa fase è di fondamentale importanza: «innanzitutto bisogna trovare un istituto che accolga il ragazzo ad anno scolastico iniziato… dopodiché, l’anno successivo, il ragazzo potrà cambiare scuola e scegliere quella che più gli piace, in base ai suoi interessi». Marcella afferma di aver sempre trovato grande disponibilità e collaborazione da parte degli istituti scolastici e dei docenti, i quali hanno anche predisposto, laddove necessario, un Piano Didattico Personalizzato che consentisse ai ragazzi di concentrarsi in un primo momento principalmente sulle attività pratiche, mettendo da parte le materie di studio, in modo da consentirgli di imparare la lingua.
Marcella, insomma, si occupa di questi ragazzi e di ogni ambito della loro vita 7 giorni su 7, 24 ore su 24. La cosa importante, dice, è «seguirli sia in maniera singola, che nel microgruppo, che nel macrogruppo»: dare quindi spazio alle esigenze del singolo, ma anche alle relazioni che si instaurano tra i vari ragazzi. Quando un nuovo membro entra a far parte della comunità familiare, si va inevitabilmente incontro ad una ridefinizione dei ruoli e delle relazioni, e non sempre è facile andare d’accordo. «Generalmente un nuovo ingresso è preceduto da un breve preavviso, specialmente se i ragazzi arrivano da situazioni di emergenza. Ma gli altri sono preparati al suo arrivo, prima di quel momento lavoro con loro sulle relazioni. C’è da dire che comunque sono sempre tutti molto solidali con la sofferenza che quel ragazzo si porta dietro: loro stessi l’hanno provata, quindi sono accoglienti e rispettosi, gli lasciano spazio».
GIARDINO DELLE ERBE, il tesoro di Casola Valsenio
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- Scritto da LoSpekkietto
- Categoria: Attualita
Il Giardino delle Erbe “Augusto Rinaldi Ceroni”, nel cuore della suggestiva località di Casola Valsenio, a detta di molti visitatori è un “luogo incantato” che accoglie gli amanti della natura e gli appassionati di piante ed erbe officinali, in un viaggio senza tempo attraverso le diverse stagioni.
Forse molti non sanno che Il Giardini delle Erbe è di proprietà della Regione Emilia Romagna, la quale ha affidato la gestione del Giardino delle Erbe all’Ente Parchi e Biodiversità Romagna; a sua volta, mediante gara di appalto ha incaricato, fino a dicembre del 2024, per la conduzione del Giardino delle Erbe, la Montana Valle del Senio mentre per l’organizzazione degli eventi, le attività didattiche, visite guidate, laboratori, picnic, aperitivi tematici e corsi tecnici specializzati, la coop. Atlantide.
Fa parte del Sistema Museale della Regione Emilia Romagna e del circuito degli Orti Botanici Italiani. Collabora con la SIROE Società Italiana Ricerca Olii Essenziali ed è socio FIPPO Federazione Italiana Produttori Piante Officinali. Collabora ed è un punto di appoggio sugli studi delle officinali per molte Università Italiane; negli ultimi anni ci sono state collaborazioni per ricerche e master, con le Università di Bologna (Agraria, Veterinaria, Farmacia, Erboristeria), Modena e Reggio Emilia (Farmacia), Roma la Cattolica e la Sapienza (Farmacia, Biologia), Firenze (Medicina e chirurgia, Biologia), ecc.
Riteniamo e vogliamo che il Giardino delle Erbe sia un bene di tutti, un luogo sempre aperto al pubblico, visitabile nel rispetto di quanto si trova, in qualsiasi momento dell’anno. I locali interni invece sono aperti solo durante gli orari ufficiali di apertura e di lavoro.
Un’altra curiosità: quest’anno ricorrono i 49 anni dalla data della inaugurazione nella sua sede attuale e 86 anni dal 1° Giardino sperimentale e campo catalogo voluto dal Prof. Augusto Rinaldi Ceroni nel 1938.
Le attività didattiche e le visite guidate quest’anno sono iniziate alla fine di marzo con i laboratori ed i corsi tecnici legati al concorso “Il Piatto Verde” organizzato dall’Istituto Alberghiero Pellegrino Artusi di Riolo Terme in collaborazione con IF Imola Faenza. Riporto sotto il programma degli eventi in programma quest’anno da maggio ad ottobre.
Maggio sarà il mese dedicato alla rassegna di eventi di “Erbe in Fiore”: questo infatti è il periodo in cui il Giardino si trasforma in una sinfonia di colori e profumi, dando vita ad un programma ricco di appuntamenti tematici.
CI HA LASCIATI DON SANTE, UN SACERDOTE, UNA GUIDA, UN AMICO, UNO SCOUT
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- Scritto da Super User
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Ci ha lasciato don Sante , un amico, una roccia, parroco della Costa ( di Borgo Rivola) , amministratore della parrocchia e dell’ abbazia di Valsenio, ex assistente scout della squadriglia libera di Borgo Rivola aggregata all’allora nascente gruppo scout di Casola.
Erano i primi anni sessanta dello scorso secolo quando l’esperienza scout fece sì che la mia strada incrociasse quella di questo amico e straordinario sacerdote . I rapporti intrapresi grazie allo scoutismo hanno permesso che fra il sottoscritto e Don Sante si cementasse una forte empatia, s i sviluppasse una consolante confidenza spirituale ed in seguito , grazie all’intermediazione e all’esercizio di alcune funzioni rappresentative , anche una proficua collaborazione in certe fasi della ristrutturazione dell’Abbazia di Valsenio; impresa che, iniziata da don Giovanni Visani (don Giovannino), è stata portata avanti con determinazione e successo da don Sante.
Don Sante è stato un sacerdote dinamico, poliedrico ( ricordo la sua passione per la musica ) , tosto e forte di carattere ma anche comprensivo ed umanissimo nel prestare aiuto e sostegno, non solo nei percorsi spirituali, ma anche pratici e fattuali della vita.
La sua dipartita lascia un vuoto nella nostra valle, un vuoto che non sarà facile colmare, ma confidiamo che da lassù, da dove oggi egli ci sta guardando sorridente, sarà già all’opera per intercedere e impetrare una soddisfacente soluzione per la nostra comunità.
Grazie don Sante per tutto ciò che ha fatto per noi.
Aquila Solitaria
Darwin: la vita dietro l’orchidea
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- Scritto da Lorenzo Sabbatani
- Categoria: Cultura
Questa è la piccola-grande storia di un organismo dai tratti bizzarri, una pianta che ha avuto grande fortuna nell’adattarsi alle difficili condizioni che la vita pone costantemente, durante il suo perenne movimento evolutivo. Eppure l’organismo in questione ha bisogno di presentazioni. Se stiamo alle parole di Darwin, infatti, l’incredibile varietà di specie e sottospecie, sia animali che vegetali, sarebbe prodotto non da un equilibrio provvidenziale – la Creazione della vita nel suo eterno stato d’immobile armonia – quanto semmai dal caos delle mutazioni, dal marasma dei rapporti interorganici, dalla silenziosa guerra per la sopravvivenza. Questo è uno dei punti-chiave presenti nella celebre teoria di Darwin, quella che vede l’evoluzione per «selezione naturale». Ma non fu facile per il gentlemen inglese divulgare il proprio lavoro, frutto di un’indagine duratura che lo vide protagonista di un glorioso viaggio intorno al mondo sul brigantino Beagle, durato ben 5 anni. Tornato finalmente in madrepatria, dovette aspettare altri 19 anni prima di pubblicare la sua opera magna, L’origine delle specie (1859).
Il motivo è presto detto: come si può dimostrare qualcosa che c’è ma non si vede? Se ci volgiamo alla natura e la contempliamo dal nostro punto di vista, quello di semplici osservatori, la vita ci pare quasi immutabile, fissata come in un quadro. Non siamo in grado di cogliere le disuguaglianze genetiche tra individui e generazioni di una data specie. Le nostre colline pullulano di vegetazione che sembra non variare se non al ciclo delle stagioni; così gli animali appaiono sempre gli stessi, con qualche sfumatura di nuovo nell’aspetto, ma i comportamenti sono pressoché i medesimi. In fondo, le piante sono piante, gli animali sono animali. Nessuno vive abbastanza a lungo da notare un cambiamento netto nella differenza di specie. Nessuno può oltremodo affermare come e quando ciò sia accaduto nella storia del mondo, se non avvicinandosi per verosimiglianza, facendo una stima del tempo che fu con i dati che abbiamo nel presente. All’epoca di Darwin, tra le prove scientifiche che rafforzavano la sua teoria, si annoverano le scoperte della moderna paleontologia: il ritrovamento di antichi fossili, come quelli dei grandi rettili del passato, testimoniava il lento ma costante processo di trasformazione degli organismi. Non solo: anche la geologia muoveva passi da gigante, rivelando come la Terra fosse molto più antica di quanto si credesse allora (la tradizione religiosa datava l’origine del mondo circa nel 6000 a.C., periodo in cui la Bibbia faceva coincidere l’evento del Diluvio Universale). Tutto ciò era esplicativo di un lento meccanismo di variazioni in cui gli esseri viventi sono coinvolti da sempre, dalla loro prima comparsa sul pianeta. L’evoluzione diventa così una trama sotterranea impercettibile ai sensi, poiché, per manifestarsi, necessita di tempi lunghissimi, così lunghi che è impossibile da immaginare.
Negli anni subito prossimi alla pubblicazione del suo capolavoro, l’ormai celebre naturalista si dedicò completamente allo studio delle piante, nel giardino privato di Down House. In primo luogo perché la teoria, con i suoi effetti, aveva sconvolto non solo la comunità scientifica, ma gran parte dell’opinione pubblica di tutto il mondo (non dimentichiamo le vignette satiriche pubblicate al solo scopo di porre in ridicolo le idee di Darwin). Le sue implicazioni non si ponevano solo in antitesi con l’immagine millenaria della natura – il “paradiso terrestre”, lo stato di perenne armonia tra le creature – ma portava con sé conseguenze sociali tali da giustificare – ne saranno l’esempio i futuri nazionalismi – l’ascesa di certi popoli a discapito di altri. La botanica rappresentava un campo del sapere dove poter fare ricerca senza il rischio di altri scompigli, un luogo sicuro, estraneo alla sfera pubblica e fuori portata dagli attacchi degli antievoluzionisti. In secondo luogo, proprio attraverso la sperimentazione, Darwin poteva osservare direttamente i cambiamenti che avvenivano fra le generazioni delle molteplici specie provenienti dal suo giardino (immaginiamo che, esattamente negli stessi anni, Gregor Mendel indagava sulle leggi dell’ereditarietà nell’isolato monastero di Brno).
Forse non tutti sanno che, proprio in questo periodo, Darwin pubblicò una monografia dedicata esclusivamente alle orchidee:
«Nel mio studio sulle Orchidacee nessun altro fatto forse mi ha tanto colpito quanto la indefinita varietà di struttura, — la prodigalità dei mezzi per raggiungere uno stesso ed identico scopo, vale a dire la fecondazione di un fiore col polline di un’altra pianta».
A parere dell’inglese, le piante mostravano capacità di adattamento incredibili e meccanismi di sopravvivenza che nulla avevano da invidiare alle facoltà animali o umane. In Fecondazione delle orchidee (1862) – questo è il titolo dell’opera – l’autore elenca una vasta gamma di generi e specie, descrivendo, con un misto di accuratezza e visibilio, le singolari tecniche dei fiori atte alla «dicogamia» (ossia la “fecondazione incrociata”). Con tale scritto, Darwin apriva ufficialmente una nuova stagione di studi botanici in cui centrale era il rapporto interspecifico: la conformazione dei fiori di una data pianta va compresa a partire dall’interazione col suo insetto impollinatore. Secondo Darwin, l’indagine sugli esseri viventi non poteva prescindere dai loro rapporti con altre forme di vita (fino a quel momento, le scienze naturali si limitavano alla mera classificazione e descrizione morfologica degli organismi, presi nella loro singolarità). Così, data la centralità dell’impollinazione nelle piante, Darwin si accorse che si poteva desumere l’aspetto di un insetto a partire dalla struttura di un dato fiore (e viceversa). L’esempio più memorabile riguarda l’ipotesi che proprio l’autore dell’opera fece a proposito di una falena del Madagascar all’epoca sconosciuta: prendendo in esame una specie di orchidea originaria dell’isola – l’ Angraecum sesquipedale – Darwin ipotizzò che dovesse esistere un lepidottero (farfalla o falena) in grado di fecondarla. Quarant’anni dopo quella predizione si rivelò veritiera: nel 1903 due entomologi individuarono una falena notturna, la Xanthopan morganii, che possedeva una spiritromba lunga quanto il nettario del suo fiore (25 cm). Gli studiosi affibbiarono alla falena l’epiteto «praedicta» in onore della celebre intuizione di Darwin:
«Si può domandare, a quale scopo possa servire un nettario di una lunghezza tanto sproporzionata. […] Restiamo stupiti che un insetto qualsiasi possa essere capace di raggiungere questo nettare. […] ma nel Madagascar devono esistere farfalle notturne la cui proboscide può essere allungata sino a dieci o undici pollici!»
Veniamo dunque a capo di questa lettura. Sulle nostre colline, in primavera, sbocciano i fiori di un’orchidea abbastanza comune in tutta Europa, denominata Ophrys apifera. Tuttavia, a colpo d’occhio, senza un’adeguata conoscenza, non siamo in grado di cogliere i suoi elementi più fondamentali. L’organismo, infatti, se osservato con attenzione, rivela un aspetto insolito, tant’è che pure Darwin, nella sua monografia, si domandava per esempio come mai tale pianta presentasse caratteri discordi tra loro: la presenza di organi sessuali sia maschili che femminili nei fiori indicavano la pratica dell’auto-impollinazione (come accade nei fiori ermafroditi), ma la concomitanza di altri organi peculiari riflettevano senza dubbio una fecondazione per incrocio: «Giudicando dalla struttura dei fiori di O. apifera, mi sembra quindi quasi certo che essi, in un periodo anteriore, siano stati accomodati per una fecondazione incrociata […]». In sintesi, è come se l’Ophrys apifera sia stata «costruita» – dice Darwin – per entrambi gli scopi, sebbene abbia infine favorito l’autoriproduzione, considerato che nessun insetto pronubo la visiti (infatti, non possiede nettare). Ancora una volta, dopo tanti anni, la scienza ha mostrato come i dubbi di Darwin fossero fondati: ad oggi, infatti, possiamo dire che Ophrys apifera abbia subito un’evoluzione tale che, sotto la spinta della selezione naturale, sia mutata per il venir meno del suo insetto impollinatore. Ma come ciò sia stato possibile ha dell’incredibile.
Gli ultimi studi condotti sull’orchidea fanno emergere che essa sia stata anticamente visitata da un insetto che ora è creduto estinto. Se la si guarda da vicino, infatti, si può notare che il labello presente sui fiori ricorda l’addome di alcuni insetti. Siamo di fronte a un caso di «mimesi sessuale», fenomeno per cui alcune specie emulano nell’aspetto (forma e pelosità), nel colore e nell’odore le femmine degli insetti impollinatori, al fine di attrarli sui propri fiori. La strategia di fecondazione qui descritta è unica della famiglia delle orchidee e riguarda le Ophrys del Mediterraneo, nonché pochi altri generi di orchidee australiane. Inoltre, il peculiare rapporto tra orchidee ed impollinatori è così stretto che molte specie sono fecondate da una o pochissime tipologie di insetti. Altre piante, invece, adoperano una tecnica diversa ma con lo stesso fine: moltissimi generi di orchidee, per esempio, approfittano dell’innato comportamento alimentare degli insetti per trarli in una “tresca biologica”: i colori vistosi, l’ampia forma del labello, la finta presenza di una ricompensa (come il nettare) catturano l’attenzione degli ignari visitatori che vengono così ad impollinarne i fiori (la «mimesi alimentare» si ha in Orchis, Disa, Cephalanthera). Tali orchidee fioriscono a inizio primavera poiché, essendo i loro impollinatori appena fuoriusciti dalla stagione invernale, non sono ancora capaci di distinguere le piante nettarifere da quelle ingannatrici.
Ophrys apifera, probabilmente, deve aver mutato le sue caratteristiche a seguito della scomparsa del suo insetto. Sotto la pressione della selezione naturale, si è salvata adattandosi alle nuove condizioni che la natura le aveva sottoposto. Tuttavia, l’orchidea porta nel presente i tratti del suo passato evolutivo, nonché il fantasma di un antico vissuto: con sé ha mantenuto le tracce di un organismo di cui ora abbiamo solo uno sfocato ricordo. La “teoria dell’inganno”, comprovata dagli studi più recenti, non era condivisa all’epoca da Darwin, che giustificava la coevoluzione di piante ed insetti come frutto del caso. Diversamente, Federico Delpino, suo ammiratore e corrispondente italiano, fu tra i primi sostenitori di quest’idea, immaginando una natura soggetta sì ai mutamenti accidentali, ma capace nel contempo di attuare le più brillanti e ingegnose strategie che svelano, negli organismi complessi, un’intelligenza atavica in mutamento.
Secondo il parere di chi scrive, la teoria scientifica è rimasta fossilizzata, per certi aspetti, sulla dottrina evoluzionistica classica, tanto da sottovalutare ancora molti fenomeni organici, antichi quanto la vita stessa. Come si può evincere dalla storia di una piccola orchidea, ignorando la complessità dietro a manifestazioni che riteniamo comuni o prive di significato, siamo portati a trascurare le grandi verità sul nostro presente – come la nostra completa dipendenza dall’attività fotosintetica o come la presenza di organismi eucaroitici, vecchi milioni di anni, a cui dobbiamo la nostra permanenza sulla Terra.
Nulla va dato per scontato; nulla viene per caso.
Lorenzo Sabbatani
un concerto in memoria di Padre Callisto
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- Scritto da Renato Soglia
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Domenica 7 aprile 2024, alle ore 17.30, presso la Chiesa di San Francesco di Casola Valsenio si è tenuto un bel concerto in memoria di Padre Callisto Giacomini, frate cappuccino che prestò la sua opera religiosa e musicale a Casola tra il 1972 e il 1975.
Eseguito dalla corale “Santa Maria in Viara” di Castel San Pietro (precedentemente diretta da Padre Callisto), insieme al coro “Casual Gospel” di Castel San Pietro, sotto la direzione di Silvia Gisani, il concerto ha voluto ricordare la figura di questo sacerdote che a Casola Valsenio ha contribuito in maniera determinante alla formazione di molti musicisti.
Ad accompagnare la corale due professori di musica casolani: Renato Soglia alla Tromba e Roberto Ricciardelli al Clarinetto, che hanno iniziato la loro attività musicale proprio con questo frate.
Padre Callisto (battezzato Luigi), era nato a Perticara di Novafeltria (PU) il 10 aprile 1920. Entrato da bambino nel seminario serafico, il 6 agosto 1936 emette la sua professione temporanea.
Dopo gli studi filosofici e teologici, il 15 aprile 1941 si consacra per sempre a Dio con la professione solenne e il 10 aprile 1943, a 23 anni, viene ordinato sacerdote nella Cattedrale di Bologna.
Dopo l’ordinazione, ha iniziato la sua attività di insegnante a Faenza (1943) e di presbitero nel servizio in alcune parrocchie (come Marradi), mentre insieme ai confratelli è stato tra gli sfollati per la guerra a Sommorio.
Uomo dalla cultura smisurata, si dedica con passione in particolare alla musica. Nel 1946 inizia a studiare musica al Conservatorio di Bologna, dove, in pochi anni, consegue i diplomi di Musica corale e Direzione di coro, Composizione e Strumentazione per Banda. Abilitatosi a Firenze in Canto Corale, nel 1968 si diploma al Conservatorio G. Verdi di Milano anche in Composizione Polifonica Vocale.
Molte le cariche svolte da questo frate: Delegato provinciale per l’insegnamento del canto sacro (1953), Maestro di coro e sacre cerimonie a Roma (1954), insegnante di Musica nelle scuole statali (1967). In quest’ultimo ruolo insegna Musica presso la Scuola Media di Casola Valsenio tra 1l 1973 e il 1975.
Nel 1976 vince un concorso al Conservatorio di Bologna, dove inizia a insegnare Strumentazione per banda.
Nel 1991 è membro della Commissione per la Musica sacra dell’Arcidiocesidi Bologna.
Oltre alla musica, ha messo a disposizione le sue capacità anche in altri settori: infatti è stato anche formatore (direttore, precettore, direttore spirituale) ed insegnante di diverse materie nei seminari e in vari studentati: a Lugo (1948-49; 1955-63; 1964; 1966-68), Castel S. Pietro (1949), Ravenna (1950-52) e poi direttore dello Studentato di Teologia a Bologna (1965). Ha ricoperto anche incarichi di responsabilità come guardiano a Faenza (1963), vicario della fraternità di Imola (1968-72) e come Definitore provinciale (1963-66).
Nel 1983 viene trasferito a Bologna, per seguire meglio le sue attività in Conservatorio, e qui muore il 6 novembre 2005, ma rimane viva la grande eredità umana e musicale che ha lasciato nella comunità casolana e in tutte le persone che l’hanno conosciuto.
Pier Giacomo Zauli
Ricordo personale di padre Callisto Giacomini
Incontrai per la prima volta Padre Callisto Giacomini nel 1972. Il fratello di mia nonna materna, Giuseppina, era Padre Roberto Rivola, un frate cappuccino, sacerdote a Forlì, nella Chiesa di Santa Maria del Fiore, che, spesso, veniva a trovare la nostra famiglia a Casola Valsenio.
Io avevo iniziato a studiare musica nel 1971 presso la scuola di musica locale e avevo scelto come strumento la tromba. Mio zio frate, che era al corrente di questa mia scelta, un giorno arrivò da noi con una “notizia bomba”: nel convento di Casola era stato assegnato un suo confratello, Padre Callisto Giacomini, suo grande amico e ottimo musicista. Avevano frequentato insieme il seminario e mio zio si vantava di cantare come basso nel coro del seminario diretto proprio da Padre Callisto.
Dopo pochi giorni il nuovo frate arrivò a Casola e mio zio mi accompagnò subito da lui per presentarmelo.
Ricorderò quel momento per tutta la vita: sentivo suonare un pianoforte e percorrendo i meandri del convento di Casola raggiungemmo la porta da dove proveniva quel suono. Vidi quell’uomo dallo sguardo simpatico, furbo, intelligente, che, dopo aver chiesto il mio nome, mi invitò ad andare ogni tanto da lui, per suonare insieme, invito che non mi feci ripetere due volte.
A 12 anni suonavo mediamente 2 o 3 ore tutti i giorni e trascorrevo diversi pomeriggi a studiare le parti con Padre Callisto. In me cresceva costantemente la voglia di far musica.
Ricordo le prime esibizioni pubbliche presso la Chiesa dei frati, alla S. Messa della domenica mattina (ore 7.00…): “Ave Maria” di Schubert, “Ave Maria” di Gounod, “PanisAngelicus” di Frank. Per un ragazzo di 12/13 anni la cosa era straordinaria.
Poco tempo dopo Padre Callisto decise di creare un gruppo vocale-strumentale: furono contattati altri ragazzi che studiavano strumenti musicali e diverse bambine che amavano cantare.
I ragazzi che componevano la parte strumentale, oltre al sottoscritto, erano: Roberto Ricciardelli al clarinetto, suo fratello Romano alla Tromba, Giuseppe Pozzi e Valerio Sagrini al Clarinetto, Roberto Sangiorgi al Flauto.
Un organico particolare, ma Padre Callisto arrangiava i brani e li preparava secondo le capacità di ogni singolo esecutore. L’effetto era garantito!
Nacque così un gruppo che noi chiamavamo “I Callistini” e con questa formazione ci esibivamo in concerti non solo a Casola ma in tutta Italia.
Questo gruppo vocale strumentale era fortemente supportato da tante persone di Casola Valsenio e anche di Sommorio.
Padre Callisto ha lasciato a Casola (e in tutti i luoghi in cui ha operato) un ricordo indelebile! Riusciva a trasmettere felicità, amicizia, simpatia, spirito di collaborazione e, nello stesso tempo, cultura e sapere.
Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo, di collaborare con lui, di operare insieme a lui, è ben consapevole di aver ereditato beni preziosi, che porterà con se per tutta la vita.
Renato Soglia
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