Cercare la falla

Fin dal primo giorno in cui si è insidiato insediato alla Casa Bianca, Trump sta facendo parlare di sé nelle vesti di nuovo presidente USA (o da sovrano, a quanto pare). Un nome, un programma. Nulla è lasciato al caso.
Se ci riflettiamo, dalla sua vittoria ad oggi, la propaganda non ha mai smesso di battere il ferro caldo. Trump vuole i riflettori tutti su di sé, manipola l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica verso ciò che il presidente dice o ciò che il presidente fa. Sta facendo “impazzire” l’opposizione, tesa a rincorrere ogni frase controversa da lui pronunciata, ogni delirio di megalomania, frammentando l’attenzione dei Democratici che rimangono sempre un passo indietro.

Occorre tenere a mente una cosa: ai vertici del potere di uno stato – Stati Uniti in primis – nulla può essere lasciato al caso. In un’intervista del 2019, Steve Bannon – consigliere più stretto di Trump durante il primo mandato – afferma: «Il partito di opposizione è il media e i media si possono concentrare su una cosa alla volta. Noi dobbiamo allagare il terreno ogni giorno e colpirli con 3 cose alla volta […] Velocità di attacco: bang bang bang». A questo punto si può intuire come le pubbliche dichiarazioni, i discorsi, le interviste, i gesti – le braccia alzate (la stessa di Bannon o di Musk) – fanno capolino a una strategia comune, studiata a tavolino prima di salire su ogni palco. Al vertice del potere, lo staff del presidente non può permettersi di sbagliare comunicazione, che deve essere curata ad hoc in ogni momento: saranno i media a distribuirla su scala mondiale. Trump&co lo sanno bene.
Secondo il giornalista Ezra Klein, in politica vince chi ha la capacità di conquistare l’attenzione di elettori, media ed opposizioni; una volta ottenuta puoi dirigerla su molteplici obiettivi (persino i più assurdi) per dividerla e depotenziarla, inondando giornali e social di contenuti sempre diversi. La «velocità di attacco» si evince già dalle prime settimane di presidenza: Trump firma oltre cento decreti esecutivi in un mese, revoca 78 leggi di Biden, ritira gli USA dagli accordi di Parigi e dall’OMS, abolisce lo ius soli, istituisce l’Ufficio della Fede, attua il licenziamento di centinaia di amministratori federali attraverso l’ufficio di Musk – il DOGE, ossia il famoso Dipartimento dell’Efficienza Governativo.
L’obiettivo di Trump non è la validità della singola misura, ma di mantenere l’attenzione alta su di sé, favorendo l’impressione che nel Paese comandi lui. Non importa nemmeno parlarne male, purché se ne parli. Tant’è che i repubblicani di Trump fuggono dal dibattito pubblico – forma democratica per eccellenza – ma prediligono altre forme comunicative come l’intervista e il comizio. Per fare un paragone attualissimo, anche la presidente Meloni favorisce i video-risposta, la dichiarazione social o il reel quando si difende dagli attacchi della magistratura: il contenuto è rapido e di tendenza, va sempre virale, non c’è contraddittorio e trasforma il caso politico in un fatto di attacco alla persona. Allo stesso modo, Trump si muove come sa fare, visto che alla Camera i repubblicani hanno una maggioranza di appena 3 voti. Al Congresso – dove le riforme che vengono approvate hanno un impatto più lungo e duraturo – Trump rischierebbe di perdere e di apparire debole; meglio un ordine esecutivo che ha un impatto comunicativo istantaneo (anche se nei fatti può venire respinto dal tribunale). Trump sta cercando di sostituire la percezione alla realtà, la figura del monarca a quella del presidente («LONG LIFE THE KING»).
Ultimamente vediamo Trump prendere decisioni assurde o illegittime, poi i tribunali la bloccano, come per lo ius soli o sui fondi del governo, o si fa marcia indietro come sui dazi o si ridimensiona come su Gaza. Ma intanto la notizia è lì, e rimane in rete qualche giorno. Come sostiene Francesco Costa, Trump sta evidentemente cercando i limiti del sistema democratico statunitense. Limiti verbali e intenzionali non ne ha, per ora sono solo istituzionali, per ora. Vorrebbe avere poteri molto più grandi di quelli che effettivamente ha. I contenziosi aperti sono innumerevoli, centinaia le cause in corso, le proteste dilagano a seguito del piano di pulizia degli apparati amministrativi e governativi. Il video degli immigrati in catene – con tanto di effetto sonoro ASMR – respinti oltre i confini? Un teatrino per dare l’impressione di tenere fede alla sua promessa (gli irregolari espulsi in questo mese sono meno della media pensile dell’amministratore Biden). Torniamo sempre al discorso sull’attenzione e sulla comunicazione.
La domanda da porsi non è se Trump stia giocando per il consenso o se la sua volontà sia davvero quella di minare alle basi il sistema statunitense (entrambe). Ci sono persone, lo sappiamo, che vorrebbero sovvertire l’equa distribuzione del potere propria dei sistemi democratici (che non sono perfetti, si sa). Le istituzioni democratiche sono state costruite con pesi e contrappesi proprio per evitare che qualcuno le stravolga e ne faccia ciò che vuole. Al momento funzionano. La domanda semmai è come reagire, da cittadini, di fronte alle pressioni e al fascino del potente di turno, senza lasciarsi condizionare dall’immagine e dal potere che questi emana? Come scrive Costa: «Non esistono leggi perfette e le leggi si possono cambiare: una democrazia arretra se chi può opporsi decide di non farlo, se le persone lo permettono. Trump ci sta provando: a mettere i piedi in testa a tutti, a farsi largo a spintoni, a ignorare le leggi e il Congresso, a pretendere obbedienza. Ci riuscirà solo se non incontrerà resistenza».

Lorenzo Sabbatani