Tiberio o Tebaldo

Cristiano con i suoi romanzi ha messo Casola on the map, come direbbero gli americani. Sulla mappa dell’immaginario dei molti lettori che nei giorni drammatici appena trascorsi si informavano sulla situazione di Casola perché conoscevano il paese per come lui lo ha raccontato. Ora le mappe sono cambiate: quelle fisiche, ahimè, ma anche quelle dell’immaginario. Casola, nei media, è già diventato “il paese delle frane” ed è un’etichetta scomoda, che sarà bene toglierci di dosso. I racconti futuri di Cristiano potranno contribuire a farlo.

Ma in questa occasione noi abbiamo voluto “approfittare” di Cristiano per gettare uno sguardo fuori da Casola e avere una sua testimonianza dalle zone che hanno patito non le frane delle nostre colline, ma le tonnellate d’acqua che hanno affogato “la Bassa”. Per questo gli abbiamo chiesto di potere pubblicare un post che abbiamo letto sulla sua pagina FB e che contiene tante cose, che è speranza nella disperazione, che è esempio della forza del raccontare. Ringraziamo Cristiano per avere immediatamente acconsentito alla nostra idea.

Questi post nascono al solo scopo di preservare i ricordi su un supporto che non sia solo cartaceo. I libri pubblicati hanno tanti luoghi asciutti in cui trovare casa: biblioteche, librerie, scaffali. I quaderni di chi scrive a mano, purtroppo no. Una volta finiti nell’acqua e sepolti dal fango, si spappolano tra le dita.

Testimonianza.

1) Tiberio o Tebaldo

 

Siamo andati in Via Comerio con i badili in spalla e una scopa, Gio e io, i suoceri di un’amico di Casola potevano aver bisogno di una mano. Siamo andati in auto, via Lapi era chiusa da una volante dei vigili urbani. Abbiamo trovato parcheggio appena prima dello Sferisterio, sulla sinistra, perché a destra crescevano già le collinette di mobili e oggetti da buttare.

Non avevamo stivali, ma scarponcini, con sacchetti del pattume sopra i calzini, chiusi con lo scotch.

Gruppi di ragazze e ragazzi con i badili in spalla, alcuni forestieri, moltissimi faentini. Troviamo la casa. Qui le collinette di mobili e oggetti sono più alte, tutte con la sfumatura marroncina grigia lasciata dall’acqua fangosa. Il livello di piena è una riga dello stesso colore appena sotto il balcone del primo piano. Il garage e il piano terra sono già stati liberati. Ci dicono che non hanno bisogno per il momento, aspettano di capire come fare a svuotare le cantine, ancora piene d’acqua. Ci chiedono di restare in zona, che ci chiamano, nel caso. Rimettiamo i badili e la scopa in spalla e attraversiamo l’incrocio. Dei ragazzi hanno creato una barriera di ante di mobili scassati per deviare il flusso d’acqua di una villetta che stanno ripulendo. Sono già in tanti, saremmo solo d’intralcio. Tre signori più grandi di me hanno una piccola pompa e stanno svuotando una casa. Chiediamo se hanno bisogno. Subito sembra di no, poi ci dicono che purtroppo non hanno una budella più lunga e l’acqua torna indietro. Il tombino sarebbe lì, ma la piena ci ha trascinato sopra una BMW grigia, che non c’è modo di spostare dalla morsa del fango. Bisognerebbe se possiamo spostare l’acqua verso l’unico tombino che scola da quella parte di strada, trenta metri più in là. La via fa un leggero dosso. Gli dico se non è il caso di scolare l’acqua dall’altra parte, in discesa. Non è possibile: finirebbe tutta nel giardino del vicino di fianco.

Ci mettiamo spalla a spalla e iniziamo a spostare l’acqua che forma un laghetto appena oltre il cancello, ma torna quasi tutta indietro prima di superare il dislivello. Le cose si imparano dovendole fare. Ci mettiamo in fila indiana. Io spingo l’acqua in avanti, Gio spinge quella che ho spinto io dall’altra parte. Di là, ci sono un bambino di nove anni e la sorella più grande e il padre che la spingono dentro il tombino. Non solo la nostra, anche quella spinta lì da chiunque sta spalando intorno: l’incrocio con Via Bettisi e via Mazzanti. Ogni tanto arriva lo sbuffo di un mezzo pesante da Via Lapi. Per un attimo ho un pensiero di Gio, che diventa amico della coetanea che spala l’acqua poco più in là. Un pensiero che ha a che fare con il suo futuro, un po’ bello, un po’ malinconico, non lo so neanche io. Spaliamo acqua e fango. Il limo che fertilizzava il Nilo. Il primo pensiero che ho avuto, da quando l’ho conosciuto la notte che si allagato il nostro giardino. “Ecco cosa intendevano alle medie, le piene del Nilo”. Non è fango, Non è acqua. È Vinavil marroncino. E la prima volta che ci ho messo piede, ho avuto un’immagine. I pensieri spesso non sono parole, ma polaroid, spezzoni di filmati. Io che ci metto un seme dentro, e un mese dopo c’è una spiga di grano alta due metri. I campi di grano dei Faraoni. Qualcosa di antichissimo.

Spaliamo acqua e limo.

Poco alla volta riaffiorano da quella brodaglia galleggianti da pesca, ami e esche colorate. Gio ne raccoglie una e mi chiede se può tenerla. Gi dico di chiederlo al proprietario. Come tutti gli adolescenti non gli viene facile parlare con i grandi. Glielo chiedo io. È un signore magro, più basso di me, dall’aria vitale e simpatica. Mi sembra che i due amici che con la pompa lo stanno aiutando lo abbiano chiamato ‘Gigi’. Lo chiamo così anche io. Ho sentito male. Mi dice di chiamarsi Tiberio. O forse Tebaldo. Non ricordo. Gio può tenere l’amo con l’esca, “tanto, ormai”.

Vive al primo piano. Viveva al primo piano, con il padre 94enne che da tempo non può alzarsi dal letto. La settimana prima, gli è morta la mamma. Il livello di piena lì ha superato il terrazzo, è oltre la metà della porta finestra.

Quando l’acqua ha iniziato a salire, è andato nella camera con il padre, su un comodino. Ma l’acqua non smetteva e non sapeva come fare, così è andato al secondo piano. Da solo non poteva spostarlo di peso. Sarebbero morti in due. Gli parlava attraverso le scale, quando non chiamava per i soccorsi. Sono arrivati con il gommone, da sera si era fatta notte. Una lucina nel buio. Tra le sirene, il rombo degli elicotteri, le grida di chi si era rifugiato sui tetti. E quel rumore del fiume impetuoso. La radiazione di fondo del Big Bang.

Gli chiedono del padre. Ci ha parlato per ore, ma da un po’ non lo sente. Probabilmente è annegato. Lo sciaccquio dei vigili del fuoco si fanno strada nella casa, l’acqua al petto, al primo piano. Un urlo.

È qua, è vivo. Il letto galleggia. Poi caricano anche lui. Il gommone li porta vicino al ponte della circonvallazione. Quattro corsie. È un lago. C’è un’ambulanza sopra che li aspetta. L’ospedale di Faenza è irraggiungibile. Li portano a Forlì. Dove stanno sfollati per due giorni. Il padre e lui, Tiberio o Tebaldo. Questo ci diciamo mentre spingiamo acqua e fango oltre il dislivello della strada. Arriva un trattore con una pala agganciata all’argano dietro. Lo accolgono alcune grida di gioia. Un contadino, chissà da dove. Il limo fertile. I campi rigogliosi dei Faraoni. Qualcosa di antichissimo.

Tiberio o Tebaldo mi dice che ha un’attività. Mi dice la via. Non conosco subito tutte le zone di Faenza, ci abito da due anni, ho studiato qua, è la Londra delle nostre vallate, ma non riesco a immaginarla tutta all’istante. È troppo più grande di Casola. Mi dice che è vicino al Girasole, la pizzeria. Quella la conosco. Non è lontano da casa nostra. Lì c’è stata l’altra apocalisse. Il cedimento dell’argine di Via Fratelli Bandiera. Un muro d’acqua di sei metri. Da ferma l’acqua pesa una tonnellata al metro cubo. Una piramide d’acqua. Un esercito di piramidi d’acqua. La nostra casa salvata dal metro e mezzo del passaggio a livello di via Chiarini.

Ho vinto alla lotteria, mi dice Tiberio o Tebaldo. È quello che stavo pensando io, che no ho perso nulla, in confronto a lui. Due su due. Ha perso tutto in casa e ha perso tutto al lavoro. E si era allagato anche nella prima ondata di inizio maggio. In mezzo, era morta sua mamma. Non so cosa dirgli. Guardo Gio che si è incaponito a liberare un tombino che non scola. È immerso sino alla spalla, le orecchie infangate, tira fuori rami, foglie, manate di quel brodo marroncino. Gli ho detto di lasciar perdere che non scola, ho provato pure io. Non mi dà retta. Ma le sue braccia sono già più lunghe delle mie. Chissà. Galleggianti ed esche colorate qua e là, nelle pozze d’acqua.

Poi Tiberio o Tebaldo sorride ancora e mi dice che non ci crederò, ma quando è tornato dall’ospedale di Forlì, nella sua casa dove non è rimasto nulla, con la sua collinetta di cose in frantumi ammucchiate di fianco all’ingresso, marroncine di limo che va seccandosi, non ci crederò, ma fuori, in quella BMW grigia finita lì sotto da chissà dove, nel finestrino dietro, c’era appiccicata la foto ricordo della mamma, una di quelle che erano avanzate dal funerale. Erano di sopra in un comodino. Tutto quello che resta della sua casa. E mi fa vedere. Mi indica il punto esatto. Un rettangolino nel vetro. L’unico non infangato.

Questo ci è accaduto a Faenza, sabato 19 maggio 2023, tra le dieci e le undici di mattina.

Cristiano Cavina