A guardare Casola col cannocchiale

«Lo Spekki(ett)o» ha sempre dedicato una certa attenzione alle storie dei casolani ‘emigrati’, perché abbiamo sempre ritenuto importante non solo riflettere sulla necessità/desiderio dei nostri concittadini di lasciare il paese, ma anche capire come Casola e i suoi abitanti potessero essere percepiti in luoghi più o meno distanti e, quasi sempre, piuttosto diversi (difficilmente chi se ne va si ritrova a vivere in un altro paesino con meno di 3.000 abitanti). Pubblichiamo periodicamente interviste a casolane e casolani che si sono stabiliti in luoghi molto distanti, fuori dall’Italia, in cui Casola naturalmente non è conosciuta e quindi questo secondo aspetto rimane un po’ in ombra. All’inizio delle nostre pubblicazioni però, ormai quasi 25 anni fa, prima che noi stessi redattori entrassimo in gran parte nel novero degli emigrati, intervistavamo chi aveva lasciato il paese fra gli anni ’70 e ’80, trovandosi a vivere in luoghi meno ‘esotici’ (Milano, Bologna, ecc.) e nei quali quindi, se non proprio Casola, era conosciuta la Romagna, la nostra collina, la vita nei piccoli paesi. Ricordo un leggendario articolo in cui Maurizio Montefiori raccontava di quando, al primo appuntamento, disse con la consueta autoironia alla sua futura moglie: “Sai com’è, noi romagnoli siamo un po’ i terroni del Nord…”. E lei, milanese o giù di lì, lo gelò: “Veramente voi romagnoli siete terroni e basta”. C’era naturalmente una buona dose di ironia anche nella risposta, e chiedo scusa a Maurizio e a sua moglie se le cose non sono andate esattamente così ma l’aneddoto serve solo a prenderla lunga per introdurre un discorso che è innanzi tutto ancora piuttosto confuso nella mia testa (ma se fosse chiaro non avrebbe senso parlarne, la confusione sul tema è parte integrante del tema in questo caso) e soprattutto è molto personale. Anzi, più che personale, perché legato a un momento preciso, alla sensazione provata in una serata di un mesetto fa in un contesto piuttosto specifico. La mattina dopo la sensazione era già in buona parte evaporata, ma ormai mi ero impegnato con la redazione a scriverci sopra un articolo… A parte le battute, la sensazione in questo mese si è stratificata, ci ho un po’ ragionato su, eventi recenti me l’hanno fatta tornare alla mente, quindi prima o poi dovrò smetterla con questo preambolo…

La difficoltà (e il preambolo continua…) è parlare di me, della mia esperienza personale in relazione a Casola, senza sembrare quello che vuole fare una lezione, per lo più conoscendo le cose solo a (pur limitata) distanza. Quindi lo dico: non voglio fare una lezione, non voglio insegnare niente, solo raccontarvi il pensiero di una sera, passata insieme alla redazione de «Lo Spekki(ett)o».

Tecnicamente faccio parte degli emigrati da Casola ormai da più di 20 anni, anche se fino a 15 anni fa con un piede ancora nella ‘casa natale’ in quanto a Bologna vivevo da studente fuori sede (case provvisorie, coinquilini che cambiavano ogni anno o anche meno, ecc.) anche quando ormai studente non lo ero da un pezzetto. Poi mi sono trasferito stabilmente a Imola da, appunto, 15 anni abbondanti. Imola, Bologna: distanze fisicamente limitate e, proprio perché limitate, emotivamente mutevoli. Provo a spiegare anche il titolo che ho scelto per questo articolo. La mia ?posizione’ mi consente di guardare Casola come se lo facessi attraverso un cannocchiale. Se appoggio l’occhio alla lente più stretta, che poi sarebbe il modo ‘corretto’di usare l’attrezzo, posso vedere il paese da molto vicino, sapere cosa succede anche se torno raramente e brevemente, conoscerne gli avvenimenti. Se mi va, posso anche venire a sapere i gossip che smuovono le chiacchiere del paese. Le mie lenti in questo caso sono i famigliari che a Casola ancora vivono o la frequentano quotidianamente, gli amici con cui ci si vede o ci si sente, gli incontri che a Casola faccio più o meno casualmente quando torno. E, su questo torneremo ma è fondamentale, la partecipazione alla redazione dello Spekkietto (che è cosa ben diversa dalla semplice lettura del giornale).

Se ne ho voglia però, o ne sento la necessità, posso girare il cannocchiale dall’altra parte, diciamo ‘al contrario’. ‘Guardo’ Casola appoggiando l’occhio alla lente più larga e il paese mi appare piccolissimo è lontanissimo, i dettagli si confondono, posso (fingere di) essere estraneo all’ambiente casolano. Ogni tanto questa estraneità è salvifica, lo ammetto, come a volte è invece salvifico sentire di fare (ancora) parte della comunità. Non so se questa sia la posizione migliore in cui trovarsi, anche perché fra quando hai 20 anni (e per molti la fuga dal paese è un desiderio se non una necessità) e quando ne hai 46, corre tutta la differenza del mondo. Però è una posizione in cui mi piace stare, perché apprezzo il fatto di potere decidere se e quando farmi coinvolgere dalle cose del paese. Di questo a voi vi frega il giusto ma aggiungo una cosa: forse questa è anche una posizione giusta per ‘giudicare’ la vita del paese. E vi prego di notare che la parola ‘giudicare’ sta tra virgolette, per ribadire che, lo dicevo prima, non voglio dare lezione e quel giudizio non è obiettivo ma un punto di vista che, come molti altri, forse ha senso ascoltare.

Abitando fuori (Imola) e lavorando un po’ più fuori ancora (Bologna), forse faccio maggiormente caso, rispetto ai casolani residenti, alla reazione delle persone quando dico che sono originario di Casola. La prima cosa da rilevare è che dirlo a un imolese o a un bolognese è molto diverso; la differenza è dovuta non solo al fatto che Imola è più vicina a Casola di Bologna, ma anche al fatto che è più piccola del capoluogo. Per un imolese Casola è lì, a due passi, parte del paesaggio naturale e, nell’80% dei casi, luogo natale di un/a nonno/a, zio/a, parente di varia natura. Quindi la cosa non desta particolari reazioni. Per un bolognese invece Casola è una specie di esotico paese delle favole in cui “Oh quanto è bello, in mezzo alle colline, che bei paesaggi, una volta sono andato a quel mercato dove vendono le erbe, ci passo sempre quando vado in giro in bicicletta” e altre amenità del genere. Ma prima sono stato impreciso quando ho detto “un bolognese”, perchè nella gran parte dei casi il dialogo prima accennato avviene con una persona che vive a Bologna, ma non ci è cresciuto, ci è arrivato più o meno da studente universitario, o addirittura da adulto. Dunque Casola Valsenio è davvero un nome a cui non stanno attaccate radici fatte di ricordi, esperienze, volti. È il paesino da gita della domenica, il luogo da una botta e via e che quindi nel 99% dei casi lascia un ricordo piacevole, di rilassatezza e spensieratezza e mucche al pascolo.

Quando il ‘bolognese’ parte con lo sbrodolamento di quanto è bella e rilassante Casola, la mia reazione abituale è: “Prova ad abitarci quando hai 18-20 anni, poi me lo dici quanto è tutto rosa, fiori e aria pulita”. Un po’ lo dico perché ci credo, ho già detto che ci sono età in cui Casola ti sta stretta. In buona parte però la mia è anche una provocazione, per mostrare un lato della medaglia che in realtà spesso il mio interlocutore conosce bene perché lui stesso è ‘scappato’ da un piccolo paesino del sud in cui io d’estate vado in vacanza pensando “Che figata, questi si svegliano al mattino e si tuffano in mare accompagnati dai delfini”.

Una cosa però che poi aggiungo sempre nel mio “dialogo sulle origini” è: “Nonostante ci siano 2600 abitanti in calo costante, nonostante il relativo isolamento, nonostante mille cose, Casola però è un paese vivo, con tante realtà che si danno da fare e alcune manifestazioni particolarmente intelligenti che spiccano nel panorama della sagra solo mangerecce”. “Pensa”, aggiungo “che il giornale che portiamo avanti con alcuni amici ha ormai 55 anni e per alcuni periodi a Casola ci sono stati due o anche tre giornali. Trovalo un altro paesino di 3000 anime che può vantarsi di questo”. La parte sul fatto che negli anni ’90 eravamo la Seattle di Romagna la tiro fuori solo se so che l’amico con cui dialogo ha quel minimo di cognizione musicale, se no poi tocca spiegargliela e si perde l’effeto boutade.

Insomma, alla fine ripristino il mio orgoglio casolano e faccio una sviolinata ai concittadini, al loro darsi da fare, più che alle bellezze naturali, che quelle ci sono capitate in sorte e al massimo possiamo solo rovinarle (sì lo so, non è proprio così, ma andiamo avanti che se no scade la deadline per la consegna dell’articolo). Sia chiaro, non lo dico tanto per dire ma perché ci credo, perché sono convinto della eccezionalità di Casola nel senso appena descritto, che la riscatta almeno in parte da tanti altri problemi e difetti che però non sono eccezionali, ma connaturati alla vita di un piccolo paese.

Sempre convinto di ciò, in maniera forse pregiudiziale e campanilistica, in settembre vado alla riunione di redazione dello Spekkietto, che è sempre un momento di aggiornamento sulla vita pubblica casolana perché di quello si discute con gli amici che in prevalenza a Casola ci vivono (pochi però ci lavorano…) in maniera “attiva”, partecipando a associazioni, organizzando cose, anche ricoprendo ruoli ‘ufficiali’ nella politica amministrativa del paese. Insomma, a confronto con lo scandaglio con cui loro possono esplorare nel profondo la vita casolana, il mio sguardo ravvicinato dal cannocchiale è roba da ridere. Come in ogni riunione di redazione iniziano a scorrere i discorsi sui vari argomenti che si vogliono trattare nel prossimo numero, ma stavolta è una via crucis.

Campo sportivo e sport in generale: una mezza tragedia. Senza il campo il numero dei bambini praticanti il calcio sta drasticamente calando, bisogna allestire squadre coi paesi vicini (che in realtà non se la passano meglio anche col campo…). Alternative al calcio: quasi nulle.

Lavoro: non c’è niente da stare allegri. Non entro nei particolari che non conosco, ma il succo è che si rischia di perdere alcune delle attività produttive che danno maggiori possibilità di impiego ai casolani, senza constringersi ad andare altrove.

Pro Loco e altre associazioni: visioni diverse sulla questione fra i partecipanti alla riunione, ma di sicuro si sconta una difficoltà nel mettere insieme persone che vogliano (o possano) impegnarsi nella realizzazione delle manifestazioni del paese. In particolare mancano giovani, cosa che non è necessariamente una colpa dei giovani. Potrebbe anche essere che quelli più ‘esperti’ non abbiano la capacità di coinvolgerli, o che (e sarebbe peggio) li tengano più o meno consciamente fuori dai giochi per non dovere fronteggiare idee nuove, cambiamenti, critiche allo status quo.

Vita sociale: mi vengono riportate le lamentele di “gente di via” che disperata non riusciva a trovare a Casola un bar aperto, “forestieri” che magari hanno passato in paese parte del periodo estivo ma se ne sono andati delusi perché “non c’era niente da fare”. E questo porta al punto successivo.

Manifestazioni estive: rispetto ad altri paesi vicini quest’estate a Casola non è stato organizzato niente. Ok, però la riunione è fatta per decidere gli articoli da mettere sul giornale. Abbiamo dati ufficiali per dirlo? Riusciamo (e ci interessa) a fare una mini indagine che avvalori o meno questa affermazione? Non li abbiamo, è più che altro una sensazione. Sulle sensazioni non ci si costruiscono articoli di un certo tipo, al massimo le si usa come spunto di discussione, come sto facendo qui adesso.

A un certo punto, durante quella riunione che sembra il funerale della vita pubblica casolana, rifletto: da un po’ di tempo, quando vengo a Casola, non vado a farmi un giro al bar, o da qualche altra parte, per incontrare gente. Sto un po’ dai miei, si chiacchiera, al massimo una puntata al fiume giù dalla Calgheria per prendere un po’ della famigerata aria buona che tanto esalta “quelli di città”, poi stop. Anch’io da un pezzo vivo Casola in maniera molto meno piacevole. Faccio anche fatica a farmi venire la voglia di venire per i carri, per la festa dei frutti dimenticati, o altre cose. Problema mio, di sicuro, di pigrizia. E naturalmente so a cosa state pensando da quando ho iniziato a elencare i problemi discussi nella nostra riunione: “Eh grazie, c’è stato il Covid”. Sì certo, lo so anch’io, non sono così ingenuo, il Covid ha sicuramente avuto un peso in tutto questo e non sto certo qui a spiegare il perché e il percome, che lo sappiamo tutti. E avrà ancora un peso, perché il Covid non è passato e perché le conseguenze di quanto vissuto nell’ultimo anno e mezzo dureranno a lungo. Ma attenzione, perché il Covid rischia di diventare il capro espiatorio di problemi e processi che erano in atto già da prima, la giustificazione per tutte le cose che non sono state fatte o che sono state fatte male, senza cura. Dire: “Eh, sai com’è, c’è stato il Covid…” è un modo per troncare sul nascere ogni critica, ogni ragionamento che possa mettere in discussione le cose. È stupido pensare che dopo il Covid si tornerà in automatico a come le cose andavano prima, così come è stupido pensare che il Covid abbia reso impossibile fare andare bene le cose. Il Covid è sicuramente un elemento della discussione, ma è, appunto, UN elemento della discussione, non tutta la discussione.

Io non lo so se tutta la negatività uscita durante la redazione sia fondata e se quindi dovrò abbandonare l’orgoglio con cui descrivo a ‘quelli di via’ l’eccezionalità di Casola. Non so se, al contrario, quella sera stavamo prendendo un granchio e in realtà le cose non vanno così male. Può capitare di prendere un granchio, lo scandaglio a volte si impantana e allora uno sguardo a distanza e meno coinvolto coglie la realtà in maniera più corretta. Non solo non so queste cose ma non mi interessano. O meglio, mi interessano ma bisogna andare oltre alla constatazione di uno stato di fatto, negativo o positivo che sia. Quella sera la redazione è andata oltre, continuando a discutere. Abbiamo detto che i giovani sono poco coinvolti e partecipi alla vita del paese? Però, dico io, quando abbiamo fatto la seconda serata online di Casola Insieme, abbiamo chiesto che le tre società costruttrici dei carri ci mandassero un reappresentanto giovane e ci siamo trovati di fronte ragazze e ragazzi entusiasti, pienamente consapevoli di quello che stanno facendo. E quello che stanno facendo è ricoprire ruoli fondamentali all’interno delle società. Ma poi, dice Albo (o Naldi, poco importa) alcuni giovani hanno appena ricostituito la Lega del Suono Buono, vi sembra poco? No, anzi. Intervistiamoli, parliamo di loro sul giornale.

Tiro le conclusioni, di per sè banali ma che ogni tanto è bene ricordare: l’atteggiamento giusto è non chiudersi gli occhi davanti ai problemi del paese, anzi osservarli con la massima attenzione senza paralizzarsi come di fronte a Medusa. Accogliere le critiche, ascoltare chi la pensa in maniera diversa, discuterci, litigarci se necessario, poi cercare una soluzione. Va tutto male o va tutto bene non serve a nessuno.

Ho visto negli ultimi giorni su Facebook il post in cui Beppe Sangiorgi pubblica una sua intervista all’assessore Sartoni, introducendola con alcune considerazioni sulla Festa dei Frutti dimenticati. Ho letto i commenti che hanno accompagnato il post e i suoi rilanci su altre pagine. Molti commenti e molto vari. Credo che vada bene così, che quello sia l’atteggiamento giusto, che non si sia cavalcata l’onda semplicistica di dire “La Festa è stata un successo di pubblico quindi perché stare lì a perdere tempo a discuterne?” (errore da cui lo stesso Sangiorgi mette guardia nel suo post e che, questo lo aggiungo io, mi sembra sia stato per anni uno dei problemi del mancato rinnovamento della Festa di Primavera). Poi, è chiaro, la discussione deve uscire da Facebook ed entrare nelle sedi delle associazioni, riversarsi nelle chiacchiere in strada, diventare discussione ufficiale nelle sedi competenti. E soprattutto deve trovare applicazioni concrete, non rimanere puro cicaleccio post festaiolo dimenticato dopo una settimana e rispolverato l’anno successivo.

Rileggo l’articolo e mi sembra di avere fatto come i giovani che nel 1967-68 scrivevano sullo Specchio (e sulle colonne dei giornaletti di tutto il mondo): ho imbrattato pagine e pagine di elucubrazioni e analisi fra pubblico e privato che in fondo in fondo, col senno di poi, potevano riassumersi in quattro parole dettate dal buon senso. Prendo tutto ciò come un segnale di idealismo giovanile e non di rimbambimento senile e in ogni caso sono contento, perchè così posso risparmiarmi la fatica di trovare un finale decente, che il buon senso per estrarre qualcosa da questo mio farfugliare, se lo volete, ce lo avete tutti.

Michele Righini