FRA SPERANZA E REALTA’

E’ uscito l’ultimo libro di ricordi e racconti autobiografici di Dino Landi. Casolano di nascita perché venuto al mondo in parrocchia di Baffadi è molto legato ancora alla sua terra d’origine nonostante abiti oggi a Castelbolognese.

Un libro che ripercorre le tappe di una vita trascorsa, come dice il titolo, a cavallo di grande speranze, spesso infrante contro la dura realtà.

La famiglia Landi coltivava a mezzadria i terreni della Doccia di Rivacciola, proprio davanti a Oriano, ma nel 1938 il padrone dà il commiato perché erroneamente addossa al padre la responsabilità per l’esito infausto di un parto dove vacca e vitello muoiono. Si spostano allora a Varmiano, in via Capanne, dove nel 1941 in piena guerra, nasce Dino. Le sue pagine sulla vita della famiglia mezzadrile sono un ritratto crudo ma preciso delle dure condizioni di vita di quel tempo. La narrazione ci riporta all’autunno del ’44 quando l’avanzata degli Alleati si fermò contro la linea gotica sui gessi e la sua famiglia abitava ai Boschetti di Rivola in piena terra di nessuno, alla mercé delle pattuglie di entrambi gli schieramenti. Passato il fronte della casa bombardata non restava nulla e dovettero traslocare a Sassatello dibblando mine e residuati bellici che lui e i suoi fratelli ,rischiando di saltare per aria, raccoglievano perché erano oggetto di commercio. Poi il dopoguerra, la scuola e lo studio che diventano un po’ alla volta le leve per il lancio delle prime grandi speranze.

D1) Colpisce la passione ma soprattutto la tua determinazione nel portare a termine un percorso di studio quanto mai ostico. Non è stato facile per te arrivare al traguardo del diploma magistrale. Dal tuo racconto si capiscono bene le rinunce, le frustrazioni, la grande fatica anche perché non avevi alle spalle una famiglia agiata, anzi. Però hai sempre messo in campo volontà e tenacia. Da dove ti veniva quella forza d’animo?

R1)  Sarebbe troppo semplice rispondere: “… dalla passione per lo studio”, mentre invece era la volontà di non volere buttare al vento un percorso di studi senza trovarmi in mano nulla di concreto. Questo sarebbe stato come lasciare abbandonato nel campo un aratro senza avere completato l’opera. I sei anni di seminario erano stati un periodo di studi seri, regolari e di grande impegno, nei quali la mente era impegnata ad imparare continuamente qualcosa di nuovo: interrompere questo ritmo di apprendimento non avrebbe portato nulla di buono.

Il diploma di abilitazione magistrale era quello che allora mi sembrava più alla mia portata, quello che, sperabilmente, mi avrebbe assicurato l’accesso alla professione che sentivo meglio corrispondere al mio animo da idealista: istruire ed educare i fanciulli per rendere il mondo un poco migliore!

Ma la spinta maggiore mi veniva proprio dalla grande povertà, dal bisogno di venirne fuori, di rendermi al più presto autonomo e di guadagnarmi da solo la mia vita.

Non di certo il lavoro non retribuito nei campi, ma solo il conseguimento di questo sospirato diploma mi avrebbe permesso di raggiungere l’autonomia e anche una maggiore considerazione da parte dei miei coetanei più fortunati.

Con il diploma di maestro Dino parte per la Svizzera dove gli viene assegnata la cattedra di una pluriclasse in un piccolo paese al confine con l’Italia. Per capire meglio l’etimo della parola confine merita leggere le pagine su quella sua esperienza. La parola confine in origine significava “ il luogo dove si finisce insieme”, dal sostantivo latino finis con il prefisso cum. Infatti le comunità dei due paesi frontalieri, nonostante appartengano a due stati diversi, interagiscono facendo perno soprattutto sugli scambi economici comprensivi del contrabbando. E il giovane Dino si trova protagonista in questo flusso di merci e di persone con episodi curiosi che lo vedono sempre cercare di affermare i valori ereditati dalla famiglia e dalla formazione in seminario pagando spesso di persona.

D2) Hai vissuto da emigrante, non solo in Svizzera ma dopo anche in Germania, quindi conosci la diffidenza, l’ostilità, lo spaesamento, la nostalgia in un periodo in cui tantissimi italiani erano costretti a lasciare il proprio paese per lavoro. Credi che sia bastato mezzo secolo per farci dimenticare che gli italiani sono stati un popolo di migranti? Meriterebbe forse raccontare ai giovani quella dura realtà dove eravamo noi a cercare di farci accettare?

R2) Anche il muro di Berlino non impediva del tutto i contatti fra i confinanti. Nel mio caso, in Svizzera,  i contatti fra i paesi confinanti, ma appartenenti a due stati diversi, erano assai più liberi, con scambi di merci, passaggio di turisti, conoscenze, frequentazioni ed amicizie.

Coltivare il contatto coi confinanti, ascoltare le loro opinioni, conoscere le loro abitudini e tradizioni, informarsi sul loro modo di vivere, non può far altro che arricchire ed allargare la tua mente. E’ uno scambio utile ad entrambi: si dà e si riceve.

In alcuni casi poi c’era anche l’interesse linguistico. Ad esempio, durante i miei mesi di lavoro a Basilea, città svizzera di confine, a piedi potevo raggiungere la cittadina francese di Saint Louis, dove tutto era francese, o, sempre a piedi, la cittadina di Loerrach, in Germania.

Negli anni sessanta io ero a Zurigo ed eravamo noi allora ad essere considerati “i negri d’Europa” e tanti i luoghi comuni che circolavano su di noi e sulle nostre presunte cattive abitudini e non solo in Svizzera, ma anche in altre nazioni più a nord.

Quanti italiani c’erano in Svizzera in quegli anni? Circa 600.000, quindi un buon 10% della popolazione locale. Senza questa ingente forza lavoro la Svizzera non avrebbe potuto realizzare tutte quelle opere di cui ora può vantarsi. E’ chiaro che una forte immigrazione creava anche problemi. Se ne accorse anche lo scrittore svizzero Max Frisch che ebbe a scrivere: “Wir riefen Arbeitskraefte und es kamen Menschen”, che significa “Cercavamo forze di lavoro e sono arrivati degli esseri umani”.

La nostra emigrazione era allora ben diversa: si cercavano muratori, minatori, operai, camerieri, lavapiatti…Ora invece sono richieste figure professionali più qualificate.

Certamente colui che ha provato sulla propria pelle l’emigrazione è più tollerante ed accogliente verso chi scappa da miseria, fame, conflitti civili e guerre.

Ritengo che spetti alle scuole raccontare il nostro passato, la nostra storia, non solo le battaglie e le guerre, ma anche la lunga storia delle nostra emigrazione e le cause che l’hanno determinata.

 

Il libro prosegue con tutte le plurime e variegate esperienze lavorative che Dino inanella pur di mantenersi con le proprie fatiche dopo il servizio militare. E’ divertente seguirlo mentre fa il vigile urbano in servizio estivo a Cattolica, mentre vince il concorso in ferrovia come capostazione per essere poi bocciato alla visita medica un passo prima dell’assunzione in servizio a causa di un banale difetto nella vista, infine nell’Iraq di Saddam inviato come interprete per la fiera di Bagdad da un importante azienda faentina. In filigrana vediamo scorrere il panorama umano e sociale del boom economico: il nascente turismo della riviera, la nascita delle Ferrovie dello Stato, il protagonismo dell’industria meccanica della nostra regione, gli elettrodomestici che entrano nelle case, le scampagnate, il lusso della prima vacanze all’estero ( ex Jugoslavia, per la verità non molto oltre il confine di Trieste).

D3) Nella bella introduzione di Elisabetta Zambon leggo: “alla soglia degli ottant’anni, Landi ci insegna a non arrenderci, a cercare intorno a noi gesti di bellezza, angoli di magia, sguardi in cui rispecchiarci, mani a cui protenderci, parole da ascoltare, attimi di saggezza. Esorta a non rassegnarci all’aridità del mondo, perché svoltando l’angolo, ci attendono momenti di meraviglia e frammenti di una bellezza che riconduce al divino.” Ti chiedo: dove  sei riuscito a cogliere la meraviglia e la bellezza nell’ultimo greve anno di pandemia?

R3) Impossibile non vedere i disastri concreti di questo flagello che ha sconvolto le nostre vite. Centinaia di migliaia i decessi, anche di persone conosciute, di amici, perfino di parenti e poi tutto il resto.

Ogni morte di un tuo simile ti addolora, ti impoverisce e non solo perché potrebbe capitare anche a te. Né ci si può consolare pensando che dopo una grande tragedia, come anche dopo una guerra, ci sia poi una grande ripresa delle attività, un nuovo sviluppo, un nuovo boom o addirittura che la pandemia sia come una scopa che fa pulizia e che lascia solo i migliori, i più forti. Che orrendi pensieri…

In questa pandemia la bellezza e la meraviglia le ho viste e le vedo nelle persone buone, nelle anime generose che sono state e sono vicino alle persone colpite dal virus, nei medici e negli infermieri che, incuranti del pericolo, hanno prestato e prestano soccorso ai malati, come pure in tutti i volontari. L’altruismo e la generosità d’animo sono venuti fuori. C’è ancora tutto un mondo buono, un mondo che ci fa sperare e credere nell’uomo.

Da ciò una chiara considerazione sull’importanza della propria salute, su quanto convenga preservarla facendo tutte le attenzioni del caso.

La clausura che ci è toccato vivere, mi ha lasciato tanto tempo per studiare, per leggere e anche per scrivere.

Mi ha ancora una volta fatto riflettere su quali siano le cose veramente importanti nella vita ed apprezzare le persone che mi sono state vicino, gli amici che in questo periodo di grande solitudine, seppure da lontano, hanno continuato ad interessarsi di me e della mia salute… 

A cura di Roberto Rinaldi Ceroni