Lo incontrai un paio d’anni fa, durante le manifestazioni di Roma per il vertice FAO. Un ometto piccolino, novello Asterix della resistenza alle forze del male. Attorniato da una folla di giornalisti e fotografi Bové, l’agricoltore eroe della battaglia per il buon cibo, si muoveva come una diva del cinema.

Sicuramente una delle anime più visibili di un corteo che sotto la grande bandiera dell’autonomia alimentare come diritto di ogni paese, vedeva unite confederazioni di base di campesinos sudamericani, pescatori tailandesi animalisti europei ed ogni più varia umanità. Da osservatore era netta la sensazione che tutto si muovesse sul binario di un grande equivoco in parte volutamente malinteso e tenuto in vita artificialmente. Che fosse così facile mettere insieme gli interessi di tante differenti parti sociali e culturali appariva infatti vera utopia in terra, quasi un miracolo che poteva veramente far sperare in tempi migliori. I fatti di oggi sembrano dare ragione dell’equivoco. Probabilmente gli agricoltori del sud della Francia oggi festeggiano la vittoria di quella che credevano una battaglia impossibile, forse ben più delle sottili querelle filosofiche e sociali che hanno infiammato il paese negli ultimi mesi, più della paura quasi filosofica dell’idea di uno stato continentale, forse il fronte del no deve dire grazie ad un allarmismo che si intreccia tra stomaco e portafoglio. D’altro canto non era certo un mistero che quegli stessi agricoltori alla necessità di una europa unita per fronteggiare le grandi sfide economiche planetarie, rispondessero indicando spagna, italia e grecia, quali loro principali nemici. Non so cosa potrei rispondere ora alle domande che un amico di Tegucigalpa mi aveva fatto appena un mese fa circa il ruolo dell’europa rispetto all’egemonia americana, circa la possibilità che l’unione potesse diventare un faro sociale anche per i paesi del centro america. Già allora avevo cercato di stemperare il suo ottimismo nel progetto europeo, la distanza crea sempre illusioni e distorsioni, le nostre speranze fanno poi il resto, ma oggi veramente non saprei cosa rispondere. Quella famosa europa dei popoli che proprio strani movimenti di contestazione invocavano è oggi molto più lontana. Questo famoso trattato costituzionale, lungo e farraginoso, non è certo l’idea stessa di perfezione, non è neanche l’immagine della sintesi che uno si immagina sentendo la parola costituzione, e richiamando alla mente le grandi declamazioni illuministiche o anche la nostra bella costituzione. Se la sintesi è una bella cosa, in certi casi se ne però deve anche diffidare, spesso rischia di non trattenere nessun caso concreto. I tempi che stiamo vivendo di casi concreti ne devono affrontare invece moltissimi, ed il complesso Trattato Europeo nel bene e nel male cercava di prenderne in considerazione il più possibile. Dubito che siano stati i molti specifici dubbi presenti negli oltre 420.000 caratteri distribuiti sulle 135 pagine che costituiscono la Costituzione a muovere la maggior parte del fronte del no. Quello che abbiamo visto sembra più il riemergere carsico di un nazionalismo che fa del motto ‘si salvi chi può’ la sua bandiera. Difficile parlare infatti di presunte questioni di principio, difficile invocare magari l’assenza dell’elemento religioso quale collante europeo, come invocato da altri paesi, trattandosi proprio della laicissima Francia. Onestamente fa male sapere che proprio quelle parti politiche che si ritengono di estrema sinistra, che quindi si rifanno direttamente al comunismo, si siano alleate all’estrema destra per boicottare il progetto europeo nel nome di una presunta perdita di diritti sociali di fronte al liberismo in salsa europea. Viene spontaneo domandare nel nome dei diritti sociali di chi si sono mosse se non rispetto a quelli dei soli francesi. Il principio di privilegio è sempre pericoloso, le questioni del presente ci obbligheranno non solo con le buone a dover rivedere i nostri privilegi, ed è buffo che gli eredi diretti delle internazionali, si trovino oggi orfani volontari proprio del presupposto internazionale. Bisognerebbe ricordare anche ad una parte della nostra estrema sinistra, che fuori da questa prospettiva è difficile trovare differenze concettuali con modelli nazional socialisti, già visti anche nel nostro paese. Senza neanche un miraggio al quale orientarsi la speculazione sui moderni diritti del lavoro, rischia fin troppo facilmente di perdersi nel più bieco interesse delle parti, lasciando campo libero proprio a chi professa un liberismo sfrenato sordo ad ogni danno sociale. Il progetto Europeo chiamato dalla candidatura della Turchia a superare i suoi vizi giovanili, chiamato realmente a definirsi creazione progettuale e non etnica o religiosa, non sembra avere retto ai primi problemi economici. I costi dell’entrata dei paesi dell’est, chiamati a noi, terra delle libertà da oltre mezzo secolo, l’effetto cascata delle economie asiatiche, sembra essere bastato per mandare in frantumi la fiducia dei cittadini francesi. La situazione è grave, in questo grande gioco dell’oca fatto di monete, frontiere, quote latte e fondi strutturali, il lancio di dadi di ieri ci riporta in dietro ben oltre lo scorso autunno. Meglio sarebbe stato aver posticipato all’infinito questa benedetta costituzione, lasciando tutto nel volontario malinteso. L’Europa di oggi è ben diversa da quella di ieri, più che ad un sogno utopico fatto di ponti che uniscono e porte spalancate come non a caso è stampato sulle nostre banconote, assomiglia ad una corte cupa, fatta di trame, intrighi e complotti, unito per ora solo da grigi e burocratici trattati a cui nessuno vuole credere. Se una buona parte dei paesi membri decideranno tramite referendum la loro ratifica, il messaggio di sfiducia di oggi assume un’importanza estrema, quasi un manifesto di abbandono a cui non so bene come Bruxelles possa porre riparo. Nei nostri tempi così disillusi, il voto di ieri, consegna non una critica, ma la totale sfiducia nella possibilità di creare un modello politico aperto dove provare ad elaborare una nuova forma di redistribuzione delle risorse e delle ricchezze. Il voto di ieri riafferma, se ce ne fosse ancora bisogno, che l’unico modello economico in cui sembriamo credere e quello dello sfruttamento non solo dell’uomo sull’uomo, ma anche dello stato sullo stato. Se pensavamo di far cambiare idea ai cinesi, sulla correttezza sociale e morale del loro sviluppo economico, rinunciamo velocemente, anche questo segnale non può che trasmettere proprio l’idea che chi ha un vantaggio economico è giusto che se lo tenga stretto. Quindi, in questa ovvia e pragmatica prospettiva, si salvi chi può.

Andrea Benassi
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