“Vai Girardengo, vai grande campione nessuno ti segue su quello stradone…” era il ritornello di una canzone che raccontava di biciclette e tradimenti, di un campione e un bandito, di chi corre per rabbia o per amore.
Non so se Filippo accettò per rabbia o per amore, in ogni caso la scelta fu coraggiosa.
Cosa c’è di peggio di un week-end di fine dicembre in mountain-bike sul Monte Conero?
Forse qualcosa di peggio esiste, ma se si aggiunge “in compagnia di 4 casolani sprovveduti” il cerchio delle alternative si stringe prepotentemente.
Non so quale sia il livello sottostante alla categoria “cicloamatore”, ma una cosa è certa: noi facevamo parte di quella schiera più bassa e indefinita: rozzi, ineleganti e soprattutto poco allenati.

Il programma prevedeva: Sabato all’alba partenza in treno da Castelbolognese con biciclette al seguito fino ad Ancona, nel pomeriggio pedalata prologo Ancona-Sirolo (sulla carta una sgambata, si rivelerà poi un calvario), cena e alloggio in bed&breakfast. Domenica: sveglia all’alba (…e sono 2 consecutive), uscita sul temutissimo percorso “Anello Alto del Monte Conero”, pranzo e pedalata fino ad Osimo per poi prendere il treno del ritorno.
La nostra storia, però, ha un importante preambolo: l’uscita di allenamento.

Dal cicloamatore in su ci si prepara per mesi e mesi con diete, tabelle e grafici, noi invece, i “ciclodisperati”, facciamo esclusivamente un allenamento pochi giorni prima di modo che sia controproducente, ma esorcizzante.
Il ritrovo era previsto alle ore 9 nel parcheggio davanti a casa mia.
Alle 10,15 si presenta il primo con una bicicletta nuova, lucidissima, dove l’etichetta della taglia “14 anni” si rispecchiava dal sottosella al cannone principale.
“L’ho comprata ieri al centro commerciale” disse: “79 euro, va che è una bomba!”.
Non finiamo di ridere che arriva un altro: bicicletta ultra tecnologica di seconda mano acquistata da un collega semiprofessionista, colore nero spazio con componentistica cromata. Niente da eccepire se non per l’abbigliamento del “ciclopilota”: scarpa da ginnastica usurata, acquistata 5 anni prima per fare ginnastica alle superiori, pantacalze nere con annesso sopracalzettino da calcio azzurro cielo fino a metà gamba con tanto di effetto ballerina di Flashdance, maglia attillata antivento, arancione, di almeno 2 taglie inferiori con manica a tre-quarti: per le dimensioni ristrette, non per il design. Completano l’abbigliamento un paio di guanti da portiere e un vecchio casco da pattinaggio, poi abbandonato perché impediva la visuale laterale.
Prendiamo atto che non siamo per niente allenati e decidiamo, di conseguenza, di fare il giro più duro possibile: Monte Mauro.

Il passo è lento ed il gruppo è compatto, ma appena dopo 6 km il nostro compagno dalla bici “economica” perde il pedale (galeotto fu il filetto e chi lo strinse) ed è costretto al ritiro. Noi continuiamo e dopo la cima inizia la discesa nel bosco. Dopo la prima serie di salti la bici ultratecnologica del nostro secondo compagno ha un clamoroso guasto al cambio con conseguente blocco della catena tra le razze della ruota. Altro ritiro, “a casa a piedi” con tanto di coro da stadio.
Concludono l’allenamento una foratura e una caduta.
Resoconto allenamento pre-Conero: partecipanti 5, ritirati per cause tecniche 3, infortunati 1 e il quinto è miracolosamente sano e salvo.

Ma torniamo alla nostra uscita nel Conero.

Partiamo in treno in orario e giungiamo ad Ancona.
Non ero mai stato ad Ancona e se ci tornerò non lo farò in bici.
Un inferno, una serie continua di sali e scendi che portano a chiedermi se i 7 colli fossero veramente a Roma e non ad Ancona, una specie di Dolomiti dove le pendenze del 20% sono in mezzo ai palazzi e al traffico intenso.
Arranchiamo già dopo pochi chilometri, per Sirolo ne mancano ancora una trentina e di pianeggiante c’è solo il mio battito cardiaco che si è snervato irreparabilmente dopo aver superato l’effetto sismografo settimo grado scala Mercalli.
“Benvenuti a Sirolo” suona come “Benvenuti in Paradiso” e le allucinazioni, che ormai hanno avuto il sopravvento, mi mostrano una Venere nuda in mezzo alla rotonda alle porte del paese.
Non so come sta Filippo, ma il fatto di averlo a ruota mi porta ad allungare il passo dalla paura di essere per lui la stessa visione che io ho davanti.

Giungiamo in albergo e molto umanamente il gestore, non avendo l’ampio parcheggio custodito raffigurato nelle foto ingannevoli sul sito, ci fa portare le bici a spalla nel terrazzo al terzo piano. Una sgommatina nel muro, sbadatamente voluta, fu più di un pensiero.
Decidiamo, per riposarci, di passare un po’ di tempo in riva al mare.
E’ li che ho capito perché la Berté nella canzone “il mare d’inverno” diceva “…Mare mare, qui non viene mai nessuno a farci compagnia…”, forse era al mare a Sirolo.

Il mare a Sirolo è giù, giù, in fondo, quasi nelle fogne del paese, a un’ora e mezzo di via ferrata dalla piazza del centro. In poco più di 2 ore, manco fossi Dante nella Divina Commedia, passo dalla paradisiaca Venere della Rotonda alle viscere di Sirolo, laggiù nella spiaggia sita in fondo ai gironi infernali, tali sono le pene per raggiungerla.
Dopo una pausa sugli scogli risaliamo in cordata e dopo una breve rianimazione andiamo a cena più stanchi di prima.
La dieta è alla base della vita sana di un atleta e per non correre il rischio andiamo al ristorante per una cena leggera a base di pesce: antipasti, 2 primi, 4 grigliate, fritti, caffé, grappe a volontà e tutti a letto presto poiché ci attendeva al mattino seguente l’Anello alto del Monte Conero.

Ci alziamo clamorosamente in orario e finalmente raccogliamo i frutti della seduta di allenamento svolta la settimana prima: l’unico dei 5 che era arrivato illeso ha la febbre a 38 e mezzo e non viene a fare il giro. Mi sembra una giusta punizione.
L’Anello è duro fin da subito, fortunatamente sbagliamo spesso la strada e le pause di orientamento ci permettono di rifiatare.
L’uomo, per sua indole, è agonista e vive ogni situazione come una sfida alla selezione naturale. Tale era la salita.
Sebbene non fossimo allenati ognuno era attento alla condizione degli altri, arrivare per primi in cima avrebbe chiuso senza appelli qualsiasi futura discussione al bar.

Per anni “Il Lungo” le ha avute tutte vinte perché al torneo di calcetto segnò il rigore della vittoria e pur sapendo che lo tirò di punta e ad occhi chiusi era per lui un precedente inappellabile.
L’uscita nel Conero era l’anno zero della nostra gerarchia e questa occasione di primeggiare non l’avrei persa per niente al mondo. Mi ero risparmiato sia ad Ancona che in spiaggia e a cena avevo lasciato l’ultima Orata proprio al Lungo sapendo che l’avrebbe pagata cara nella salita decisiva.
Detto fatto. All’improvviso mi alzo sui pedali, slaccio la cerniera del collo per far vedere che non temo niente, neanche di doverla richiudere al volo con una mano sola correndo il rischio di lasciarci i peli del petto incastrati e mi involo verso la cima.

Il ritmo aumenta, pedalo a testa bassa e dopo poco mi accorgo che ho fatto il vuoto dietro di me.
Intono “Vai Girardengo” ma non arrivo a dire il “nessuno ti segue” che gli altri mi sono davanti.

Avevo sbagliato strada.

In vetta ci aspettava una fantastica visuale panoramica che avrebbe ripagato le nostre fatiche.
La nebbia fitta e densa, stile partita a tennis di Fantozzi, che si alzò al nostro arrivo fu la mazzata finale.
Per fortuna di lì a Sirolo fu solo discesa e bagarre tra staccate e alberi evitati per un pelo per grazia divina.

Filippo, sempre a ruota, cerca ancora la sua Venere perché all’arrivo dell’Anello, proprio nella rotonda delle visioni, sono passato prima io e mi sembra di ricordare che l’ho anche un po’ staccato.

Ma sarà vero?

La prossima volta Filippo scriverà l’articolo, scegliendo di correre per amore di quella Venere o per la rabbia nei miei confronti per questa cronaca di parte, con la conseguente possibilità di correggere il finale a suo favore, perché i Girardengo, i banditi e soprattutto i ciclodisperati corrono sempre per qualcosa, tipo rendere epica, interessante ed unica una semplice scampagnata con gli amici.

Mandaro e gli altri
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